INFORMAZIONI SU QUESTO LIBRO-BLOG

Questa storia narra di dieci anni vissuti da Katia e da Giuliano.
Il racconto è un "binario", costruito a "doppi capitoli", scritti individualmente dai due autori.
Ogni anno raccontato, dal 2003 al 2013, racchiude cinque capitoli, al termine dei quali,
si conclude un paragrafo e sono pubblicate delle immagini inerenti gli stessi capitoli.
Il libro, nel suo complesso, avrà pertanto 10 paragrafi, composti da 5 doppi capitoli ciascuno.
La pubblicazione di ogni nuovo capitolo avviene senza un tempo determinato, essendo attualmente in fase di creazione.

p.s.: non possiamo essere responsabili della traduzione tramite google che, purtroppo, risulta NON essere completamente compatibile con il testo originale in lingua italiana.

contatto:emaildiecianni@gmail.com
Grazie per seguirci.
Katia & Giuliano

lunedì 11 novembre 2013

2003 - Capitolo 1: Brasile


Capitolo 1: Brasile

Corro.
Faccio il giro dell’unica piazza della mia piccola città brasiliana e, quasi senza fiato, arrivo in Italia, nel posto dove una volta c’era il Circo.
Guardo intorno e niente… nulla del tendone, né dell’odore di zucchero filato o dei cocomeri distribuiti in mezzo a tante risate.
Il posto e’ vuoto, ed è diventato un parcheggio.
In un angolo, ad un tavolo, c’è un uomo- pagliaccio che mangia lentamente una minestra.
Mi guarda e dice: - “Vattene, che il circo non c’e più!”.
Vado via, senza parole.

Sognavo spesso questo stesso sogno, dal primo giorno che ritornai in Brasile, dopo l’esperienza straordinaria di aver vissuto in un circo italiano e finalmente diventare un clown.
Da quel momento in avanti non ero più riuscita a combinare nulla di particolare, tranne affinare la capacità di divenire ogni volta sempre più povera.
L’esperienza del circo mi aveva scombinato e non ero stata capace di comprenderla bene;
ero ancora troppo giovane per poter gestire la bellezza e la bruttezza delle cose.
Era il terzo anno che cercavo un modo di ritornare al circo, ma sempre invano.
Riuscire a ricavare i soldi del biglietto aereo per l’Italia era diventata un’ossessione.
Era come  la ricerca al Santo Graal, o delle Terre sperdute dell’Eldorado.
Nel mese di giugno del 2003 sono stata invitata da una mia cara amica a far da narratrice al suo spettacolo di danza indiana in Luanda, capitale dell’Angola, in Africa.
Confesso che, in fondo, accettai soltanto per essere geograficamente più vicina al mio agognato Paese a forma di stivale.
Dentro di me nutrivo pensieri assurdi, come quello di attraversare l’Africa a piedi, con scarponi da clown, arrivare fino in Sicilia, mangiare un’oliva, per poi prendere il treno e raggiungere il circo a Roma.
Ma il soggiorno in Angola mi ha dimostrato che quello non era il posto adatto per sognare.
Ero talmente sconvolta dalla realtà africana che, nel giorno dello spettacolo, io la narratrice, avevo perso completamente la voce e, di conseguenza, anche l’amica.
Questa sarebbe stato il primo addio, in quell’anno, di un’amicizia che, come successivamente le altre, scivolò via.

Dopo l’Africa, ero sicura che anche stavolta non ci sarebbe stata alcuna possibilità di rivedere il circo.
Mi sentivo estremamente sola e senza riferimenti, ma istintivamente credetti che se potesse esserci un Maestro per l’arte del clown, questo era il Pubblico.
Però non sapevo produrre, nè vendere uno spettacolo e nonostante avessi ottenuto regolare licenza come Clown, rilasciata dal Ministero del Lavoro di Sao Paolo, non riuscivo a capire la logica del “mondo lavorativo” e, ancor peggio, il mio senso organizzativo era inesistente.
Ma questo non fu un vero impedimento per l’incontro con il pubblico, perché c’era dovunque!
Allora realizzavo i miei spettacoli gratuitamente in piazza, nelle scuole e dove capitava.
Non provavo mai, seguivo una bozza idealizzata e improvvisavo direttamente in scena.
I risultati non erano sempre positivi. 
A volte erano perfino disastrosi come quando, in un quartiere “difficile”, i bambini mi legarono ad un palo della luce e fuggirono via con la mia valigia o quando, in una scuola privata, i bambini mi riempirono di insulti e pallottole di carta.
Tutto questo non era certo piacevole, ma per nulla mi fece desistere, anzi, confermava un pensiero  che nutrivo nel profondo che, per quest’arte, è necessario assolutamente mettersi in gioco e che occorre del tempo.
Tempo per vivere e invecchiare.
Non vedevo l’ora di invecchiare.
La vecchiaia per me, è il cammino naturale verso la libertà di sé e ci permette di ritrovare nuovamente l’infanzia.
Nessuno rimprovera un anziano che esce di casa in pigiama, verrebbe subito giustificato.

Però avevo 28 anni  e non avevo la minima pazienza con la Vita.
Ero inesperiente e piena di pretese, la vecchiaia e l’infanzia erano troppo lontane da me.
Non riuscivo per niente ad accettare le rotture, le partenze ed i cambiamenti continui delle cose.
Nonostante sentissi che facendo così, tutt’attorno a me aveva preso un colore sbiancato e che non provassi mai una vera gioia in ciò che facevo, non permettevo che nessun vento sbilanciasse questa finta stabilità che avevo creato nella mia vita. 
Un equilibrio precario tra forze opposte e, come un funambolo, cercavo di librarmi.

Per me era tutto perfetto.
Abitavo in due luoghi molto diversi tra loro: Sao Paolo, la grande metropoli e Atibaia, una piccola cittadina.
Lavoravo con l’energia estroversa del clown e con il silenzio solitario della pittura e dell’ artigianato.
Ogni cosa dipendeva dal suo contrario e non riuscivo ad immaginare altrimenti.

A Sao Paolo avevo un importante sostegno affettivo: il mio compagno di scena, con il quale per tante volte ho diviso il palco e mi affiancò nella creazione degli spettacoli.
Un musicista con il talento nato per l’allegria, che divideva con me la sua propria famiglia.
Da quando ero rimasta senza riferimento materno, sua madre divenne anche la mia e a lei ero amorevolmente e profondamente legata.
Ma in quell’anno, grandi sorprese mi aspettavano… e presto, il fragile equilibrio della  mia vita, scomparve.
Avvenne un’improvvisa rottura della nostra relazione e fui costretta ad abbandonare la città di Sao Paulo e con lei i suoi grattacieli, la mamma, gli spettacoli, gli amici e tutto ciò che mi era caro.
Ed io, che credevo di avere soltanto un unico pensiero, quello del ritorno impossibile al circo, adesso dovevo affrontare un terremoto immenso.
Sentivo il pavimento mancare e, solo molto più tardi, capii che più grande è il sonno e più forte sono le scosse.
Una grande parte della mia Vita era stata strappata dal vento. Ero zoppa.
E adesso mi restava solo Atibaia.
Non credevo che, dopo tanto girovagare, fossi ritornata al punto di partenza, nella città dove sono nata, in quella piccola località ai piedi di una montagna.
Atibaia che, in lingua indigena, significa “acqua buona”.
Ma le meravigliose sorgenti d’acqua minerale erano scomparse da vent’anni e con loro gli alberi e gli animali della montagna.
Tutto spazzato via dal “progresso”, diceva la gente.
Non è un caso che nella bandiera del Brasile c’è la scritta “ordine e progresso”.
Secondo me si può leggere cosi: “ l’ordine è il progresso”.
Un progresso che non è capace di amare un albero, un fiume e nemmeno un bambino.
Ero “stretta” in quella città, come indossare una scarpa con un numero di meno, e certamente il mio atteggiamento sfiduciato non mi aiutava.
Diversamente da Sao Paulo, dove scomparivo allegramente in mezzo alla folla d’ignoti, ad Atibaia nessuno camminava immune agli sguardi.
Tutti conoscevano e sapevano tutto di tutti.
Di chiunque si conosceva l’intero albero genealogico, e le vicende personali, e quello che non si sapeva con certezza, la gente se lo inventava, così, per passare il tempo.
La vita culturale era ridotta, come pure tutto il resto, o forse era solo la mia impressione e sicuramente non ero in un buon momento per vederci chiaro.
Se fossi stata più aperta alla Vita, se non avessi avuto tanta resistenza ai cambiamenti, potrei capire che per tutto questo c’era una ragione invisibile e che, in verità, i cambiamenti sono le possibilità.
Ignoravo tutto e mi lamentavo.
Mi si era fermata anche l’ossessione del circo.
I miei scarponi da clown erano ormai rinchiusi in un armadio.
Mi ritirai dentro di me.

Mi misi a dipingere e a creare oggetti artigianali.
In ottobre, vendevo in un banchetto, al mercato degli artigiani ed ero profondamente a disagio.
Non volevo accettare per niente il mio destino.
Volevo lottare contro tutto ciò che mi era accaduto.
Fui colpita dal pensiero improvviso che non sopportavo più l’idea di rimanere ad Atibaia! .
Decisi che sarei ritornata a Sao Paulo, ad ogni modo, e che sarei ripartita l’indomani mattina.

Katia.

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