Capitolo 1: Brasile
Corro.
Faccio il giro dell’unica piazza
della mia piccola città brasiliana e, quasi senza fiato, arrivo in Italia, nel
posto dove una volta c’era il Circo.
Guardo intorno e niente… nulla
del tendone, né dell’odore di zucchero filato o dei cocomeri distribuiti in
mezzo a tante risate.
Il posto e’ vuoto, ed è diventato
un parcheggio.
In un angolo, ad un tavolo, c’è
un uomo- pagliaccio che mangia lentamente una minestra.
Mi guarda e dice: - “Vattene,
che il circo non c’e più!”.
Vado via, senza parole.
Sognavo spesso questo stesso
sogno, dal primo giorno che ritornai in Brasile, dopo l’esperienza
straordinaria di aver vissuto in un circo italiano e finalmente diventare un
clown.
Da quel momento in avanti non ero
più riuscita a combinare nulla di particolare, tranne affinare la capacità di
divenire ogni volta sempre più povera.
L’esperienza del circo mi aveva
scombinato e non ero stata capace di comprenderla bene;
ero ancora troppo giovane per poter gestire la bellezza e la bruttezza delle cose.
ero ancora troppo giovane per poter gestire la bellezza e la bruttezza delle cose.
Era il terzo anno che cercavo un
modo di ritornare al circo, ma sempre invano.
Riuscire a ricavare i soldi del
biglietto aereo per l’Italia era diventata un’ossessione.
Era come la ricerca al Santo Graal, o delle
Terre sperdute dell’Eldorado.
Nel mese di giugno del 2003 sono
stata invitata da una mia cara amica a far da narratrice al suo spettacolo di
danza indiana in Luanda, capitale dell’Angola, in Africa.
Confesso che, in fondo, accettai
soltanto per essere geograficamente più vicina al mio agognato Paese a forma di
stivale.
Dentro di me nutrivo pensieri
assurdi, come quello di attraversare l’Africa a piedi, con scarponi da clown,
arrivare fino in Sicilia, mangiare un’oliva, per poi prendere il treno e
raggiungere il circo a Roma.
Ma il soggiorno in Angola mi ha
dimostrato che quello non era il posto adatto per sognare.
Ero talmente sconvolta dalla
realtà africana che, nel giorno dello spettacolo, io la narratrice, avevo perso
completamente la voce e, di conseguenza, anche l’amica.
Questa sarebbe stato il primo
addio, in quell’anno, di un’amicizia che, come successivamente le altre,
scivolò via.
Dopo l’Africa, ero sicura che
anche stavolta non ci sarebbe stata alcuna possibilità di rivedere il circo.
Mi sentivo estremamente sola e
senza riferimenti, ma istintivamente credetti che se potesse esserci un Maestro
per l’arte del clown, questo era il Pubblico.
Però non sapevo produrre, nè vendere uno spettacolo e
nonostante avessi ottenuto regolare licenza come Clown, rilasciata dal
Ministero del Lavoro di Sao Paolo, non riuscivo a capire la logica del “mondo
lavorativo” e, ancor peggio, il mio senso organizzativo era inesistente.
Ma questo non fu un vero
impedimento per l’incontro con il pubblico, perché c’era dovunque!
Allora realizzavo i miei
spettacoli gratuitamente in piazza, nelle scuole e dove capitava.
Non provavo mai, seguivo una
bozza idealizzata e improvvisavo direttamente in scena.
I risultati non erano sempre
positivi.
A volte erano perfino disastrosi
come quando, in un quartiere “difficile”, i bambini mi legarono ad un palo
della luce e fuggirono via con la mia valigia o quando, in una scuola privata,
i bambini mi riempirono di insulti e pallottole di carta.
Tutto questo non era certo
piacevole, ma per nulla mi fece desistere, anzi, confermava un pensiero che nutrivo nel profondo che, per
quest’arte, è necessario assolutamente mettersi in gioco e che occorre del
tempo.
Tempo per vivere e invecchiare.
Non vedevo l’ora di invecchiare.
La vecchiaia per me, è il cammino
naturale verso la libertà di sé e ci permette di ritrovare nuovamente
l’infanzia.
Nessuno rimprovera un anziano che
esce di casa in pigiama, verrebbe subito giustificato.
Però avevo 28 anni e non avevo la minima pazienza con la
Vita.
Ero inesperiente e piena di pretese,
la vecchiaia e l’infanzia erano troppo lontane da me.
Non riuscivo per niente ad
accettare le rotture, le partenze ed i cambiamenti continui delle cose.
Nonostante sentissi che facendo
così, tutt’attorno a me aveva preso un colore sbiancato e che non provassi mai
una vera gioia in ciò che facevo, non permettevo che nessun vento sbilanciasse
questa finta stabilità che avevo creato nella mia vita.
Un equilibrio precario tra forze
opposte e, come un funambolo, cercavo di librarmi.
Per me era tutto perfetto.
Abitavo in due luoghi molto
diversi tra loro: Sao Paolo, la grande metropoli e Atibaia, una piccola
cittadina.
Lavoravo con l’energia estroversa
del clown e con il silenzio solitario della pittura e dell’ artigianato.
Ogni cosa dipendeva dal suo
contrario e non riuscivo ad immaginare altrimenti.
A Sao Paolo avevo un importante
sostegno affettivo: il mio compagno di scena, con il quale per tante volte ho
diviso il palco e mi affiancò nella creazione degli spettacoli.
Un musicista con il talento nato
per l’allegria, che divideva con me la sua propria famiglia.
Da quando ero rimasta senza
riferimento materno, sua madre divenne anche la mia e a lei ero amorevolmente e
profondamente legata.
Ma in quell’anno, grandi sorprese
mi aspettavano… e presto, il fragile equilibrio della mia vita, scomparve.
Avvenne un’improvvisa rottura
della nostra relazione e fui costretta ad abbandonare la città di Sao Paulo e
con lei i suoi grattacieli, la mamma, gli spettacoli, gli amici e tutto ciò che
mi era caro.
Ed io, che credevo di avere
soltanto un unico pensiero, quello del ritorno impossibile al circo, adesso
dovevo affrontare un terremoto immenso.
Sentivo il pavimento mancare e,
solo molto più tardi, capii che più grande è il sonno e più forte sono le
scosse.
Una grande parte della mia Vita
era stata strappata dal vento. Ero zoppa.
E adesso mi restava solo Atibaia.
Non credevo che, dopo tanto
girovagare, fossi ritornata al punto di partenza, nella città dove sono nata,
in quella piccola località ai piedi di una montagna.
Atibaia che, in lingua indigena,
significa “acqua buona”.
Ma le meravigliose sorgenti
d’acqua minerale erano scomparse da vent’anni e con loro gli alberi e gli
animali della montagna.
Tutto spazzato via dal
“progresso”, diceva la gente.
Non è un caso che nella bandiera
del Brasile c’è la scritta “ordine e progresso”.
Secondo me si può leggere cosi: “
l’ordine è il progresso”.
Un progresso che non è capace di
amare un albero, un fiume e nemmeno un bambino.
Ero “stretta” in quella città, come
indossare una scarpa con un numero di meno, e certamente il mio atteggiamento
sfiduciato non mi aiutava.
Diversamente da Sao Paulo, dove
scomparivo allegramente in mezzo alla folla d’ignoti, ad Atibaia nessuno
camminava immune agli sguardi.
Tutti conoscevano e sapevano
tutto di tutti.
Di chiunque si conosceva l’intero
albero genealogico, e le vicende personali, e quello che non si sapeva con
certezza, la gente se lo inventava, così, per passare il tempo.
La vita culturale era ridotta,
come pure tutto il resto, o forse era solo la mia impressione e sicuramente non
ero in un buon momento per vederci chiaro.
Se fossi stata più aperta alla
Vita, se non avessi avuto tanta resistenza ai cambiamenti, potrei capire che
per tutto questo c’era una ragione invisibile e che, in verità, i cambiamenti
sono le possibilità.
Ignoravo tutto e mi lamentavo.
Mi si era fermata anche
l’ossessione del circo.
I miei scarponi da clown erano
ormai rinchiusi in un armadio.
Mi ritirai dentro di me.
Mi misi a dipingere e a creare
oggetti artigianali.
In ottobre, vendevo in un
banchetto, al mercato degli artigiani ed ero profondamente a disagio.
Non volevo accettare per niente
il mio destino.
Volevo lottare contro tutto ciò
che mi era accaduto.
Fui colpita dal pensiero
improvviso che non sopportavo più l’idea di rimanere ad Atibaia! .
Decisi che sarei ritornata a Sao
Paulo, ad ogni modo, e che sarei ripartita l’indomani mattina.
Katia.
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