Capitolo 1: Brasile
Non immaginavo il Brasile.
Preferivo evitare di pensare come
fosse, prima di conoscerlo.
Nel febbraio del 2003, avevo
finalmente fondato un’associazione di volontariato alla quale avevo dato nome
“darearte”, dopo un lungo processo necessario alla sua creazione durato un’anno
intero, e con “lei” mi ero proposto di vedere cosa potevo fare in una terra
così lontana da me, come quella brasiliana.
La fondazione di “darearte” era
la conseguenza di una ricerca profonda, di una personale necessità di sviluppo
interiore.
Ero un fotografo professionista,
collaboravo con uno studio fotografico di Genova e avevo qualche cliente, che
mi permettevano, arrotondando con altri piccoli lavori, di mantenere un certo
stile di vita: un’auto, uno scooter e un’appartamento in affitto.
Da un paio d’anni vivevo una
storia d’amore con una ragazza ungherese, residente in Italia da tempo, che mi
sostenne e partecipò alla fondazione dell’associazione.
Oltre lei, altre tre persone
avevano creduto nell’idea che l’Arte potesse essere anche solidale e di voler
creare progetti educativi e d’intrattenimento creativo per sostenere lo
sviluppo di bambini con meno opportunità.
Ma dopo pochi mesi ed aver
realizzato alcuni progetti in Italia, già uno di noi ci aveva girato le spalle
e ai pochi restanti era scemato l’entusiasmo iniziale.
Questo rinforzò la scelta di
cercare altrove energie per “darearte” e decisi di farlo in Brasile.
L’unico contatto che avevo in
questo immenso Paese, era con un’amica che abitava ad Atibaia, una piccola
cittadina a 60 chilometri dalla grande San Paolo.
Una donna che avevo conosciuto
una dozzina di anni prima, quando lessi su un giornale la sua richiesta d’aiuto
per perfezionare lo studio della lingua italiana.
Risposi e, attraverso lettere scritte
a mano, diventammo amici e decidemmo di incontrarci nel suo viaggio in Toscana,
l’anno successivo.
Fu così che conobbi lei e suo
figlio di 10 anni, e li ospitai per qualche giorno a Genova.
Trascorsero molti anni, da
quell’incontro, e da almeno dieci, ci eravamo completamente persi di vista, ma
l’avvento di Internet favorì il nostro secondo riavvicinamento.
Così, ritrovata per e-mail, le
raccontai di me e di “darearte” e le domandai se fosse a conoscenza di qualcosa
di attinente a ciò che mi proponevo di fare.
Mi rispose che in qualche rara
occasione aveva visto una signora che, per strada, insegnava danza a delle
bambine scalze.
Questo fu sufficente.
Dunque, da solo, partii, ricco di
speranze d’incontrare un nuovo Mondo che mi potesse accogliere per ciò che
potevo fare, con mille paure e incognite, ma spinto dal coraggio e dalla
volontà di vivere fino in fondo questa scelta.
Il giorno che giunsi in Brasile,
a Sao Paulo e poi ad Atibaia, era l’11 ottobre 2003.
Il giorno dei bambini, in
Brasile.
E adesso, era anche il mio.
La mia amica mi accolse con
entusiasmo e generosità, ospitandomi nella sua casa che condivideva con
l’anziana madre, il figlio, ora maggiorenne, ed il vecchio cane.
Una stanza era pronta per me, per
restare il tempo stabilito, un intero mese.
Ero in Brasile, finalmente, e lì
potevo ricominciare.
Dopo aver realizzato ed essermi
stabilizzato, mi diedi da fare per conoscere le istituzioni e le associazioni,
enti e case di accoglienza che gravitavano intorno a coloro che erano il mio obiettivo:
i bambini in difficoltà.
Così conobbi tutti.
Tutte le entità e le associazioni
che operavano nel settore, da coloro che si occupavano di dare alimento a
bambini di strada, a coloro che sostenevano le bambine in stato di gravidanza,
dalla prima donna, moglie del sindaco della città, all’ultima povera donna,
madre di una dozzina di figli di mariti diversi.
E fu proprio con queste ultime
due che ebbi a che fare, la prima, moglie del Sindaco, e responsabile
dell’Istituzione Pubblica di solidarietà sociale, con la quale feci la mia
prima visita alla favela, chiuso dentro una macchina completa d’autista, a
finestrini chiusi, e la seconda, madre di un numero indefinito di figli,
residente in una baracca nella favela considerata la più pericolosa della regione,
con la quale vissi momenti di una bellezza tanto elevata che mai dimenticherò
nella vita.
La visita alla favela, con la
moglie del Sindaco, la feci accompagnato dalla mia amica, che per una settimana
tentò di seguire ciò che io volevo impiantare nella sua città.
Ma, infelicemente, non riuscì a
capire esattamente ciò che volevo fare.
E nemmeno il perché.
E nonostante fosse in imbarazzo
per l’intenzione di aiutarmi, rinunciò a starmi al fianco in questa avventura
perché, mi confessò, non si sentiva all’altezza.
Tentai più volte di farle capire
che non si trattava di avere particolari capacità, di essere buoni, forti o di
essere filantropi, ma di essere semplicemente Umani.
Umani che, con tutti i loro
limiti, imparano ad ascoltarsi, insieme, e cercano di capire come possono
migliorare questo ascolto.
Facendo ciò che detta il cuore, o
l’istinto o quella voce che li avvicina agli altri.
Un semplice scambio per
ritrovare, attraverso questo, se stessi.
Ma questo, a volte, appare come
un qualcosa di insormontabile, di impossibile.
E colui che dovrebbe essere
l’altro, diviene uno sconosciuto, una minaccia.
La paura ha il sopravvento, ci allontana da quel piccolo spiraglio di luce, di possibilità.
La paura ha il sopravvento, ci allontana da quel piccolo spiraglio di luce, di possibilità.
E si rinuncia, giustificando
tutto.
Ebbene, la mia amica si giustificò
e abbandonò il progetto, senza però mai mancare alla sua gentile ospitalità.
Ma rimasi, ancora una volta,
solo.
Il “mio” portoghese non esisteva
ancora e quasi tutto ciò che mi veniva detto, era per me incomprensibile.
E da solo, in quel luogo a me
ancora sconosciuto, tutto divenne più difficile.
Giuliano.
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