INFORMAZIONI SU QUESTO LIBRO-BLOG

Questa storia narra di dieci anni vissuti da Katia e da Giuliano.
Il racconto è un "binario", costruito a "doppi capitoli", scritti individualmente dai due autori.
Ogni anno raccontato, dal 2003 al 2013, racchiude cinque capitoli, al termine dei quali,
si conclude un paragrafo e sono pubblicate delle immagini inerenti gli stessi capitoli.
Il libro, nel suo complesso, avrà pertanto 10 paragrafi, composti da 5 doppi capitoli ciascuno.
La pubblicazione di ogni nuovo capitolo avviene senza un tempo determinato, essendo attualmente in fase di creazione.

p.s.: non possiamo essere responsabili della traduzione tramite google che, purtroppo, risulta NON essere completamente compatibile con il testo originale in lingua italiana.

contatto:emaildiecianni@gmail.com
Grazie per seguirci.
Katia & Giuliano

domenica 8 dicembre 2013

Capitolo 5: A Genova


Capitolo 5: A Genova

Dopo un momento molto critico, dopo una violenta “tempesta”, dovetti risolvere con la mia vita e mi costrinsi di fronte allo specchio per decidere e, finalmente, scegliere.
Avevo 36 anni.
Avevo già acquisito il primo livello di Reiki, e forse questo mi aiutò, dandomi il coraggio di ascoltare me stesso.
E vidi.
Due parole scritte nitide, nella mia mente: comunicare e bambino.
Pensai subito che erano distinte, ma allo stesso tempo unite.
Comunicare.
Ancora non sapevo esattamente cosa volessi comunicare, figuriamoci come, ma sentivo con certezza che una qualche forma di “comunicare” sarebbe divenuta la mia spina dorsale, il mio centro.
Bambino.
Aiutare un bambino.
Aiutare un bambino a comunicare.
Questo fu la mia istintiva addizione.
Col senno di poi, potrei anche ipotizzare che quel “bambino” fossi anche io stesso e, comunque fosse, la missione di quell’associazione di volontariato che creai e fondai poco tempo dopo, fu dedicata ai bambini, per offrire loro attrezzature e opportunità per comunicare.

Ritornando in Italia, viaggiai in uno stato misto a gioia e incredulità, entusiasmo e malinconia.
Un pò come avere la faccia triste e un sorriso smagliante.
I due aerei, il treno e l’autobus che mi avrebbero portato finalmente casa, a Genova, furono puntuali, nel loro interminabile viaggio di ritorno, e la mia abissale stanchezza era gratificata dal fatto che giungevo da un’avventura vissuta dall’altra parte del Mondo.
Ero ricco.
Ricco di emozioni, di cose ancora negli occhi, di racconti, di parole da urlare e da sussurrare.
E avevo bisogno di condividerle con qualcuno, con coloro che avevano creduto in me e nell’idea visionaria della darearte.
Così incontrai uno di loro, che al vedermi mi chiese:
-“Ma sei stato in ospedale?”
Forse dovevo avere un aspetto davvero debilitato.
Vuoi il viaggio, vuoi la stanchezza dell’ultimo periodo trascorso, ero molto dimagrito ed evidentemente sciupato.
Perlomeno rispetto al giorno della partenza, quando ero ancora qualcun’altro.

Attesi qualche giorno prima di uscire di casa.
Non riuscivo a raccontare ciò che avrei voluto e le mie parole e tutto il resto si disintegravano al loro nascere.
Ma nonostante questo, anche nel silenzio, sarei andato avanti, anzi, oltre.
Chiesi la modifica dello Statuto della darearte, per operare all’estero, e la trasformazione in ONLUS alle autorità competenti e così registrai i nuovi documenti, e si unirono nuovi associati volontari.

Vuotando i miei bagagli trovai ciò che avevo raccolto per non dimenticare di quel viaggio, nel caso fosse stato possibile.
Come sostegno economico, a diversi artigiani e artisti di Atibaia, compresa Katia, avevo acquistato alcuni pezzi, che andavano dalla bigiotteria, collane e anelli di fatture diverse, a piccoli dipinti, e li avevo portati in Italia con me.
Forse come accadeva 500 anni prima, quando, dopo il lungo viaggio nel Nuovo Mondo, gli europei esploratori ritornavano dai loro conterranei, con le cose raccolte, comprate barattate o depredate, agli abitanti nativi.
Ho immaginato che anche gli esploratori di 500 anni prima, avessero avuto la mia stessa sensazione, quando al mostrare gli oggetti raccolti, ci si rendeva conto che era davvero accaduto, che erano, per davvero, stati altrove.
Solo il confronto diretto con le vecchie cose, con le vecchie abitudini, permetteva di essere finalmente oggettivi e di confermare ciò che, si era provvisoriamente vissuto.
Così, muti testimoni del mio viaggio, più di immagini fotografiche che restano in una dimensione virtuale, quei gioielli senza valore commerciale ma con uno simbolicamente molto alto, divennero omaggio a coloro che stavano da quest’altra parte del mondo.

Sentivo nettamente che ciò che avevo raccolto, anche senza attenzione, in quel mese e in quel Paese, ora stava affiorando lentamente, come l’effetto di un’abbronzatura della quale non ci si rende conto nell’immediato ma che dopo, la sera, a casa, comincia ad uscire, ad arrossare la pelle, a bruciare, fino a far nascere bolle piene d’acqua che finiscono esplodendo per lasciar cadere a terra la pelle, ormai morta.

Negli incontri che avevamo avuto con i bambini degli orfanotrofi, avevo fatto dei ritratti, ad ognuno di loro.
Mai nessuno lo aveva fatto prima.
Mai nessuno li aveva fotografati, uno a uno, chiedendogli di sorridere, solo lui, o lei, per un momento dedicato a loro, felice.
Durante i giochi e i corsi didattici che abbiamo organizzato, a tutti i bambini e bambine presenti, ho fatto un ritratto fotografico, naturalmente con il permesso dell’Entità che li ospitava.
Tutti erano felicissimi di questo, nessuno si è tirato indietro, nemmeno per timidezza. Tutti mi sorridevano.

Non mi accorgo mai durante uno scatto fotografico, di ciò che esattamente accade dall’altra parte dell’obbiettivo. So della posa, di quale soggetto si tratti, so della tecnica, del taglio o di ciò che voglio e di come si veda nell’immagine, ma mai so cosa realmente accade, al di là di questo.
Direi che intuisco, semplicemente, il che vuol dire che so ben poco, di ciò che realmente sto registrando, in quel brevissimo eterno momento.

Qui, lo scoprii quando, immerso nella mia distrazione, sparpagliai le fotografie dei bambini sul letto della mia stanza.
Poco a poco rivelai, come si usa vedere in camera oscura, l’effetto nascosto di ciò che avevo visto e vissuto.
I sorrisi di tutti i bambini e  i loro sguardi erano su di me, in quel momento, in casa mia.
Piansi.
A singulti, senza controllo, nella mia stanza, con la sola compagnia delle fotografie, piansi, e senza voler sapere il motivo.
Quei bambini dovevano avere il loro ritratto.
Quei bambini non avevano mai visto sè stessi, in una foto, dove sorridevano, con l’intero volto.
Feci stampare le fotografie di ogniuno di loro, in diverse copie e le inviai per posta, per fare in modo che i volontari darearte in Brasile gliele potessero consegnare.

Ora potevo dire che avevo qualche informazione in più, sul Brasile e potevo studiare progetti con una visione più diretta.
Ma i costi elevati e le mie piccole finanze non mi permettevano di pensare ad un immediato ritorno, così fui presto riassorbito dal mio antico ritmo di vita, nel lavoro di fotografo e nella relazione sentimentale di quei giorni.

Ma ormai tutto era in via di cambiamento e io non potevo farci proprio nulla.



Giuliano

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