Capitolo 5: A Genova
Dopo un momento molto critico, dopo una violenta
“tempesta”, dovetti risolvere con la mia vita e mi costrinsi di fronte allo
specchio per decidere e, finalmente, scegliere.
Avevo 36 anni.
Avevo già acquisito il primo
livello di Reiki, e forse questo mi aiutò, dandomi il coraggio di ascoltare me
stesso.
E vidi.
Due parole scritte nitide, nella
mia mente: comunicare e
bambino.
Pensai subito che erano distinte,
ma allo stesso tempo unite.
Comunicare.
Ancora non sapevo esattamente
cosa volessi comunicare, figuriamoci come, ma sentivo con certezza che una
qualche forma di “comunicare” sarebbe
divenuta la mia spina dorsale, il mio centro.
Bambino.
Aiutare un bambino.
Aiutare un bambino a
comunicare.
Questo fu la mia istintiva
addizione.
Col senno di poi, potrei anche ipotizzare che quel
“bambino” fossi anche io stesso e, comunque fosse, la missione di
quell’associazione di volontariato che creai e fondai poco tempo dopo, fu
dedicata ai bambini, per offrire loro attrezzature e opportunità per comunicare.
Ritornando in Italia, viaggiai in
uno stato misto a gioia e incredulità, entusiasmo e malinconia.
Un pò come avere la faccia triste
e un sorriso smagliante.
I due aerei, il treno e l’autobus che mi avrebbero portato
finalmente casa, a Genova, furono puntuali, nel loro interminabile viaggio di
ritorno, e la mia abissale stanchezza era gratificata dal fatto che giungevo da
un’avventura vissuta dall’altra parte del Mondo.
Ero ricco.
Ricco di emozioni, di cose ancora negli occhi, di
racconti, di parole da urlare e da sussurrare.
E avevo bisogno di condividerle con qualcuno, con coloro
che avevano creduto in me e nell’idea visionaria della darearte.
Così incontrai uno di loro, che al vedermi mi chiese:
-“Ma sei stato in ospedale?”
Forse dovevo avere un aspetto davvero debilitato.
Vuoi il viaggio, vuoi la stanchezza dell’ultimo periodo
trascorso, ero molto dimagrito ed evidentemente sciupato.
Perlomeno rispetto al giorno della partenza, quando ero
ancora qualcun’altro.
Attesi qualche giorno prima di uscire di casa.
Non riuscivo a raccontare ciò che avrei voluto e le mie
parole e tutto il resto si disintegravano al loro nascere.
Ma nonostante questo, anche nel silenzio, sarei andato
avanti, anzi, oltre.
Chiesi la modifica dello Statuto della darearte, per
operare all’estero, e la trasformazione in ONLUS alle autorità competenti e
così registrai i nuovi documenti, e si unirono nuovi associati volontari.
Vuotando i miei bagagli trovai ciò che avevo raccolto per
non dimenticare di quel viaggio, nel caso fosse stato possibile.
Come sostegno economico, a diversi artigiani e artisti di
Atibaia, compresa Katia, avevo acquistato alcuni pezzi, che andavano dalla
bigiotteria, collane e anelli di fatture diverse, a piccoli dipinti, e li avevo
portati in Italia con me.
Forse come accadeva 500 anni prima, quando, dopo il lungo
viaggio nel Nuovo Mondo, gli europei esploratori ritornavano dai loro
conterranei, con le cose raccolte, comprate barattate o depredate, agli
abitanti nativi.
Ho immaginato che anche gli esploratori di 500 anni prima,
avessero avuto la mia stessa sensazione, quando al mostrare gli oggetti
raccolti, ci si rendeva conto che era davvero accaduto, che erano, per davvero,
stati altrove.
Solo il confronto diretto con le vecchie cose, con le
vecchie abitudini, permetteva di essere finalmente oggettivi e di confermare
ciò che, si era provvisoriamente vissuto.
Così, muti testimoni del mio viaggio, più di immagini
fotografiche che restano in una dimensione virtuale, quei gioielli senza valore
commerciale ma con uno simbolicamente molto alto, divennero omaggio a coloro
che stavano da quest’altra parte del mondo.
Sentivo nettamente che ciò che avevo raccolto, anche senza
attenzione, in quel mese e in quel Paese, ora stava affiorando lentamente, come
l’effetto di un’abbronzatura della quale non ci si rende conto nell’immediato
ma che dopo, la sera, a casa, comincia ad uscire, ad arrossare la pelle, a
bruciare, fino a far nascere bolle piene d’acqua che finiscono esplodendo per
lasciar cadere a terra la pelle, ormai morta.
Negli incontri che avevamo avuto con i bambini degli
orfanotrofi, avevo fatto dei ritratti, ad ognuno di loro.
Mai nessuno lo aveva fatto prima.
Mai nessuno li aveva fotografati, uno a uno, chiedendogli
di sorridere, solo lui, o lei, per un momento dedicato a loro, felice.
Durante i giochi e i corsi didattici che abbiamo
organizzato, a tutti i bambini e bambine presenti, ho fatto un ritratto
fotografico, naturalmente con il permesso dell’Entità che li ospitava.
Tutti erano felicissimi di questo, nessuno si è tirato
indietro, nemmeno per timidezza. Tutti mi sorridevano.
Non mi accorgo mai durante uno scatto fotografico, di ciò
che esattamente accade dall’altra parte dell’obbiettivo. So della posa, di
quale soggetto si tratti, so della tecnica, del taglio o di ciò che voglio e di
come si veda nell’immagine, ma mai so cosa realmente accade, al di là di questo.
Direi che intuisco, semplicemente, il che vuol dire che so
ben poco, di ciò che realmente sto
registrando, in quel brevissimo eterno momento.
Qui, lo scoprii quando, immerso nella mia distrazione,
sparpagliai le fotografie dei bambini sul letto della mia stanza.
Poco a poco rivelai, come si usa vedere in camera oscura,
l’effetto nascosto di ciò che avevo visto e vissuto.
I sorrisi di tutti i bambini e i loro sguardi erano su di me, in quel momento, in casa mia.
Piansi.
A singulti, senza controllo, nella mia stanza, con la sola
compagnia delle fotografie, piansi, e senza voler sapere il motivo.
Quei bambini dovevano avere il loro ritratto.
Quei bambini non avevano mai visto sè stessi, in una foto,
dove sorridevano, con l’intero volto.
Feci stampare le fotografie di ogniuno di loro, in diverse
copie e le inviai per posta, per fare in modo che i volontari darearte in
Brasile gliele potessero consegnare.
Ora potevo dire che avevo qualche informazione in più, sul
Brasile e potevo studiare progetti con una visione più diretta.
Ma i costi elevati e le mie piccole finanze non mi
permettevano di pensare ad un immediato ritorno, così fui presto riassorbito
dal mio antico ritmo di vita, nel lavoro di fotografo e nella relazione
sentimentale di quei giorni.
Ma ormai tutto era in via di cambiamento e io non potevo
farci proprio nulla.
Giuliano
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