Capitolo
6: L’Italia
Fu
un capodanno diverso.
Sentivo
che il nuovo anno era davvero nuovo.
Iniziai
subito il primo progetto dell’associazione, in campo, senza Giuliano.
Dovevo
realizzare un corso di cartapesta in una “favela” di Atibaia.
Era
in una struttura di accoglienza, per persone e famiglie senza dimora, dove
veniva offerto un pasto gratuito a tutti gli abitanti del quartiere.
La
casa era una specie di rudere ma, immersa nel paesaggio di tante baracche,
appariva carina e solida: era di mattoni.
Il
posto da realizzare il corso era buio e umido.
Non c’erano nè
porte nè finestre, soltanto i buchi che segnalavano quello che un giorno era
stata una porta o una finestra.
Ma
questo era più che sufficiente per tutta quella gente che arrivò: donne,
ragazzi e bambini.
Il
responsabile locale era davvero contento, perché il corso era gratuito e
qualcuno si era disposto a loro.
Trovava
buffo il fatto che, il primo corso a vantaggio della loro Comunità, fosse stato
offerto, non dalla gente locale, ma per l’iniziativa di una persona di un altro
Mondo, con un’associazione “straniera”.
Anch’io,
un pò, mi vergognai.
Dopo
tanti anni vissuti nella mia Città, mai avevo avuto la conoscenza di quella
realtà.
Erano
invisibili, non solo per me, ma sicuramente per grande parte dei cittadini.
Loro
volevano imparare a usare la cartapesta perché, come lavoro occasionale,
raccoglievano la carta e sarebbe stata una buona idea trasformarla anche in un
attività che fornisse un piccolo reddito.
Insegnai assolutamente tutto ciò che sapevo
sulla cartapesta.
E
anche la volontaria che avrebbe dovuto aiutarmi, entusiasta di tutte le
tecniche che le facevo conoscere, senza accorgersi, si era posizionata in mezzo
agli allievi ad assistere come fosse una di loro.
Poi
c’erano i bambini, che spuntavano da tutte le parti, numerosi, e con loro
abbiamo creato dei giocattoli di carta.
Il
corso finì e fu terribilmente difficile lasciarli.
Per
fortuna che non ero più da sola, avevo finalmente l’associazione a sostenermi,
sia nella parte organizzativa che sotto l’aspetto emotivo.
Giuliano,
anche se non era presente, mi dava le direzioni, mi spiegava che il compito
della nostra organizzazione non era filantropico ma quello di donare la
possibilità. Pertanto tutti i progetti dovevano avere un inizio, un mezzo e una
fine.
Giustamente
la fine era quella più importante, perchè era il momento dove chi riceve deve
poter intraprendere il proprio cammino.
Questo
vuole dire imparare e svilupparsi e non soltanto essere assistito.
Capii.
Sentii
che questo modo organizzativo era giusto, quasi Zen.
Anche
aldilà delle attività dell’associazione, questo concetto era applicabile alla
vita stessa.
Stava
succedendo a me.
Le
mie fini, stavano diventando sempre possibilità per nuovi inizi.
La
partenza di quell’uomo, era diventata una quasi-primavera, una possibilità di
fioriture. Dipendeva da me, adesso da sola, se mettere in pratica ciò che avevo
imparato.
In
un giorno di sole, Giuliano, mi scrisse una lettera carica di pioggia, sembrava
che piangessero tutte le parole. Mi chiedeva di consegnare tutte le fotografie
che aveva scattato nell’Orfanotrofio, ad ogni suo legittimo proprietario: i
bambini.
Sembrava
un compito facile, ma non lo fu.
Scoprii
che nell’Orfanotrofio, non era permesso avere con sé alcun oggetto personale, e
questo includeva le foto.
Allo
stesso tempo, sapevo che tutti i genitori del mondo fotografano spesso il loro
figli, ma quei bambini senza famiglia, non avevano mai avuto nessuno che si
fosse interessato a fargli una foto.
Chissà,
se quell’uomo magico, aveva capito la profondità del suo gesto, quando scattò
quelle foto, non lo so, ma ora era prioritario far riavere le fotografie ai
bambini.
Non
riuscii a convincere i responsabili dell’Orfanotrofio di concedere ai bambini
il possesso dei loro ritratti.
Sarebbero
rimasti nella loro cartella personale, custodita dall’Entità e poi consegnata
ad ognuno di loro, una volta maggiorenne, al loro congedo.
Però,
riuscii ad organizzare un incontro con tutti i bambini per vedere le fotografie
insieme, prima che queste venissero sequestrate.
I
bambini, uno ad uno, osservarono a lungo la loro immagine, accarezzavano le
loro foto e non si riconoscevano, così sorridenti com’erano nel ritratto.
Era
successo un mondo di cose.
Incontri
di questo tipo, realizzati con semplicità, amore e creatività, seguiranno negli anni successivi e,
tutte le volte, ci hanno insegnato a cercare sempre nuovi modi per concepire
l’Arte, con le sue immense possibilità umanitarie.
Ero
dall’altra parte del mare per svolgere i progetti creati da quell’uomo e questa
complicità ci univa fortemente.
Al
di là di un possibile rapporto uomo-donna, stavamo diventando compagni di
imprese visionarie, come lo erano stati Sancho Panza e Don Quixote.
Comunque,
non riuscivo a distogliere il desiderio di vedere Genova e di rivedere
Giuliano.
Ma in
nessun modo potevo andare a casa sua, senza che fosse lui ad invitarmi.
Per più
innamorata che fossi, sarebbe stata una mancanza di rispetto, invadere la sua
Città e la sua Vita, senza avere il permesso.
Aspettai.
Pregai.
Cucii.
Dipinsi.
Danzai,
misi il naso di clown e risi della Vita.
Un
giorno, al telefono, lui mi invitò a fare una mostra dei miei dipinti a Genova.
Mi aveva
aperto una porta.
Una
piccola porta, stretta e senza molta convinzione.
Ma pur sempre
una porta.
Non
pensai più a nulla.
Comprai
il biglietto aereo.
Ero così
felice che sentivo disintegrarmi nell’aria e se non ci fosse il sostegno
amorevole e pratico di Luisa e di altre amiche, che sventolavano le loro anime
vicino alla mia barca in partenza, forse sarei diventata una schiuma delle
onde, persa in mare aperto.
Così feci
la valigia.
La feci
veramente, dato che la costruii e la dipinsi con tante uccellini che volavano
in mezzo al poema di Manoel Bandeira, poeta brasiliano.
Il poema
che si chiamava “Pasarguada”, si tratta dell’arrivo in una città dei sogni,
dove finalmente è permesso vivere.
Il primo
verso era così:
“Vou-me
embora pra Pasargada
Là sou
amigo do rei
Là tenho a mulher que eu quero
Na
cama que escolherei”
“Me ne
vado a Pasargada
Là
sono amico del re
Là ho
la donna che io voglio
Nel letto che sceglierei…"
Nella
valigia colorata misi tanti dipinti, fiori finti, qualche vecchia fotografia,
un sari indiano e qualche altra cosa inutile, che servono soltanto a coloro che
sono innamorati o ai clown.
Io ero
tutti e due.
Avevo
messo anche le scarpe di tessuto e due o tre vestiti.
La
“coperta dell’attesa”, la misi in valigia per ultima perché dovevo cucirla fino
all’ultimo giorno, quello che precedeva la mia partenza.
Mia zia mi diede una calzamaglia: disse che in Italia avrei trovato l’inverno.
Ignoravo
qualsiasi cosa.
Il 9 marzo 2004 sarei partita per l'Italia, per
Genova: un salto nel buio.
Katia
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