INFORMAZIONI SU QUESTO LIBRO-BLOG

Questa storia narra di dieci anni vissuti da Katia e da Giuliano.
Il racconto è un "binario", costruito a "doppi capitoli", scritti individualmente dai due autori.
Ogni anno raccontato, dal 2003 al 2013, racchiude cinque capitoli, al termine dei quali,
si conclude un paragrafo e sono pubblicate delle immagini inerenti gli stessi capitoli.
Il libro, nel suo complesso, avrà pertanto 10 paragrafi, composti da 5 doppi capitoli ciascuno.
La pubblicazione di ogni nuovo capitolo avviene senza un tempo determinato, essendo attualmente in fase di creazione.

p.s.: non possiamo essere responsabili della traduzione tramite google che, purtroppo, risulta NON essere completamente compatibile con il testo originale in lingua italiana.

contatto:emaildiecianni@gmail.com
Grazie per seguirci.
Katia & Giuliano

domenica 22 dicembre 2013

2004 - Capitolo 6: L’Italia


Capitolo 6: L’Italia

Fu un capodanno diverso.
Sentivo che il nuovo anno era davvero nuovo.
Iniziai subito il primo progetto dell’associazione, in campo, senza Giuliano.
Dovevo realizzare un corso di cartapesta in una “favela” di Atibaia.
Era in una struttura di accoglienza, per persone e famiglie senza dimora, dove veniva offerto un pasto gratuito a tutti gli abitanti del quartiere.
La casa era una specie di rudere ma, immersa nel paesaggio di tante baracche, appariva carina e solida: era di mattoni.
Il posto da realizzare il corso era buio e umido.
Non c’erano nè porte nè finestre, soltanto i buchi che segnalavano quello che un giorno era stata una porta o una finestra.
Ma questo era più che sufficiente per tutta quella gente che arrivò: donne, ragazzi e bambini.
Il responsabile locale era davvero contento, perché il corso era gratuito e qualcuno si era disposto a loro.
Trovava buffo il fatto che, il primo corso a vantaggio della loro Comunità, fosse stato offerto, non dalla gente locale, ma per l’iniziativa di una persona di un altro Mondo, con un’associazione “straniera”.
Anch’io, un pò, mi vergognai.
Dopo tanti anni vissuti nella mia Città, mai avevo avuto la conoscenza di quella realtà.
Erano invisibili, non solo per me, ma sicuramente per grande parte dei cittadini.
Loro volevano imparare a usare la cartapesta perché, come lavoro occasionale, raccoglievano la carta e sarebbe stata una buona idea trasformarla anche in un attività che fornisse un piccolo reddito.
Insegnai  assolutamente tutto ciò che sapevo sulla cartapesta.
E anche la volontaria che avrebbe dovuto aiutarmi, entusiasta di tutte le tecniche che le facevo conoscere, senza accorgersi, si era posizionata in mezzo agli allievi ad assistere come fosse una di loro.
Poi c’erano i bambini, che spuntavano da tutte le parti, numerosi, e con loro abbiamo creato dei giocattoli di carta.

Il corso finì e fu terribilmente difficile lasciarli.
Per fortuna che non ero più da sola, avevo finalmente l’associazione a sostenermi, sia nella parte organizzativa che sotto l’aspetto emotivo.
Giuliano, anche se non era presente, mi dava le direzioni, mi spiegava che il compito della nostra organizzazione non era filantropico ma quello di donare la possibilità. Pertanto tutti i progetti dovevano avere un inizio, un mezzo e una fine.
Giustamente la fine era quella più importante, perchè era il momento dove chi riceve deve poter intraprendere il proprio cammino.
Questo vuole dire imparare e svilupparsi e non soltanto essere assistito.
Capii.
Sentii che questo modo organizzativo era giusto, quasi Zen.
Anche aldilà delle attività dell’associazione, questo concetto era applicabile alla vita stessa.
Stava succedendo a me.
Le mie fini, stavano diventando sempre possibilità per nuovi inizi.
La partenza di quell’uomo, era diventata una quasi-primavera, una possibilità di fioriture. Dipendeva da me, adesso da sola, se mettere in pratica ciò che avevo imparato.

In un giorno di sole, Giuliano, mi scrisse una lettera carica di pioggia, sembrava che piangessero tutte le parole. Mi chiedeva di consegnare tutte le fotografie che aveva scattato nell’Orfanotrofio, ad ogni suo legittimo proprietario: i bambini.
Sembrava un compito facile, ma non lo fu.
Scoprii che nell’Orfanotrofio, non era permesso avere con sé alcun oggetto personale, e questo includeva le foto.
Allo stesso tempo, sapevo che tutti i genitori del mondo fotografano spesso il loro figli, ma quei bambini senza famiglia, non avevano mai avuto nessuno che si fosse interessato a fargli una foto.
Chissà, se quell’uomo magico, aveva capito la profondità del suo gesto, quando scattò quelle foto, non lo so, ma ora era prioritario far riavere le fotografie ai bambini.
Non riuscii a convincere i responsabili dell’Orfanotrofio di concedere ai bambini il possesso dei loro ritratti.
Sarebbero rimasti nella loro cartella personale, custodita dall’Entità e poi consegnata ad ognuno di loro, una volta maggiorenne, al loro congedo.
Però, riuscii ad organizzare un incontro con tutti i bambini per vedere le fotografie insieme, prima che queste venissero sequestrate.
I bambini, uno ad uno, osservarono a lungo la loro immagine, accarezzavano le loro foto e non si riconoscevano, così sorridenti com’erano nel ritratto.
Era successo un mondo di cose.

Incontri di questo tipo, realizzati con semplicità,  amore e creatività, seguiranno negli anni successivi e, tutte le volte, ci hanno insegnato a cercare sempre nuovi modi per concepire l’Arte, con le sue immense possibilità umanitarie.

Ero dall’altra parte del mare per svolgere i progetti creati da quell’uomo e questa complicità ci univa fortemente.
Al di là di un possibile rapporto uomo-donna, stavamo diventando compagni di imprese visionarie, come lo erano stati Sancho Panza e Don Quixote.

Comunque, non riuscivo a distogliere il desiderio di vedere Genova e di rivedere Giuliano.
Ma in nessun modo potevo andare a casa sua, senza che fosse lui ad invitarmi.
Per più innamorata che fossi, sarebbe stata una mancanza di rispetto, invadere la sua Città e la sua Vita, senza avere il permesso.
Aspettai.
Pregai.
Cucii.
Dipinsi.
Danzai, misi il naso di clown e risi della Vita.
Un giorno, al telefono, lui mi invitò a fare una mostra dei miei dipinti a Genova.
Mi aveva aperto una porta.
Una piccola porta, stretta e senza molta convinzione.
Ma pur sempre una porta.
Non pensai più a nulla.
Comprai il biglietto aereo.
Ero così felice che sentivo disintegrarmi nell’aria e se non ci fosse il sostegno amorevole e pratico di Luisa e di altre amiche, che sventolavano le loro anime vicino alla mia barca in partenza, forse sarei diventata una schiuma delle onde, persa in mare aperto.
Così feci la valigia.
La feci veramente, dato che la costruii e la dipinsi con tante uccellini che volavano in mezzo al poema di Manoel Bandeira, poeta brasiliano.
Il poema che si chiamava “Pasarguada”, si tratta dell’arrivo in una città dei sogni, dove finalmente è permesso vivere.
Il primo verso era così:

“Vou-me embora pra Pasargada
Là sou amigo do rei
Là tenho a mulher que eu quero
Na cama que escolherei”
“Me ne vado a Pasargada
Là sono amico del re
Là ho la donna che io voglio
Nel letto che sceglierei…"

Nella valigia colorata misi tanti dipinti, fiori finti, qualche vecchia fotografia, un sari indiano e qualche altra cosa inutile, che servono soltanto a coloro che sono innamorati o ai clown.
Io ero tutti e due.
Avevo messo anche le scarpe di tessuto e due o tre vestiti.
La “coperta dell’attesa”, la misi in valigia per ultima perché dovevo cucirla fino all’ultimo giorno, quello che precedeva la mia partenza.
Mia zia mi diede una calzamaglia: disse che in Italia avrei trovato l’inverno.
Ignoravo qualsiasi cosa.

Il 9 marzo 2004 sarei partita per l'Italia, per Genova: un salto nel buio.

Katia

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