Capitolo 6: Italia.
La mia relazione sentimentale era molto intensa ma, già da
tempo prima della partenza del mio viaggio in Brasile, viveva una grave
difficoltà.
Quella di non riuscire ad accettare che eravamo su due
percorsi diversi, con principi e interessi diversi, con prospettive e sogni
diversi.
L’amore reciproco e il profondo legame che ci univa, ci
impedivano di dare la giusta valutazione a questo.
Ma nulla si può fare contro la natura delle cose.
Prima o poi emerge.
E prepotente, dopo il terremoto che il mio Brasile mi
aveva causato, emerse.
Il distacco fu molto sofferto per entrambi, anche se in
modi differenti, e il dolore di questa separazione fu da me mantenuta molto a
lungo nel tempo e, involontariamente, la nascosi in me.
L’incapacità, o il rifiuto, di accettare la conclusione
della relazione e il tormento di aver creato un dolore emotivo tanto grande,
creò una sorta di “buco nero” tra noi, un dolore irrisolto, che non ci permise
di essere liberi fino in fondo.
Ci separammo definitivamente nei primi giorni di marzo del
2004.
L’accompagnai all’aeroporto, triste per ciò che avevamo
scelto di fare ma che, sapevo, fosse assolutamente indispensabile per
intraprendere entrambi e finalmente il nostro reciproco cammino.
Non la vidi mai più.
Lei, oltre me, lasciò l’Italia e la sua arte, la musica, e
ritornò in Ungheria, per ricominciare una nuova professione che, seppi molto
tempo dopo, fu gratificante e di grande successo.
Questo mi rese davvero molto felice.
Tutto si stava gradualmente trasformando e,
inesorabilmente, sgretolando sotto i miei occhi, nonostante le mie futili
resistenze ed inutili sofferenze, e questo era conseguenza del mio naturale
cambiamento.
E intorno a me, tutto prendeva una luce diversa, un nuovo
colore indefinito.
La mia percezione di ciò che mi circondava, cose e persone
e avvenimenti, era come alterato, diverso da prima, seppur non in maniera
distinta, come se cominciassi a capire qualche altra cosa che prima non vedevo
nè potevo vedere.
Ma questo significava che, oltre al mio sguardo, sarebbe
cambiato tutto, poco a poco:
il mio ambiente, i miei argomenti, il mio comportamento, i miei interessi e coloro che, prima, chiamavo amici.
il mio ambiente, i miei argomenti, il mio comportamento, i miei interessi e coloro che, prima, chiamavo amici.
Il mio lavoro cominciò a barcollare.
Le richieste di cataloghi di giocattoli e altri lavori, che
ritenevo senza significato, mi erano solo di intralcio. Sentivo ancor più impellente la
necessità di comunicare.
Mentre, in Brasile, Katia realizzava un corso di
cartapesta per i bambini e i ragazzi di una favela insieme ad un’altra
volontaria, io la seguivo dall’Italia e attraverso internet, eravamo in
costante contatto, mi scriveva e inviava fotografie, documenti di ciò che
accadeva.
Si adoperava sempre con grande entusiasmo ed ero felice di
avere una complice ancora sul fronte, dato che, in Italia, mi sentii
improvvisamente un esiliato.
Con Katia ci sentivamo anche per telefono.
Imparai ad usare quei telefoni che usano solo gli
immigrati, per chiamare i loro cari all’estero, e lì, in quegli scomodi e
angusti anfratti, trascorsi molto tempo, per sostenere le attività coordinate
da quella ragazza, a nome di darearte, in quella lontana città brasiliana.
E al telefono, con il suo italiano sgangherato e sempre in
difficoltà per la scelta delle parole migliori, Katia mi raccontò della
consegna delle fotografie ai bambini dell’orfanotrofio.
Vibravo ad ogni frase e soffrivo per non essere presente.
Non mi disse che le fotografie non potevano restare con i
bambini, forse per non farmi restare male o rivoltare su una questione tanto
ingiusta, ma mi raccontò della bellezza che aveva loro procurato, dell’emozione
che si era vissuta e me la trasmise, per rendermi partecipe, insieme a loro.
Solo tempo dopo, ne venni a conoscenza, quando ormai non
potevo più intervenire.
E fu sempre al telefono che invitai Katia a venire in
Italia.
Non ero certo fosse una buona idea, ma la sua energia
avrebbe senz’altro dato una decisiva spinta alla nostra piccola organizzazione,
in Italia.
La invitai a preparare una serie di dipinti, avrei
organizzato una sua esposizione da realizzarsi a Genova, per raccogliere fondi
per i progetti darearte e rilanciare così i propositi dell’associazione.
E infatti diedi da fare per creare l’esposizione.
Decisi per un Centro Civico di
Genova, dove anche il pubblico della Biblioteca avrebbe potuto visitare
l’esposizione dei dipinti di Katia, i ritratti dei bambini sorridenti e i loro
lavori creativi, realizzati nei laboratori insieme a noi.
A questo punto, stavo solo
aspettando che Katia venisse a prendere parte dei progetti in Italia, sentivo
la sua fibrillazione e sentivo la mia, nonostante non potevo prevedere nulla di
quello che sarebbe stato nè di come avremmo reagito al ritrovarsi, in un altro
contesto, con altre condizioni, in un mondo completamente diverso.
Di certo, potevo sapere che il suo
arrivo mi avrebbe fatto sentire meglio, come si può sentire meglio qualcuno che
attende il suo scudiero, il suo braccio destro, il suo fedele compagno di
avventura.
Sancho Panza stava partendo.
E io, ero in attesa del suo
arrivo.
Giuliano
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