INFORMAZIONI SU QUESTO LIBRO-BLOG

Questa storia narra di dieci anni vissuti da Katia e da Giuliano.
Il racconto è un "binario", costruito a "doppi capitoli", scritti individualmente dai due autori.
Ogni anno raccontato, dal 2003 al 2013, racchiude cinque capitoli, al termine dei quali,
si conclude un paragrafo e sono pubblicate delle immagini inerenti gli stessi capitoli.
Il libro, nel suo complesso, avrà pertanto 10 paragrafi, composti da 5 doppi capitoli ciascuno.
La pubblicazione di ogni nuovo capitolo avviene senza un tempo determinato, essendo attualmente in fase di creazione.

p.s.: non possiamo essere responsabili della traduzione tramite google che, purtroppo, risulta NON essere completamente compatibile con il testo originale in lingua italiana.

contatto:emaildiecianni@gmail.com
Grazie per seguirci.
Katia & Giuliano

domenica 22 dicembre 2013

Capitolo 6: Italia.


Capitolo 6: Italia.

La mia relazione sentimentale era molto intensa ma, già da tempo prima della partenza del mio viaggio in Brasile, viveva una grave difficoltà.
Quella di non riuscire ad accettare che eravamo su due percorsi diversi, con principi e interessi diversi, con prospettive e sogni diversi.
L’amore reciproco e il profondo legame che ci univa, ci impedivano di dare la giusta valutazione a questo.
Ma nulla si può fare contro la natura delle cose.
Prima o poi emerge.
E prepotente, dopo il terremoto che il mio Brasile mi aveva causato, emerse.

Il distacco fu molto sofferto per entrambi, anche se in modi differenti, e il dolore di questa separazione fu da me mantenuta molto a lungo nel tempo e, involontariamente, la nascosi in me.
L’incapacità, o il rifiuto, di accettare la conclusione della relazione e il tormento di aver creato un dolore emotivo tanto grande, creò una sorta di “buco nero” tra noi, un dolore irrisolto, che non ci permise di essere liberi fino in fondo.
Ci separammo definitivamente nei primi giorni di marzo del 2004.
L’accompagnai all’aeroporto, triste per ciò che avevamo scelto di fare ma che, sapevo, fosse assolutamente indispensabile per intraprendere entrambi e finalmente il nostro reciproco cammino.
Non la vidi mai più.
Lei, oltre me, lasciò l’Italia e la sua arte, la musica, e ritornò in Ungheria, per ricominciare una nuova professione che, seppi molto tempo dopo, fu gratificante e di grande successo.
Questo mi rese davvero molto felice.

Tutto si stava gradualmente trasformando e, inesorabilmente, sgretolando sotto i miei occhi, nonostante le mie futili resistenze ed inutili sofferenze, e questo era conseguenza del mio naturale cambiamento.
E intorno a me, tutto prendeva una luce diversa, un nuovo colore indefinito.
La mia percezione di ciò che mi circondava, cose e persone e avvenimenti, era come alterato, diverso da prima, seppur non in maniera distinta, come se cominciassi a capire qualche altra cosa che prima non vedevo nè potevo vedere.
Ma questo significava che, oltre al mio sguardo, sarebbe cambiato tutto, poco a poco:
il mio ambiente, i miei argomenti, il mio comportamento, i miei interessi e coloro che, prima, chiamavo amici.

Il mio lavoro cominciò a barcollare.
Le richieste di cataloghi di giocattoli e altri lavori, che ritenevo senza significato, mi erano solo di intralcio.  Sentivo ancor più impellente la necessità di comunicare.

Mentre, in Brasile, Katia realizzava un corso di cartapesta per i bambini e i ragazzi di una favela insieme ad un’altra volontaria, io la seguivo dall’Italia e attraverso internet, eravamo in costante contatto, mi scriveva e inviava fotografie, documenti di ciò che accadeva.
Si adoperava sempre con grande entusiasmo ed ero felice di avere una complice ancora sul fronte, dato che, in Italia, mi sentii improvvisamente un esiliato.

Con Katia ci sentivamo anche per telefono.
Imparai ad usare quei telefoni che usano solo gli immigrati, per chiamare i loro cari all’estero, e lì, in quegli scomodi e angusti anfratti, trascorsi molto tempo, per sostenere le attività coordinate da quella ragazza, a nome di darearte, in quella lontana città brasiliana.

E al telefono, con il suo italiano sgangherato e sempre in difficoltà per la scelta delle parole migliori, Katia mi raccontò della consegna delle fotografie ai bambini dell’orfanotrofio.
Vibravo ad ogni frase e soffrivo per non essere presente.
Non mi disse che le fotografie non potevano restare con i bambini, forse per non farmi restare male o rivoltare su una questione tanto ingiusta, ma mi raccontò della bellezza che aveva loro procurato, dell’emozione che si era vissuta e me la trasmise, per rendermi partecipe, insieme a loro.
Solo tempo dopo, ne venni a conoscenza, quando ormai non potevo più intervenire.

E fu sempre al telefono che invitai Katia a venire in Italia.
Non ero certo fosse una buona idea, ma la sua energia avrebbe senz’altro dato una decisiva spinta alla nostra piccola organizzazione, in Italia.
La invitai a preparare una serie di dipinti, avrei organizzato una sua esposizione da realizzarsi a Genova, per raccogliere fondi per i progetti darearte e rilanciare così i propositi dell’associazione.
E infatti diedi da fare per creare l’esposizione.

Decisi per un Centro Civico di Genova, dove anche il pubblico della Biblioteca avrebbe potuto visitare l’esposizione dei dipinti di Katia, i ritratti dei bambini sorridenti e i loro lavori creativi, realizzati nei laboratori insieme a noi.

A questo punto, stavo solo aspettando che Katia venisse a prendere parte dei progetti in Italia, sentivo la sua fibrillazione e sentivo la mia, nonostante non potevo prevedere nulla di quello che sarebbe stato nè di come avremmo reagito al ritrovarsi, in un altro contesto, con altre condizioni, in un mondo completamente diverso.

Di certo, potevo sapere che il suo arrivo mi avrebbe fatto sentire meglio, come si può sentire meglio qualcuno che attende il suo scudiero, il suo braccio destro, il suo fedele compagno di avventura.
Sancho Panza stava partendo.
E io, ero in attesa del suo arrivo.


Giuliano

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