Capitolo 18. 30x30 e tutti gli altri
Due giorni fa sono andata ad un incontro al Centro per Donne
Immigrate, nella città dove attualmente (mentre scrivo) mi trovo, in Italia.
Mentre aspettavo il mio turno, guardavo fuori da una
finestra il volo autunnale delle foglie.
Mi sentivo quasi come loro e mi sono lasciata andare a
quella piccola bellezza, fino a quando una grande donna egiziana mi riportò al
mondo abitato dalla gente.
Alle sue domande risposi in modo istintivo che io non ero
una donna immigrata ma una donna esiliata.
Nel tragitto di ritorno a casa, in bicicletta, mi fermai
davanti al mare e lì mi accorsi della profondità del segreto che avevo svelato
a me stessa.
Ero una donna esiliata, e questo non c'entrava nulla con il
fatto di aver lasciato il mio Paese d'origine.
Questo esodo cominciò molti anni prima che prendessi un
aereo per il “mai più”.
Nacque inizialmente come una semplice sensazione di
estraneamento alle cose una volta familiari, poi si trasformò in un
disadattamento cronico, poi iniziai a vivere in un mondo tra i mondi, per
finalmente abbandonare definitivamente la località che mi ha dato i natali,
seguito dall’addio al Brasile intero.
Non so con certezza il perché di tutto questo, ma so determinare esattamente quando cominciò questo processo: il mio esilio ebbe il suo
inizio con l'ingresso di Giuliano nella mia vita, ossia dieci anni fa.
Ricordo che quando camminavo insieme a lui, dovunque
andassimo, sembrava di portare con me una torcia incandescente capace di farmi
vedere le cose, come non avevo mai immaginato.
Insieme a lui cominciai a vivere delle esperienze
bellissime, ma che mettevano in dubbio tutte le mie convinzioni precedenti.
Lentamente, tutto il mondo che avevo delicatamente costruito
nei miei anni anteriori, si stava disintegrando, tutte le informazioni che
avevo acquisito, ciò che avevo imparato e tutte le verità stavano lentamente
scomparendo.
Anche le relazioni personali rimasero sospese, perché non
riuscivo più ad appartenere al loro mondo, e per quanto provassi ad adattarmi,
stranamente, non ci riuscivo.
Naturalmente, l’intensa attività dell’associazione darearte, mi riportava a vivere delle situazioni di estrema
ingiustizia sociale e tutto ciò mi toglieva bruscamente il velo dell’innocenza
che insistevo a portare sugli occhi.
Perdere l’innocenza era come svegliarsi di colpo e avere la
forza di mantenere lo sguardo davanti a cose brutali, come un bambino che vive
in strada.
E’ ovvio che anche prima vedevo delle cose, (é
impossibile non vedere un bambino che dorme per la strada in Brasile, ce ne
sono troppi!) ma ero protetta da una favola
che raccontavo a me stessa per restare nel sonno.
Perdere l’innocenza era come uscire dall’ignoranza e
affrontare i fatti che si proponevano, e solo così sarei stata capace di non
smettere più di sognare e credere di poter fare qualcosa (anche una piccola
cosa) perché, alla fine, tutto conta per
cambiare la realtà.
Soltanto oggi riesco a capire che tutto questo vivere ha inciso in un profondo cambiamento interiore, ma
in quei giorni ero esclusivamente arrabbiata e convinta che tutti mi avessero
chiuso la porta in faccia o che ero stata espulsa dal paradiso per qualche
peccato commesso e che non ci fosse più un posto per me, tra la gente.
Non riconoscevo nessun luogo come familiare, sia nel mondo
della favela sia in quello di campagna, della città, dell'arte, delle relazioni
sociali e questo includeva anche il mondo di Giuliano.
Ogni tanto trovavo la sensazione di essere a casa, della mia
vera casa, quando sentivo il rumore delle mie ossa, nell’abbandonare il mio
corpo su un divano dopo una giornata piena di lavoro, di incontri con
segretarie, di laboratori in luoghi poveri e infine il silenzio... soltanto il
profumo del caffè e l’incrociare del mio sguardo con quello di quell'uomo che,
muti, ci dicevamo la stessa cosa: “siamo felici di ciò che stiamo facendo!”
Oppure in quel pomeriggio, quando incontrammo un bambino che
era stato espulso da un orfanotrofio ed era smarrito.
Questo bambino, da infante, era stato testimone
dell'assassinio di sua madre per mano di suo padre ed era segnato
profondamente.
La diagnosi dei medici era la conseguenza: portatore di
gravi disturbi mentali.
L’abbiamo conosciuto in un orfanotrofio di Atibaia, dove
realizzavamo laboratori artistici e avevamo stabilito con lui una relazione di
affetto, come succedeva naturalmente ad ogni nostro intervento.
Appena venimmo a sapere che si era smarrito, espulso
dell'orfanotrofio e privato di assistenza medica, Giuliano cominciò un lungo
pellegrinaggio.
Iniziò a bussare alle porte di tutte le istituzioni, entità
e organizzazioni sociali che potessero aiutarlo.
Ma sia le entità che le persone comuni, parevano non essere
interessate alla sorte di un bambino ritenuto “colpevole” di essere diverso.
In genere la risposta più consueta era: “purtroppo é
cosi!”.
Mi rifiutavo in ripetere anch’io questa frase, desideravo
che le cose potessero cambiare in meglio, ma al tempo stesso mi sentivo
impotente davanti ai risultati negativi, con la sensazione di fallimento,
condizionata da un Mondo sempre piu' sprovvisto di Umanità.
Ancora non sapevo che il Mondo é questo, ma allo stesso
tempo tutt’altro.
E allora, in quel pomeriggio, la vita venne nuovamente a
mettere sottosopra le mie credenze unilaterali.
Camminavamo verso il mercato, io e Giuliano, e ci raggiunse
una voce da un gruppetto di vagabondi della piazza, un richiamo.
Era lui, quel bambino!
E urlando felice i nostri nomi, corse ad abbracciarci.
Lo invitammo con noi ad una passeggiata, per sapere di lui e
della sua vita, e di come lo avremmo potuto aiutare, così andammo alla mostra
d'arte 30x30, il progetto darearte che
riuniva trenta artisti brasiliani e trenta artisti genovesi.
Quel bambino danzava davanti alle opere, ridendo sbalordito
per quel nuovo mondo che si era presentato davanti ai suoi occhi al quale,
molto, molto difficilmente vi sarebbe potuto accedere.
Sentii che in quel momento, noi stavamo portando un nuovo
significato alla sua vita e lui lo stava portando alla nostra.
Anche quella Mostra d'Arte (che per un’omissione dei
responsabili non aveva raggiunto il suo vero obiettivo di solidarietà sociale) in quel momento prese Vita e Senso.
Ci congedammo da lui con una foto insieme come fanno i
turisti in un viaggio, per ricordarsi di un luogo nel quale non torneranno
forse mai più.
E tutti e tre, nel momento dello scatto fotografico,
sapevamo che non ci saremmo mai più rivisti, nonostante ci fossimo dati
appuntamento al giorno successivo.
Ma in quell’istante nulla era più importante dei nostri
sorrisi e dei nostri sentimenti.
Il suo sguardo sorridente ci diceva che, a prescindere di
tutte le sue ferite interne e della sue problematiche mentali, c'era ancora un
posto integro e puro nella sua Anima, un posto per l’amore e noi eravamo lì
semplicemente per ricordargli questo.
E fu un momento
davvero speciale.
Ecco: lì, ero a casa mia.
Molte volte durante quest’esilio, sentivo spesso dubbi, le
diffidenze e gli scoraggiamenti per
questo cammino composto di arte e solidarietà.
E molte volte mi lasciavo coinvolgere davanti alle difficoltà
e credenze altrui.
In tantissime occasioni, sia davanti alle situazioni di miseria ed assenza di diritti umani e sia nel mezzo di salotti fatti per relazioni pubbliche di cieche competizioni per potere e denaro, mi domandavo se questo avesse un senso.
In tantissime occasioni, sia davanti alle situazioni di miseria ed assenza di diritti umani e sia nel mezzo di salotti fatti per relazioni pubbliche di cieche competizioni per potere e denaro, mi domandavo se questo avesse un senso.
Perché non dimenticare tutto e andare a vedermi la TV per
sempre, mangiando pop-corn senza farmi troppe domande?
Perchè non smettevo di seguire quell'uomo che mi riportava
tutto questo scombinamento e mi costringeva constantemente alla trasformazione?
Ricordo che in una discussione con una persona, dopo avermi
messo di fronte alle mie scarse risorse economiche e ai miei inutili risultati,
mi domandò seccamente:
-Ma Lei pensa di essere capace di cambiare il mondo?
-Si!... Risposi, ma
senza alcuna convinzione.
Oggi, anche se ancora in esilio ma molto meno confusa, posso
affermare, e questa volta con molta convinzione:
-Si! Sono capace di cambiare il Mondo..., almeno il mio
mondo interiore.
E voglio continuare a camminare insieme a quest'uomo, che
non ha ancora smesso di scombussolare le mie verità.
Katia
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