INFORMAZIONI SU QUESTO LIBRO-BLOG

Questa storia narra di dieci anni vissuti da Katia e da Giuliano.
Il racconto è un "binario", costruito a "doppi capitoli", scritti individualmente dai due autori.
Ogni anno raccontato, dal 2003 al 2013, racchiude cinque capitoli, al termine dei quali,
si conclude un paragrafo e sono pubblicate delle immagini inerenti gli stessi capitoli.
Il libro, nel suo complesso, avrà pertanto 10 paragrafi, composti da 5 doppi capitoli ciascuno.
La pubblicazione di ogni nuovo capitolo avviene senza un tempo determinato, essendo attualmente in fase di creazione.

p.s.: non possiamo essere responsabili della traduzione tramite google che, purtroppo, risulta NON essere completamente compatibile con il testo originale in lingua italiana.

contatto:emaildiecianni@gmail.com
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Katia & Giuliano

domenica 15 giugno 2014

Capitolo 18 - 30x30 e tutti gli altri



Capitolo 18. 30x30 e tutti gli altri

Due giorni fa sono andata ad un incontro al Centro per Donne Immigrate, nella città dove attualmente (mentre scrivo) mi trovo, in Italia.
Mentre aspettavo il mio turno, guardavo fuori da una finestra il volo autunnale delle foglie.
Mi sentivo quasi come loro e mi sono lasciata andare a quella piccola bellezza, fino a quando una grande donna egiziana mi riportò al mondo abitato dalla gente.
Alle sue domande risposi in modo istintivo che io non ero una donna immigrata ma una donna esiliata.

Nel tragitto di ritorno a casa, in bicicletta, mi fermai davanti al mare e lì mi accorsi della profondità del segreto che avevo svelato a me stessa.
Ero una donna esiliata, e questo non c'entrava nulla con il fatto di aver lasciato il mio Paese d'origine.
Questo esodo cominciò molti anni prima che prendessi un aereo per il “mai più”.
Nacque inizialmente come una semplice sensazione di estraneamento alle cose una volta familiari, poi si trasformò in un disadattamento cronico, poi iniziai a vivere in un mondo tra i mondi, per finalmente abbandonare definitivamente la località che mi ha dato i natali, seguito dall’addio al Brasile intero.

Non so con certezza il perché di tutto questo, ma so determinare esattamente quando cominciò questo processo: il mio esilio ebbe il suo inizio con l'ingresso di Giuliano nella mia vita, ossia dieci anni fa.
Ricordo che quando camminavo insieme a lui, dovunque andassimo, sembrava di portare con me una torcia incandescente capace di farmi vedere le cose, come non avevo mai immaginato.
Insieme a lui cominciai a vivere delle esperienze bellissime, ma che mettevano in dubbio tutte le mie convinzioni precedenti.
Lentamente, tutto il mondo che avevo delicatamente costruito nei miei anni anteriori, si stava disintegrando, tutte le informazioni che avevo acquisito, ciò che avevo imparato e tutte le verità stavano lentamente scomparendo.
Anche le relazioni personali rimasero sospese, perché non riuscivo più ad appartenere al loro mondo, e per quanto provassi ad adattarmi, stranamente, non ci riuscivo.
Naturalmente, l’intensa attività dell’associazione darearte, mi riportava a vivere delle situazioni di estrema ingiustizia sociale e tutto ciò mi toglieva bruscamente il velo dell’innocenza che insistevo a portare sugli occhi.
Perdere l’innocenza era come svegliarsi di colpo e avere la forza di mantenere lo sguardo davanti a cose brutali, come un bambino che vive in strada.
E’ ovvio che anche prima vedevo delle cose, (é impossibile non vedere un bambino che dorme per la strada in Brasile, ce ne sono troppi!) ma ero protetta da una favola che raccontavo a me stessa per restare nel sonno.
Perdere l’innocenza era come uscire dall’ignoranza e affrontare i fatti che si proponevano, e solo così sarei stata capace di non smettere più di sognare e credere di poter fare qualcosa (anche una piccola cosa) perché, alla fine, tutto conta per cambiare la realtà.

Soltanto oggi riesco a capire che tutto questo vivere ha inciso in un profondo cambiamento interiore, ma in quei giorni ero esclusivamente arrabbiata e convinta che tutti mi avessero chiuso la porta in faccia o che ero stata espulsa dal paradiso per qualche peccato commesso e che non ci fosse più un posto per me, tra la gente.
Non riconoscevo nessun luogo come familiare, sia nel mondo della favela sia in quello di campagna, della città, dell'arte, delle relazioni sociali e questo includeva anche il mondo di Giuliano.

Ogni tanto trovavo la sensazione di essere a casa, della mia vera casa, quando sentivo il rumore delle mie ossa, nell’abbandonare il mio corpo su un divano dopo una giornata piena di lavoro, di incontri con segretarie, di laboratori in luoghi poveri e infine il silenzio... soltanto il profumo del caffè e l’incrociare del mio sguardo con quello di quell'uomo che, muti, ci dicevamo la stessa cosa: “siamo felici di ciò che stiamo facendo!”

Oppure in quel pomeriggio, quando incontrammo un bambino che era stato espulso da un orfanotrofio ed era smarrito.
Questo bambino, da infante, era stato testimone dell'assassinio di sua madre per mano di suo padre ed era segnato profondamente.
La diagnosi dei medici era la conseguenza: portatore di gravi disturbi mentali.
L’abbiamo conosciuto in un orfanotrofio di Atibaia, dove realizzavamo laboratori artistici e avevamo stabilito con lui una relazione di affetto, come succedeva naturalmente ad ogni nostro intervento.
Appena venimmo a sapere che si era smarrito, espulso dell'orfanotrofio e privato di assistenza medica, Giuliano cominciò un lungo pellegrinaggio.
Iniziò a bussare alle porte di tutte le istituzioni, entità e organizzazioni sociali che potessero aiutarlo.
Ma sia le entità che le persone comuni, parevano non essere interessate alla sorte di un bambino ritenuto “colpevole” di essere diverso.
In genere la risposta più consueta era: “purtroppo é cosi!”.

Mi rifiutavo in ripetere anch’io questa frase, desideravo che le cose potessero cambiare in meglio, ma al tempo stesso mi sentivo impotente davanti ai risultati negativi, con la sensazione di fallimento, condizionata da un Mondo sempre piu' sprovvisto di Umanità.
Ancora non sapevo che il Mondo é questo, ma allo stesso tempo tutt’altro.

E allora, in quel pomeriggio, la vita venne nuovamente a mettere sottosopra le mie credenze unilaterali.
Camminavamo verso il mercato, io e Giuliano, e ci raggiunse una voce da un gruppetto di vagabondi della piazza, un richiamo.
Era lui, quel bambino!
E urlando felice i nostri nomi, corse ad abbracciarci.
Lo invitammo con noi ad una passeggiata, per sapere di lui e della sua vita, e di come lo avremmo potuto aiutare, così andammo alla mostra d'arte 30x30, il progetto darearte che riuniva trenta artisti brasiliani e trenta artisti genovesi.
Quel bambino danzava davanti alle opere, ridendo sbalordito per quel nuovo mondo che si era presentato davanti ai suoi occhi al quale, molto, molto difficilmente vi sarebbe potuto accedere.
Sentii che in quel momento, noi stavamo portando un nuovo significato alla sua vita e lui lo stava portando alla nostra.
Anche quella Mostra d'Arte (che per un’omissione dei responsabili non aveva raggiunto il suo vero obiettivo di solidarietà sociale) in quel momento prese Vita e Senso.
Ci congedammo da lui con una foto insieme come fanno i turisti in un viaggio, per ricordarsi di un luogo nel quale non torneranno forse mai più.
E tutti e tre, nel momento dello scatto fotografico, sapevamo che non ci saremmo mai più rivisti, nonostante ci fossimo dati appuntamento al giorno successivo.
Ma in quell’istante nulla era più importante dei nostri sorrisi e dei nostri sentimenti.
Il suo sguardo sorridente ci diceva che, a prescindere di tutte le sue ferite interne e della sue problematiche mentali, c'era ancora un posto integro e puro nella sua Anima, un posto per l’amore e noi eravamo lì semplicemente per ricordargli questo.
E  fu un momento davvero speciale.
Ecco: lì, ero a casa mia.

Molte volte durante quest’esilio, sentivo spesso dubbi, le diffidenze e gli scoraggiamenti per  questo cammino composto di arte e solidarietà.
E molte volte mi lasciavo coinvolgere davanti alle difficoltà e credenze altrui.
In tantissime occasioni, sia davanti alle situazioni di miseria ed assenza di diritti umani e sia nel mezzo di salotti fatti per relazioni pubbliche di cieche competizioni per potere e denaro, mi domandavo se questo avesse un senso.
Perché non dimenticare tutto e andare a vedermi la TV per sempre, mangiando pop-corn senza farmi troppe domande?
Perchè non smettevo di seguire quell'uomo che mi riportava tutto questo scombinamento e mi costringeva constantemente alla trasformazione?

Ricordo che in una discussione con una persona, dopo avermi messo di fronte alle mie scarse risorse economiche e ai miei inutili risultati, mi domandò seccamente:
-Ma Lei pensa di essere capace di cambiare il mondo?
-Si!... Risposi, ma senza alcuna convinzione.

Oggi, anche se ancora in esilio ma molto meno confusa, posso affermare, e questa volta con molta convinzione:
-Si! Sono capace di cambiare il Mondo..., almeno il mio mondo interiore.
E voglio continuare a camminare insieme a quest'uomo, che non ha ancora smesso di scombussolare le mie verità.

Katia

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