INFORMAZIONI SU QUESTO LIBRO-BLOG

Questa storia narra di dieci anni vissuti da Katia e da Giuliano.
Il racconto è un "binario", costruito a "doppi capitoli", scritti individualmente dai due autori.
Ogni anno raccontato, dal 2003 al 2013, racchiude cinque capitoli, al termine dei quali,
si conclude un paragrafo e sono pubblicate delle immagini inerenti gli stessi capitoli.
Il libro, nel suo complesso, avrà pertanto 10 paragrafi, composti da 5 doppi capitoli ciascuno.
La pubblicazione di ogni nuovo capitolo avviene senza un tempo determinato, essendo attualmente in fase di creazione.

p.s.: non possiamo essere responsabili della traduzione tramite google che, purtroppo, risulta NON essere completamente compatibile con il testo originale in lingua italiana.

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Katia & Giuliano

domenica 1 giugno 2014

Capitolo 17 – Favela.


Capitolo 17 – Favela.


Non amo molto volare, rinchiuso dentro quei grandi transatlantici del cielo.
La durata del volo e delle attese, e gli spazi sacrificati all’interno dell’aereo, mi hanno sempre causato la sofferenza sufficente per non vedere quanto sia incredibile raggiungere l’altro lato del mondo al di sopra delle nuvole.
Ma stavo facendo l’abitudine al volo intercontinentale e ormai avevo capito come muovermi.

Arrivai in Brasile in aprile.
Per la mia terza volta.
E allo sbarco mi attende una sorpresa.
I miei bagagli erano stati smarriti!
“Ci dispiace, ma sono stati imbarcati in un altro volo”, mi dissero, pacati, all’ufficio reclami.
Lasciai il mio recapito, dissero di non preoccuparmi e che li avrei ricevuti al mio domicilio.
Ma mi preoccupai lo stesso, senza disperarmi dato che la maggior parte delle 30 opere della mostra che avrei presentato alla città di Atibaia erano con me, nei miei bagagli a mano.

Katia e suo padre mi vennero a prendere all’aeroporto di Guarulhos.
Come tutte le altre volte, al nostro incontro, tenemmo a freno l’entusiasmo, anche se era evidente la gioia di ritrovarci ancora.

L’arrivo alla sede fu una bella sorpresa.
Katia non solo l’aveva accudita, ma anche ristrutturata a nuovo, ridipinta e abbellita con mosaici, e adesso brillava in festa come se, anche lei, fosse lieta di rivedermi.
Che meraviglia, mi sentivo a casa.
Forse per la prima volta in vita mia.

Amai profondamente quella casina.
Era colma del nostro amore e del nostro sudore per costruirla, per renderla bella e accogliente.
E anche in questa permanenza mi occupai di renderla migliore, ristrutturando la parte del retro e arredandola.
Rimase semplice e pulita, viva e aperta, come noi volevamo essere con gli altri, con tutti coloro che ci incontravano o ci venivano a trovare.
Quella sede, quella casa, era parte di noi.

Dopo qualche giorno un corriere bussò alla porta con le valigie ritrovate, promessa mantenuta dalla compagnia aerea, e io tirai un sospiro di sollievo.

Il programma da realizzare in Brasile, questa volta, era davvero impegnativo, un passo in avanti, oltre tutto ciò che avevamo già fatto e sapevamo che nel percorso avremmo incontrato molte cose che avrebbero richiesto altri sforzi, quelli che chiamavamo “progetti aggiunti”.
Erano gli incontri imprevisti nel cammino.
Ossia: darearte partiva con un programma di massima, da realizzare con le forze disponibili e nel fare questo ci si poteva accorgere che nascevano altre richieste, altre possibilità o altre situazioni che volevano o dovevano essere sviluppate.
Ad esempio, attraverso gli incontri con i bambini degli orfanotrofi venivamo a sapere che alcuni di loro erano fuggiti, evasi, e che si rifugiavano in favela, in un quartiere di baracche e violenza che li avrebbe concesso un certo tipo di protezione.
Allora noi si andava là, a vedere cosa era possibile fare, a vedere se potevamo essere utili.
E incontravamo chi era fuggito e ci correva incontro, felice di rivederci, come noi.
Ma mai era nostra la decisione su cosa era meglio fare per loro.
Noi mettevamo noi stessi e la nostra sede a loro disposizione, perché potessero sentirsi meno soli.
Loro decidevano cosa era giusto per loro fare.
Io, di certo, non lo potevo sapere.
Ma ecco che, da questo avvenimento, nasceva il progetto aggiunto, che poteva essere creato all’interno della favela, per avere il contatto con loro che erano i dispersi.
E si inventava su due piedi un modo per dare una possibilità.
Un’altra possibilità.

La favela non l’ho ancora raccontata.
E in effetti solo quest’anno l’avrei vissuta più da vicino, e divenne il mio ingresso in quel mondo che fino ad allora avevo solo conosciuto superficialmente.
La prima volta, nel 2003, la moglie del sindaco mi fece visitare una parte della favela vista dai finestrini chiusi della sua auto, con l’autista che mi consigliava di non aprirli mai, in quella calda mattina di sole.
Il tragitto era per mostrarmi il lavoro compiuto dall’Amministrazione pubblica cittadina.
Avevano fatto di quello che era l’immondezzaio cittadino, una verde montagna.
Il monte di spazzatura era stato ricoperto con terra e ora sembrava fosse una collina, prossima alle centinaia di baracche dei residenti del quartiere.
E l’immondezzaio disorganizzato era diventato organizzato.
Organizzato con un sistema di separazione della spazzatura dove scorreva su un rullo meccanico e decine di persone, praticamente tutte donne, separavano in fretta tutti i materiali.
La puzza di quel posto era per me insopportabile.
Mosche e batteri erano tutt’uno con lo sporco che dominava quel posto, che aveva ancora molto da fare per divenire luogo di educazione ambientale.
Solo per l’occasione della visita, seppi poi, alcuni dipendenti di questa coperativa avevano indosso delle mascherine.
Stavo zitto e osservavo scattando qualche foto di quel luogo, dove l’unico “uomo bianco” era al comando, servile e gentile con la moglie del sindaco.
Era il vanto della città, questo immondezzaio che confinava con il quartiere, anche se a me appariva come una cosa unica.
Era il loro fiore all’occhiello, il vanto dell’ecologia e del riciclo.
Poco dopo, mi accorsi che nella parte dell’immondezzaio che i camion scaricavano i rifiuti urbani, c’erano persone che li raccoglievano.
Per loro stessi, per sopravvivere.
Donne, bambini e uomini che raccoglievano rifiuti per sopravvivere.
Ma questi non avrei dovuto considerarli e io non potevo fare fotografie, mi dissero.
Dei Rifiuti che raccolgono rifiuti.

Nonostante avessi sotto gli occhi molti elementi che mi raccontavano esplicitamente della città, del sistema sociale e della cultura di quel posto, in quei giorni misi da parte quell’esperienza in uno dei tanti cassetti del mio archivio.

Senza saperlo, nel mio primo anno in Brasile, avevo sotto gli occhi, e tutti i giorni, la favela.
Perché era negli occhi delle persone che incontravo.
La favela era presente nel centro benestante della città, minacciosa a pochi isolati da lì, con il suo vento come un alito cattivo che segnalava la sua angosciante presenza.
Era nella paura della gente, che teneva stretta la borsa anche se vuota, che camminava guardandosi attorno con la certezza che sarebbe stata assaltata, prima o poi.
Ma peggio di tutto era nello sguardo dei bambini, nelle loro parole, nei loro gesti.
E loro l’avrebbero imparata e poi insegnata, ancora.
Come sta nel sistema naturale delle cose.

E come in ogni mondo che soffre, in quei mondi si trovano meraviglie, luci, sogni e speranze che possono essere più luminose del sole, più grandi di una galassia intera e possono lasciarci senza fiato per la loro immensa e commovente bellezza.
Ed ecco splendere una stella.
Donna di 33 anni, mamma di 5 figli, di padri diversi, piccola e gracile, dagli occhi immensi.

Questa donna faceva parte del gruppo di madri cucitrici che avevamo sostenuto.
Era una di coloro che avevamo affiancato sapendo della sua realtà difficile e della sua situazione molto delicata, anche per la difficoltà di seguire i propri cinque figli, tre maschietti e due bambine, tutti di una bellezza sconcertante.
I suoi racconti, sulla propria vita, erano davvero difficili da concepire.
Per questo motivo avevamo un attenzione particolare alla sua storia e ci avvicinammo un poco di più a lei, che alle altre madri.
E avvicinandosi, scoprimmo la sua luce.
Spesso occorre approssimarsi alle cose, alle persone, per intuire la loro essenza, per ascoltare la loro fiebile voce, ormai sepolta, ormai soffocata dai rumori e dalle imposizioni del mondo circostante.
E allora ci possiamo meravigliare.
E allora possiamo incontrare realmente chi ci sta di fronte e finalmente essere connessi.

Tania aveva paura.
Tutti i giorni, ogni giorno, aveva paura.
Ma la sua paura aveva fatto il suo coraggio, di potercela fare, nonostante la follia che la circondava.
La vedemmo in condizioni orribili, picchiata a sangue dal suo compagno, ma sempre in piedi, con la dignità di una Regina che doveva badare al suo regno, ai suoi cinque piccoli fedeli, che contavano su di lei e solo su di lei.
E lei, per loro, c’era sempre.
Forse c’era meno per se stessa, naufragando in quel mare in continua tempesta, dove i morti bussavano alla porta e restavano lì fuori, fino a che qualcuno non li portasse altrove, forse seppellirli in quell’immondezzaio a pochi metri dalla sua casa.

La sua casa.
Una delle cose che mi colpirono maggiormente in Brasile, fu conoscere la sua casa. Non dovrebbe esistere un sistema che osi definirsi “sociale”, un sistema che sventoli termini come “cittadinanza”, “sviluppo”, “prevenzione sanitaria”, “educazione”, “diritti umani”, “dignità del proprio popolo”, “solidarietà” e permettere che una famiglia di 7 componenti, di cui 5 di età inferiore ai 9 anni, di vivere nelle condizioni che avevo solo intravisto.

Come tante madri della favela, lei era l’unico riferimento dei propri figli che crescevano senza padre, avendo come unico modello da seguire il leader del quartiere o quello che vendeva la televisione.
Entrambi dubito siano un buon esempio di stile di vita.
Il primo inseriva in una vita a breve scadenza, dove le prospettive erano il carcere o la morte, e la seconda era una penosa illusione senza uscita.
Ma in certi ambienti, le opportunità sono davvero misere, anche se le meteore appaiono in ogni cielo.
Ci siamo sentiti meteore, cercando di offrire alternative, lavori e diversivi, ma la nostra era solo un indicazione, non potevamo mai farci carico della vita del nostro prossimo.
E in molti sappiamo quanto questo sia doloroso, guardando gli occhi di un bimbo, che in te può intuire una via di uscita.

E quanti occhi di bambini abbiamo incontrato.
In quanti si sono chiesti da dove arrivavamo, con i nostri buffi modi di fare, tanto diversi.
E che cosa avessimo poi da sorridere, sempre, tanto da essere contagiosi.
Chissà quali domande passavano per la testa di molti di loro.
Ho ancora con me lettere d’amore che adolescenti mi hanno scritto, come omaggio della nostra presenza.
Ho ancora in me, tutti i bambini che ho incontrato.

E i bambini delle bambine?
A undici anni si può essere madri?

Quando uscii dalla mia prima vista da un’entità che accoglieva bambine madri, rimasi come in stato confusionale.
Avevo visto bambine con figli.
Non di plastica, ma di carne e ossa che piangevano invocando latte materno.
L’entità accoglieva bambine per prepararle al parto e assisterle per i primi mesi subito dopo, essendo tutte provenienti dalla favela, in stato di carenza di ogni cosa.
Bambine che restano incinte da amici, familiari, vicini, sconosciuti.
Preparate ad essere madri dall’entità, che le accoglie ed aiutano solo ed esclusivamente se accettano di portare avanti la gravidanza.
A undici anni.

Per quell’entità raccogliemmo fondi, realizzammo e donammo un video che raccontava e promuoveva il loro intento e facemmo corsi alle bambine per sensibilizzarle al meraviglioso evento che le attendeva.
Quelle bambine le incontravamo nei vicoli di fango della favela, insieme ai figli senza genitori, evasi dagli orfanotrofi, insieme ad altri abbandonati ed emarginati.
E i figli di quei figli nascevano in questo cerchio, all’interno di un ciclo che non voleva spezzarsi, in quei vicoli ciechi di quell’interminabile giostra che è la favela.

E proprio in questo luogo, proprio nella favela, incontrai un uomo nero come la pece, di quasi 50 anni, padre di più di 25 figli (quelli riconosciuti, mi disse), leader religioso di una parte della comunità della favela, centro di riferimento per molti e “maestro di vita”, in favela.
Mio caro amico, ti ricordo con grande affetto.
Grazie a lui imparai a conoscere meglio quel mondo e ad entrare ancor di più nel suo intestino, fino al limite a me concesso.
Con lui, realizzai diversi progetti importanti e determinanti per i nostri reciproci sviluppi.
Lo scambio tra noi fu molto generoso, eravamo maestri uno del’altro, aiutandoci nel comprendere le nostre diverse realtà e mettendoci in condizione di migliorare i nostri sforzi.
Nella prima occasione del nostro incontro, offrii una donazione alla sua associazione.
Si trattava di un filmato che avremmo successivamente divulgato in un evento da noi organizzato.
Questo avrebbe dato la visibilità locale alle attività sociali della loro entità.
In teoria, era un’associazione di beneficenza per i residenti della favela, ma che non aveva più come proseguire il loro intento.
Si occupavano di raccogliere alimenti scartati da tre o quattro supermercati della città, che avrebbero selezionato e suddiviso in ceste e poi donato a coloro che si avvicinavano alla loro associazione, che aveva anche un carattere religioso.
Avevo capito più o meno, sul loro progetto, ma non sapevo esattamente a cosa sarei andato incontro il giorno che chiesi al mio compagno se potevo salire sul camion con lui per il quotidiano giro ai supermercati.
Così, con la mia piccola telecamerina, mi sedetti al suo fianco e partimmo per la raccolta con tre donne aiutanti sul grande cassone.
Capii che questo leader sapeva il fatto suo e sapeva comandare come pochi avevo visto fare.
Al termine della raccolta e tornati alla sede, ci fu la suddivisione degli alimenti, la pulizia del camion e la divisione delle parti con chi aveva lavorato, essendo che nessuno aveva compenso da questo, ma poteva avere la precedenza sul migliore raccolto.
Poi tutto veniva esposto al pubblico, che ritirava il biglietto e, al giusto momento, lo riconsegnava al leader che, al microfono, permetteva l’ingresso.
La gente poteva prendere una borsa intera di cibo, gratuitamente, il tutto in mezzo a milioni di mosche e con un sottofondo di musica evangelica.

Ricordo che, in un momento di questi, ebbi un’impressione, che durò come un flash di un fotoreporter.
Mi resi conto di essere lì.
Fu come un colpo sordo che mi stordì.
Ero lì, dove mai ero stato prima, in un luogo che aveva dell’incredibile, in un mondo che mi era completamente sconosciuto.
Ero nel mezzo di un articolo fotografico del National Geografic che avevo visto tanto tempo prima.
Non avrei mai potuto capire cosa volesse dire essere lì realmente, se lo avessi visto esclusivamente attraverso le pagine brillanti di una bella rivista fotografica.
Ero in mezzo alla puzza insopportabile, a insetti molesti e a cani randagi malati, a un’insostenibile nenia religiosa e a persone che potevano anche ammazzarmi per prendere quel poco che avevo addosso.
Io ero lì.
E la puzza diventava l’odore naturale delle cose, gli insetti e i cani randagi erano cornice e parte integrante del luogo, la musica la colonna sonora di quei momenti e in verità nessuno mi avrebbe mai torto un capello, perché ero uno di loro anche io, in qualche modo.

Registrai ciò che potevo e nacque un piccolo video, che più avanti presentammo in un evento organizzato in uno spazio pubblico concesso dall’amministrazione pubblica di Atibaia.
A quell’evento vi era una rappresentanza della favela, alcuni figli del mio compagno, sua moglie e alcuni personaggi che riuscimmo a convincere di far parte del pubblico.
Poco prima dell’inizio dell’incontro, a sorpresa, entrò un tizio dall’aria un pò troppo decisa e arrogante, che mi strinse la mano in maniera eccessivamente forte.
Era l’uomo più ricco della città.
Ed era candidato alle elezioni politiche come sindaco.
Un argomento nuovo per me e un’altra lezione che stavo per imparare, in Brasile.

Ebbene, il film che presentammo fece commuovere il nostro pubblico e poi parlammo un poco per presentare l’entità di Clodoaldo.
L’uomo più ricco della città chiese quale fosse la necessità primaria e il nostro amico leader rispose che il camion, quello che si vedeva nel film, si era bloccato e in condizioni infelici, ridotto a un rottame non sarebbe stato possibile continuare con la raccolta degli alimenti.
Ebbene: l’uomo più ricco della città mise a disposizione la propria attrezzata officina per la ristrutturazione completa del camion!
Il valore donato era davvero molto, molto alto, e io chiusi con gioia l’evento, preoccupandomi di seguire e essere testimone di tale donazione.
E il donatore mantenne la parola.
Il camion fu rimesso completamente a nuovo e il mio caro amico era felice.
E io ancor di più.

Pensai che proprio questo fosse il mio lavoro.
Pensai che era un miracolo che era accaduto grazie a ciò che avevo collocato nelle immagini del film, creato senza strumenti che si fanno chiamare “professionali” e senza alcuna preparazione, ma con l’unico ingrediente fondamentale quando si vuole realmente fare: l’amore.
Amai con tutta l’innocenza possibile il lavoro di questo leader e il mio lavoro di testimone e questo si avvertiva nelle riprese.
Ero tanto felice che non pensai di fare altro nella vita.
Ero diventato un videomaker, finalmente, il lavoro dei miei sogni!
Avevo realizzato un sogno per qualcuno, per forse molti, e si era realizzato il mio più irraggiungibile.
Non ci credevo, tanto ero al settimo cielo!
Potevo adesso continuare?
Ero apparso in pubblico, mi avevano visto, sentito, avevo creato, realizzato un film, avevo commosso, ricevuto applausi, raggiunto un obiettivo straordinario!
Potevo credere in me, adesso?   Si. Finalmente, si.

Di queste due persone semplici, questa donna e quest’uomo, potrei scrivere moltissimo.
Frequentai entrambi, per motivi diversi, fino al giorno che lascerò Atibaia.
Loro rappresentavano, per me, l’altro lato del fiume, o meglio, l’altro lato della strada che divideva la città in due diversi stili di vita.
Loro due sono universi dei quali ho potuto visitare solo un brevissimo tratto, da pianeta a pianeta, senza potermi avventurare di più, ma sempre con la consapevolezza della dimensione infinita di ciò che si nascondeva oltre quello che era a me concesso visitare.

Sebbene oggi, non sappia più nulla di loro, li conservo con me come due splendide perle nere, preziosi compagni di un viaggio senza fine.


Giuliano

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