INFORMAZIONI SU QUESTO LIBRO-BLOG

Questa storia narra di dieci anni vissuti da Katia e da Giuliano.
Il racconto è un "binario", costruito a "doppi capitoli", scritti individualmente dai due autori.
Ogni anno raccontato, dal 2003 al 2013, racchiude cinque capitoli, al termine dei quali,
si conclude un paragrafo e sono pubblicate delle immagini inerenti gli stessi capitoli.
Il libro, nel suo complesso, avrà pertanto 10 paragrafi, composti da 5 doppi capitoli ciascuno.
La pubblicazione di ogni nuovo capitolo avviene senza un tempo determinato, essendo attualmente in fase di creazione.

p.s.: non possiamo essere responsabili della traduzione tramite google che, purtroppo, risulta NON essere completamente compatibile con il testo originale in lingua italiana.

contatto:emaildiecianni@gmail.com
Grazie per seguirci.
Katia & Giuliano

domenica 1 dicembre 2013

Capitolo 4: Addio.


Capitolo 4: Addio.

Il tempo era quasi finito, e da lì a poco sarei dovuto ritornare in Italia.
Avevo visto molte cose nuove, per i miei occhi e per la mia Anima.

Avevo conosciuto Atibaia, dal primo cittadino, all’ultimo uomo di strada.
Le sue contraddiziomi urbane e sociali.
La sua accoglienza e voracità per tutto ciò che potevo portare da quello che era considerato “il primo mondo”.
Avevo visitato praticamente tutte le Entità di accoglienza della città, incontrato e intervistato i loro responsabili.
Avevo conosciuto molte persone e famiglie diverse, di ogni ceto sociale, e un’infinità di bambini.
E quanta intensità, in così poco tempo, nonostante i giorni compromessi da pioggie, incidenti, impedimenti ed infortuni.

Una sera, prima di addormentarmi, avvertii un forte prurito ad entrambe le cosce.
Vidi che due nuovi nei erano spuntati dal nulla, uno per lato, arrossiti dal mio grattare, e non mi preoccupai. L’indomani mattina controllai e li trovai terribilmente gonfi!
Non erano nei, ma due zecche, nere, piene del mio sangue!
Non ero preparato a certe avventure ed in preda al terrore, me le strappai di dosso.
Allarmato per qualche infezione, fui tranquillizzato dai miei amici, che lo trovarono un fatto normale, soprattutto dopo aver visitato il monte di pietra che domina la città, Pedra Grande, con il percorso completamente immerso nella natura.
Inoltre quel tipo di parassita non era pericoloso, anche se non era il caso continuare a sfamarle con il proprio sangue.

E, come questo piccolo dettaglio, moltissimi altri eventi resero la permanenza di quel mio primo mese in Brasile, decisamente particolare.

Conobbi una donna che, mi disse, aveva percepito qualcosa di particolare in me e che avrei dovuto ricevere un dono.
E me lo fece.
Era Master Reiki, una disciplina orientale che già conoscevo, avendo ricevuto il primo livello circa un anno prima.
Il suo dono fu quello di portarmi al suo livello di Reiki, perché, riteneva che avrei dovuto assolutamente averlo, per quello che stavo vivendo, e avrei vissuto in futuro.
Così viaggiammo fino ad una spiaggia del litorale di Sao Paulo, a Sao Vicente.
Fu là che vissi l’esperienza di un battesimo nelle acque del mare, dove mi tuffai dopo il processo di ricevimento di tutti i livelli del Reiki, avvenuto sulla sabbia, sotto l’ombra delle palme di cocco.
Fu il bagno in mare più bello della mia vita.
Fu rinascere.
Era talmente entusiasmante e liberatorio che fui pervaso da una gioia incontenibile e mi sentii incredibilmente forte.
Da solo, felice, mi rituffavo nelle acque brasiliane, dove mi sembrava di esserci nato e stato da sempre.
Poi, sorridente, ritornai alla spiaggia, dove mi attendeva la Maestra che completò il rituale.
Ringrazierò per sempre questa cara amica per questo meraviglioso dono.

In un breve viaggio, giunsi a Rio de Janeiro, per un incontro con un gruppo di giovani artisti clown, con i quali avrei conversato sulla possibilità di collaborazione con darearte, ma non andammo oltre la semplice conoscenza, in quell’unico giorno della mia permanenza nella metropoli carioca.

Ma quel giorno fu decisivo per me.
Non dimenticherò mai la breve passeggiata sul lungomare di Copacabana e Ipanema.
Era come stare dentro una cartolina.
Dinanzi al mare più famoso del mondo, sulla spiaggia più famosa del mondo.
E il Pao de Acucar, e il Cristo Redentor, e il mare, e il Samba, e i brasiliani attorno a me.

Ma la sensazione di essere finalmente in un luogo straordinariamente bello, fu rapidamente spazzata via.
Non riuscivo a capire come si potessero fondere tra loro, pur restando ben separate e distinte, le diverse classi sociali che condividevano lo stesso spazio.
Vedevo giovani signore assorte nella loro ginnastica con indosso abbigliamento di grandi firme, distanti poco più di un metro da bambini sporchi, senza vestiti, addormentati su scalini che davano alla spiaggia.
O vedevo nei chioschi dei bar, persone obese, che ridevano allegre, saziare la sete con noci di cocco gelate, che una volta consumate, le gettavano nella spazzatura, precisamente dove si trovava un’altra persona, magra e smunta, con il volto distrutto da alcool e droghe, che raccattava lattine vuote.
E ancora giovani e anziani abbruttiti dalla loro miseria, vagabondare non lontano da un set fotografico, dove modelle fosforescenti erano impegnate sfilare con il costume da bagno all’ultima moda.
Questa gigantesca insalata mista di umanità, mescolata nei suoi livelli sociali più disparati, era un conflitto, dentro di me. Ma, intorno a me, nessuno scandalo.
Nessuno lamentava questo confronto diretto tra povertà e ricchezza, entrambe estreme, ai lontanissimi poli opposti. Anzi, sentivo che per tutti c’era una logica a me sconosciuta e che, da sempre, è così che andava.

Questa mescolanza sociale non era di certo a me nuova, e anche nelle altre città brasiliane vidi questi forti contrasti, ma qui a Rio de Janeiro fu diverso.
Come essere rintronato con un colpo sordo.
Ero frastornato e confuso.

Quei bambini, abbandonati e addormentati sulla sabbia, cosa sognavano?
E chi si allungava i muscoli, con quei bambini sotto gli occhi, cosa guardava?

Ma comunque fosse, se normale o meno, il mio cervello non realizzava nitidamente, forse per le troppe informazioni, nuove e conflittuali, ed entrai in un disagio, un lieve estraneamento alla realtà.
Un distacco accaduto, credo, per l’impossibilità di capire.
Smisi di parlare per due giorni: avevo visto il Brasile.

Si concluse la mia permanenza e mi preparavo al viaggio di ritorno in Italia.

Katia avrebbe portato avanti i progetti della darearte con delle attività che avrei sostenuto economicamente dall’Italia, ed ero felicissimo di questo perché il lavoro insieme aveva raggiunto ora la seconda fase, quella del passaggio del testimone.

Io non sapevo se sarei riuscito a tornare presto, ma Rio mi aveva dato un pugno in faccia tanto forte che, una volta in Italia, avrei spinto con tutte le forze la mia piccola organizzazione per tornare in Brasile, con maggior convinzione.

Dovevo congedarmi da Katia e lo feci un pomeriggio, a metà della strada che univa la sua casa a quella dove ero ospitato.
Mi resi conto che quel momento era molto delicato, per ciò che si era creato fra noi.
Ma dovevo concludere il mio viaggio e lo feci proprio lì, in quel distacco, salutandola emozionato, ma solo dentro di me, come ero abituato a fare da sempre.
Così la lasciai con un’arrivederci, per alleggerire tutto, e con la promessa che avremmo lavorato ancora insieme, anche fosse stato a distanza.

La salutai e me ne andai, senza voltarmi.
I miei pensieri erano come dentro un frullatore.
Io ero dentro un frullatore.
E di pessima marca: faceva molto rumore e consumava molta energia.

Lasciai Katia e poco dopo il Brasile.
Ma sentivo che li avrei rivisti, un giorno, entrambi.

Giuliano


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