Capitolo
4: Addio.
Il tempo era quasi finito, e da lì a poco sarei
dovuto ritornare in Italia.
Avevo visto molte cose nuove, per i miei occhi
e per la mia Anima.
Avevo conosciuto Atibaia, dal primo cittadino,
all’ultimo uomo di strada.
Le sue contraddiziomi urbane e sociali.
La sua accoglienza e voracità per tutto ciò che
potevo portare da quello che era considerato “il primo mondo”.
Avevo visitato praticamente tutte le Entità di
accoglienza della città, incontrato e intervistato i loro responsabili.
Avevo conosciuto molte persone e famiglie
diverse, di ogni ceto sociale, e un’infinità di bambini.
E quanta intensità, in così poco
tempo, nonostante i giorni compromessi da pioggie, incidenti, impedimenti ed
infortuni.
Una sera, prima di addormentarmi,
avvertii un forte prurito ad entrambe le cosce.
Vidi che due nuovi nei erano
spuntati dal nulla, uno per lato, arrossiti dal mio grattare, e non mi
preoccupai. L’indomani mattina controllai e li trovai terribilmente gonfi!
Non erano nei, ma due zecche,
nere, piene del mio sangue!
Non ero preparato a certe
avventure ed in preda al terrore, me le strappai di dosso.
Allarmato per qualche infezione,
fui tranquillizzato dai miei amici, che lo trovarono un fatto normale,
soprattutto dopo aver visitato il monte di pietra che domina la città, Pedra
Grande, con il percorso completamente immerso nella natura.
Inoltre quel tipo di parassita
non era pericoloso, anche se non era il caso continuare a sfamarle con il
proprio sangue.
E, come questo piccolo dettaglio,
moltissimi altri eventi resero la permanenza di quel mio primo mese in Brasile,
decisamente particolare.
Conobbi una donna che, mi disse,
aveva percepito qualcosa di particolare in me e che avrei dovuto ricevere un
dono.
E me lo fece.
Era Master Reiki, una disciplina orientale che già
conoscevo, avendo ricevuto il primo livello circa un anno prima.
Il suo dono fu quello di portarmi
al suo livello di Reiki, perché, riteneva che avrei dovuto assolutamente
averlo, per quello che stavo vivendo, e avrei vissuto in futuro.
Così viaggiammo fino ad una
spiaggia del litorale di Sao Paulo, a Sao Vicente.
Fu là che vissi l’esperienza di
un battesimo nelle acque del mare, dove mi tuffai dopo il processo di
ricevimento di tutti i livelli del Reiki, avvenuto sulla sabbia, sotto l’ombra
delle palme di cocco.
Fu il bagno in mare più bello
della mia vita.
Fu rinascere.
Era talmente entusiasmante e
liberatorio che fui pervaso da una gioia incontenibile e mi sentii
incredibilmente forte.
Da solo, felice, mi rituffavo
nelle acque brasiliane, dove mi sembrava di esserci nato e stato da sempre.
Poi, sorridente, ritornai alla
spiaggia, dove mi attendeva la Maestra che completò il rituale.
Ringrazierò per sempre questa
cara amica per questo meraviglioso dono.
In un breve viaggio, giunsi a Rio
de Janeiro, per un incontro con un gruppo di giovani artisti clown, con i quali
avrei conversato sulla possibilità di collaborazione con darearte, ma non
andammo oltre la semplice conoscenza, in quell’unico giorno della mia
permanenza nella metropoli carioca.
Ma quel giorno fu decisivo per
me.
Non dimenticherò mai la breve
passeggiata sul lungomare di Copacabana e Ipanema.
Era come stare dentro una
cartolina.
Dinanzi al mare più famoso del
mondo, sulla spiaggia più famosa del mondo.
E il Pao de Acucar, e il Cristo
Redentor, e il mare, e il Samba, e i brasiliani attorno a me.
Ma la sensazione di essere
finalmente in un luogo straordinariamente bello, fu rapidamente spazzata via.
Non riuscivo a capire come si
potessero fondere tra loro, pur restando ben separate e distinte, le diverse
classi sociali che condividevano lo stesso spazio.
Vedevo giovani signore assorte
nella loro ginnastica con indosso abbigliamento di grandi firme, distanti poco
più di un metro da bambini sporchi, senza vestiti, addormentati su scalini che
davano alla spiaggia.
O vedevo nei chioschi dei bar,
persone obese, che ridevano allegre, saziare la sete con noci di cocco gelate,
che una volta consumate, le gettavano nella spazzatura, precisamente dove si
trovava un’altra persona, magra e smunta, con il volto distrutto da alcool e
droghe, che raccattava lattine vuote.
E ancora giovani e anziani
abbruttiti dalla loro miseria, vagabondare non lontano da un set fotografico,
dove modelle fosforescenti erano impegnate sfilare con il costume da bagno
all’ultima moda.
Questa gigantesca insalata mista
di umanità, mescolata nei suoi livelli sociali più disparati, era un conflitto,
dentro di me. Ma, intorno a me, nessuno scandalo.
Nessuno lamentava questo
confronto diretto tra povertà e ricchezza, entrambe estreme, ai lontanissimi
poli opposti. Anzi, sentivo che per tutti c’era una logica a me sconosciuta e
che, da sempre, è così che andava.
Questa mescolanza sociale non era
di certo a me nuova, e anche nelle altre città brasiliane vidi questi forti
contrasti, ma qui a Rio de Janeiro fu diverso.
Come essere rintronato con un
colpo sordo.
Ero frastornato e confuso.
Quei bambini, abbandonati e
addormentati sulla sabbia, cosa sognavano?
E chi si allungava i muscoli, con
quei bambini sotto gli occhi, cosa guardava?
Ma comunque fosse, se normale o
meno, il mio cervello non realizzava nitidamente, forse per le troppe
informazioni, nuove e conflittuali, ed entrai in un disagio, un lieve
estraneamento alla realtà.
Un distacco accaduto, credo, per
l’impossibilità di capire.
Smisi di parlare per due giorni:
avevo visto il Brasile.
Si concluse la mia permanenza e
mi preparavo al viaggio di ritorno in Italia.
Katia avrebbe portato avanti i
progetti della darearte con delle attività che avrei sostenuto economicamente
dall’Italia, ed ero felicissimo di questo perché il lavoro insieme aveva
raggiunto ora la seconda fase, quella del passaggio del testimone.
Io non sapevo se sarei riuscito a
tornare presto, ma Rio mi aveva dato un pugno in faccia tanto forte che, una
volta in Italia, avrei spinto con tutte le forze la mia piccola organizzazione
per tornare in Brasile, con maggior convinzione.
Dovevo congedarmi da Katia e lo
feci un pomeriggio, a metà della strada che univa la sua casa a quella dove ero
ospitato.
Mi resi conto che quel momento
era molto delicato, per ciò che si era creato fra noi.
Ma dovevo concludere il mio
viaggio e lo feci proprio lì, in quel distacco, salutandola emozionato, ma solo
dentro di me, come ero abituato a fare da sempre.
Così la lasciai con
un’arrivederci, per alleggerire tutto, e con la promessa che avremmo lavorato
ancora insieme, anche fosse stato a distanza.
La salutai e me ne andai, senza
voltarmi.
I miei pensieri erano come dentro
un frullatore.
Io ero dentro un frullatore.
E di pessima marca: faceva molto
rumore e consumava molta energia.
Lasciai Katia e poco dopo il
Brasile.
Ma sentivo che li avrei rivisti,
un giorno, entrambi.
Giuliano
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.