Capitolo 8: In cammino
Belin, e adesso...?
Questa fu la frase che scrissi in
un dipinto che rappresentava una donna con il proprio cuore in mano.
Non c’era nessun’altra parola
disponibile per descrivere cosa provavo davanti a quel nuovo Mondo, e questa
immagine, la raccontava.
Non capivo assolutamente nulla di
quella città, di quella gente, di quello che vedevo, udivo, annusavo e
mangiavo.
E non capivo niente,
principalmente di quell’uomo.
Non sapevo come muovere il mio
corpo in quelle vie, non osavo correre, cosa che per me era prima naturale.
Molte volte bloccavo un gesto a
metà, nel dubbio.
Molte volte facevo l’opposto e mi
sfuggiva un gesto nel momento sbagliato.
Tutto era in sospeso, come in una
favola dove la protagonista attraversa un passaggio segreto e cade in un Mondo
fantastico, dove niente funziona come, prima, lei conosceva.
I sentimenti erano così immensi e
potenti che non riuscivo a tenerli dentro.
Uscivano in forme di colorati
dipinti.
E meno male che quell’uomo mi
diede tutto il materiale possibile per dipingere.
E che fortuna che c’era una
mostra da fare, perché questo mi dava una direzione, un obiettivo pratico,
altrimenti non sarei stata capace di sopravvivere a tanto sentimento.
Credo che anche per lui fosse
necessario trovare un sentiero, un margine del fiume, dove aggrapparsi e non
lasciarsi trascinare della corrente.
Ci siamo concentrati tutti e due,
nella realizzazione della mostra e di altri progetti della darearte, realizzati
in Italia.
Tutti i giorni dipingevo e avevo
già creato un numero di dipinti uguale a quelli che avevo portato dal Brasile.
Era tutto pronto per
l’esposizione.
Mancava un giorno
all’inaugurazione della mostra e Giuliano mi portò, in moto, nel centro storico
di Genova, per comprarmi un paio di scarpe.
In vita mia, non ero mai salita
su una moto o qualcosa di simile.
E mai avevo immaginato di girare
su quell’affare, abbracciata ad un uomo così bello.
La città, che era sempre
nascosta, adesso sembrava un
serpente che non finiva più, e noi, sopra le sue spalle, volavamo con il vento
in faccia.
Ad un tratto si spalancò davanti
noi una strada volante, che chiamavano “sopraelevata”, e lui si mise a cantare.
E poi apparve il Porto, con tutti
i suoi colori monocromatici.
Sentii un mancamento, poiché
certe bellezze, non dovrebbero essere messe tutte insieme, altrimenti c’è il
rischio di esserne schiacciati.
Nel centro storico ebbi paura,
perché quelle sue vie strette erano infinite e stregate.
Avevo l’impressione che se mi
fossi allontanata da quell’uomo, anche per un attimo, non avrei mai più
ritrovato il cammino di casa.
Questo mi fece tanta paura, che
mi venne l’aria nella pancia.
Nel negozio, mentre la commessa
mi parlava delle scarpe, io non pensavo a nulla, tranne che a trattenere la
scorreggia.
E poi, dentro di me, tutto era
confuso, mi vergognavo di essere arrivata in Italia senza scarpe decenti, mi
sentivo a disagio per io essere io, e alla fine scelsi delle scarpe qualsiasi,
senza pensare.
Erano le più buffe che avessi mai avuto, e negli anni successivi le usai per miei spettacoli da Clown.
Erano le più buffe che avessi mai avuto, e negli anni successivi le usai per miei spettacoli da Clown.
Questa gita in moto fu
l’ispirazione per un’ultimo dipinto: io e lui su un cavallo rosso che volavamo
su una città incantata.
Durante la Mostra, tutti volevano
comprare questo dipinto, forse perché aveva una grande energia, ma fu l’unico
quadro che quell’uomo non volle mai vendere.
E fino ad oggi, è con noi.
Il successo della Mostra, ci ha
spinto a realizzare nuovi progetti, e questi ne hanno spinto altri ancora.
Ormai non ci saremmo più fermati, nonostante le diffidenze e le difficoltà
naturali.
Lavoravamo insieme in armonia,
perché avevo la follia sufficiente per credere nell’impossibile e lui aveva il
senso pratico per fare di quell’impossibile, divenire realtà.
Di questo modo, l’associazione
acquisiva visibilità e cresceva.
E crescevamo anche noi.
Piano piano, quell’uomo mi insegnò tante cose: come fare
una cornice per un dipinto, come preparare una parete per un murales, come
usare un citofono, come prendere un treno, come muoversi in quella città
stregata, come affrontare la commessa del mercato, come comprare un’etto di
prosciutto… anzi mi fece conoscere i prosciutti.
Mi mostrò i segreti per salutare
gli anziani genovesi dallo sguardo minaccioso ed infine mi regalò tutte le sue
parole e, presto, cominciai a parlare in italiano in modo comprensibile.
Ovviamente questo non fu difficile perché appena lui
pronunciava una parola, questa mi era già entrata nel cuore e migrata al mio
cervello.
Però c’era una cosa che lui non
poteva insegnarmi.
Come vivere veramente in quel
nuovo Mondo?
E come iniziare un rapporto
d’amore?
Per fare questo, era impellente
un cambiamento.
Ed ero già in trasformazione,
anche se non volevo.
Sicuramente, questi cambiamenti
mi hanno portato grossi dolori, ma anche tante gioie.
Eravamo entrambi disposti alla
trasformazione e, proprio per questo atteggiamento, darearte crebbe velocemente
e, a giudicare dai numerosi progetti eseguiti in tutti gli anni successivi, era
come se lavorassero insieme un grande numero di persone, mentre in realtà tutto
girava intorno a noi due, con la nostra voglia di vivere e di condividere.
Dunque, la mia permanenza in
Italia era scaduta e dovevo partire.
Ci guardammo in silenzio.
Vivevamo un momento pieno di
creatività e di sviluppo dell’associazione e non avevamo ancora avuto il tempo
necessario per volersi separare uno dall’altro.
Restai.
Volevamo portare avanti i nostri
progetti e solo dopo, insieme, ritornare sul fronte in Brasile.
Partimmo per un lungo viaggio,
diretti verso la Sicilia, per un incontro con un rinomato Ente di assistenza
sociale.
Non avevo paura di attraversare
l’Italia senza essere in regola, con il permesso di soggiorno scaduto.
Nemmeno ci pensavo, la parola
“clandestino” non mi donava.
Preferivo altre parole come:
“coraggio di vivere”.
Katia
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