INFORMAZIONI SU QUESTO LIBRO-BLOG

Questa storia narra di dieci anni vissuti da Katia e da Giuliano.
Il racconto è un "binario", costruito a "doppi capitoli", scritti individualmente dai due autori.
Ogni anno raccontato, dal 2003 al 2013, racchiude cinque capitoli, al termine dei quali,
si conclude un paragrafo e sono pubblicate delle immagini inerenti gli stessi capitoli.
Il libro, nel suo complesso, avrà pertanto 10 paragrafi, composti da 5 doppi capitoli ciascuno.
La pubblicazione di ogni nuovo capitolo avviene senza un tempo determinato, essendo attualmente in fase di creazione.

p.s.: non possiamo essere responsabili della traduzione tramite google che, purtroppo, risulta NON essere completamente compatibile con il testo originale in lingua italiana.

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Grazie per seguirci.
Katia & Giuliano

domenica 12 gennaio 2014

Capitolo 9: In viaggio


Capitolo 9: In viaggio                               – parte 1

La prima tappa fu far conoscere Katia a mia madre.

Mia madre, al momento di quell’incontro, era un’anziana signora sui 75 anni, convivente con mia sorella da poco tempo prima, ossia da quando, dopo una vita trascorsa insieme, ci dovemmo separare.
Insieme a lei, vicino o comunque costantemente presente, rimasi fino ai miei 35 anni.
In una casa del ponente genovese, l’assistii fino al giorno che mi accorsi dell’insostenibilità della situazione e della necessità impellente di cambiarla, in assoluta emergenza, dato era a repentaglio la vita stessa.
Di entrambi.
Corsi il rischio di comunicarlo alle sorelle e, solo una su tre, accolse l’appello e la ospitò con sè fino a che fu colpita da un lutto inaspettato.
Così fu trasferita con l’altra sorella, all’età di 85 anni.

Mia madre non aveva mai accettato nessuna delle mie compagne.
Ne aveva conosciute alcune, e tutte erano state sempre clamorosamente bocciate con una smorfia di semi-disgusto, una per un motivo, una per un altro.

Nata in Sicilia, a Catania, mia madre giunse a Genova a 19 anni, direttamente per sposarsi con un uomo che aveva solo conosciuto su una fotografia.
Era un matrimonio costruito dalle famiglie, per appropriarsi di beni di proprietà terriere.
Un matrimonio di interessi delle famiglie, non certo di mia madre, senza scuola, incapace di comunicare in italiano.
Il marito sarebbe stato un contadino piemontese, di bassa statura e di 13 anni più vecchio di lei.
L’”affare” era condotto dal fratello di mia madre, che la scortò personalmente a Genova per concludere nell’immediato questo matrimonio combinato.
Evidentemente mia madre entrò nella vita adulta con il piede sinistro, dato che l’”affare” si rivelò presto un’amara disillusione.
Infatti le proprietà, che sarebbero dovute essere ereditate da mio padre, non gli furono concesse e da contadino povero quale era prima, restò anche dopo, con in più, probabilmente, una pesante frustrazione.
Questa è una delle storie che ho dovuto ascoltare nella mia infanzia e anche dopo, e che qui riporto a brevi linee.

Forse, questo “esame” che sottoponevo alle mie compagne, aveva a che fare inconsciamente con il consenso di chi ritenevo un riferimento, nella mia vita.
Anche se il suo dissenso non mi faceva cambiare idea sulla relazione che vivevo, di certo non posso dire che mi facesse piacere, anzi, era sempre un attrito doloroso.
E che spesso mi influenzava.
Il legame morboso con mia madre era stato costruito metodicamente per molti anni.
Lei non poteva perdermi e questo lavoro di appropriazione del figlio, unico rimasto su quattro, fu molto violento, oggi posso dichiararlo.

All’età dei miei 20 anni, accadde un fatto.
Lavoravo ed ero riuscito a creare un piccolo risparmio.
Ho sempre tenuto a creare la mia indipendenza, ed il primo sogno da raggiungere era quello di abitare da solo.
Dunque arrivò il giorno che decisi di prender coraggio e tentare di raccontarlo a mia madre, l’unica dei due genitori con la quale avessi una relazione.
Entusiasta, le dissi della mia forte volontà di uscire finalmente di casa, di cercare un piccolo alloggio, economico, dove avrei potuto provare a cominciare a creare la mia vita. Ero intimorito da ciò che mi avrebbe potuto dire, ma era per me un percorso obbligato, dovevo passare attraverso il suo consenso, avevo bisogno del suo appoggio, perché comunque, per me era un salto nel buio.
Lei si dovette sedere.
Il colpo fu forte, forse nemmeno se lo aspettava. O forse si, non so.
Tremante, crollò in un pianto disperato, misto a rabbia e paura.
Un pianto di dolore senza uscita.
Era seduta davanti a me e io non sapevo cosa stavo cercando di dire.
Da seduta mi aggredì, dicendo che non potevo fare questo, e che se me ne fossi andato, se fossi uscito di casa, mai avrei potuto tornare.
“Se esci da quella porta, non tornare mai più! Non ti faccio più entrare!”
Non mi aspettavo davvero tanto.
Fui sorpreso e terrorizzato.
La mia giovane voce ribelle sarebbe corsa via, felice di esser finalmente libero. Potevo andarmene! Che importa del poi? Potevo andarmene…
Ma la trappola era profonda e ci cascai dentro.
Non riuscii a muovermi, nè più a dire una sola parola.
E da quel giorno mai più conversai con entrambi i miei genitori.
Una pietra enorme piombò sull’ingresso della mia vita, come una tomba.
E come in un lutto, tristemente taqui, per sempre.
Non potevo certo immaginare che lei non aveva responsabilità alcuna di ciò che io stavo soffrendo.
Lei stava soffrendo.
Lei aveva terrore di perdere l’unico riferimento per se, l’unico appiglio al quale dare il senso alla sua vita.
Lei aveva fatto un viaggio, da Catania fino a Genova, attraversando un mare nel quale stava annegando, nel suo mare di solitudine, di sacrificio, di senza amore.
E non aveva colpa nessuna se io scelsi di restare, presente e assente, zitto e immobile, per il resto dei miei giorni con lei.
La prigione era solo mia e io l’avevo costruita con le mie mani, nessun altro.
Ed ero sempre io il carceriere che mi portava alimento, per far si che rimanessi in vita, ma prigioniero per lungo tempo.
Un lunghissimo tempo.
E lei era innocente.
Era stata prigioniera di sé, anch’essa, della sua vita.
E ora, in quel giorno, era vittima, non certo carnefice.
E se avessi vissuto la sua vita, nel suo tempo, non avrei potuto fare le stesse cose anche io?  Anche io, non sarei caduto in panico nel restare solo, nel mio buio carcere?
Lei non sapeva che il mio non era un abbandono, lei aveva paura.
Una paura più grande di lei stessa.

Da allora sono trascorsi 28 anni e solo oggi, grazie a questo racconto che Voi,
miei compagni di viaggio, state leggendo, posso finalmente dirlo:
“io amo mia madre.”


In viaggio – parte 2


Come in tutte le altre occasioni, la famiglia di mia sorella e mia madre, ci accolsero sorridenti, ospitali e curiosi.

Io, ultimo figlio, ero l’unico di quattro a non aver conosciuto il matrimonio, né la paternità e, oltre ad essere diverso dagli altri nel modo di vivere e di veder le cose, ero colui che era rimasto più a lungo con i genitori, e infine il più giovane dei figli.
Tra le due sorelle e il fratello, avevo confidenza proprio con la sorella che ospitava nostra madre, vuoi per la minor differenza d’età, vuoi perché fu l’ultima a crearsi una sua nuova vita.
Non era molto che mia sorella accudiva nostra madre, ma quel poco era sufficiente per farle capire l’entità della difficoltà di averla vicina.
Di questo soffriva ma, stoica, voleva in qualche modo resistere e persistere nell’affidamento, nonostante il suo corpo, ingrossato e affaticato, non diceva la stessa cosa.
Comunque, eravamo con loro e Katia fu accolta come mai nessuna delle mie altre relazioni precedenti.
Riuscì a capire come muoversi nel terreno delicato di una famiglia italiana e, vuoi per la sua goffaggine naturale, vuoi per l’innocenza e allegria che ispirava, con il minimo dei voti, superò l’esame.
Nessuno certo avrebbe puntato un soldo, sulla continuità della nostra relazione, immagino, pensando tutti di conoscermi, ma questo non era importante ai fini dell’accoglienza.
Infatti mia sorella la riconobbe “simpatica”, anche se nel dirlo non riusciva a mettere esattamente a fuoco il termine. Come se volesse dire altre cose ma erano difficili da spiegare.
A mia madre, in un momento di pausa dopo pranzo, soli io e lei, chiesi a bassa voce se le andasse a genio. Non avevo aspettative, perché di certo l’ultima cosa che si può avere con mia madre è un’aspettativa positiva, ma comunque ci provai.
Lei abbozzò un sorriso e annuì.
Katia aveva vinto.

Lasciammo casa di mia sorella dopo questa svolta, il giorno stesso, e nella serata eravamo in Piazza dei Miracoli, a Pisa.
Lo stupore di Katia nel vedere quel luogo fu uguale a quello di un bimbo a DisneyWorld. Non di un bimbo di oggi, ma del medioevo.
E a Pisa, in un parcheggio appartato, in macchina, dormimmo quella notte.

L’indomani all’alba andammo al mare.
E poi, nel pomeriggio, eravamo a Siena.
E visitammo San Gimignano.
E girammo per le terre della Toscana, incantati dalle sue calde luci naturali.
Ed ecco che ci ritrovammo a cercare il Circo.

Eravamo a Nettuno, dove Katia, quattro anni prima, aveva conosciuto una famosa famiglia circense, dove aveva appreso il mestiere del Clown e conosciuto la vita del Circo.
Mi diressi subito nella piazza dove Katia sapeva avrebbe trovato il tendone.
Solo un parcheggio.
La piazza era stipata di automobili e nessun tendone, nessun circo sembrava fosse mai potuto esistere, in quel luogo.
Non mi arresi.
In non so che modo, trovammo qualcuno che conosceva la Famiglia dei circensi e ci consigliò di cercare ad Aprilia, dove abitavano. Lì li avremmo di certo trovati.
Nulla.
L’unico circo che trovammo non era il loro.
Stava diventando difficile e tormentato, dunque decidemmo di lasciar perdere e cambiare rotta.
Mi diressi a sud.
Arrivammo direttamente a Reggio Calabria, dove ci fermammo in un campeggio.
L’indomani eravamo sul traghetto per la Sicilia.

Ci fermammo in un campeggio sul mare, fantastico, dove i suoi scogli erano creati dalla lava del vulcano più bello del mondo.
L’energia di quel luogo è indimenticabile.
Il viaggio fino in Sicilia era stato preventivato fin da Genova, da quando presi un appuntamento con il Presidente di un Ente cattolico rinomato di una piccola cittadina siciliana, proprio per unire il sogno di Katia, (che purtroppo non riuscimmo a realizzare in quell’occasione) al viaggio di avventura, al viaggio per darearte.
Infatti prevedevo di presentare un progetto della nostra associazione alle Entità e Amministrazioni locali per creare un’eventuale collaborazione.

Purtroppo anche questo secondo sogno non si realizzò.
Confermato l’appuntamento, mi presentai ma il Presidente mi fece accogliere da un’equipe di funzionari che si scusavano per suo conto, dicendomi che non poteva esser presente.
Non sapevo che dire. Ero venuto da Genova per conoscerlo.
Ebbene, ci riunimmo comunque e parlai delle possibilità di sviluppo e di collaborazione che intendevo impiantare in quella cittadina.
Parlai mentre tutti mi guardavo assorti, attenti, impietriti.
Terminato il monologo, una di loro mi disse esplicitamente, anche se con un poco di imbarazzo, che “sembravo arrivato da un altro mondo”.
Mi disse che le mie idee erano straordinarie ma non sapevano come potevano essere compatibili nel loro sistema di cose che, forse, era diverso da come lo immaginavo.
Sono stati onesti e cordialissimi, la loro gentilezza mi fece dimenticare l’assenza del fantomatico Presidente, e pensai quanto questi ragazzi meriterebbero attrezzature, informazioni, coraggio e fiducia per poter cambiare le cose.
Loro potrebbero farlo.
Ma disconoscevo il sistema di quei luoghi e, anche se questa piccola esperienza me lo fece intuire, testardo, decisi di mettere il naso più a fondo.
Presi un appuntamento con il Sindaco.

Era in ritardo di un’ora al nostro appuntamento, e lo stavo aspettando nell’ufficio della Segreteria di quella piccola città.
Arrivarono due energumeni, con delle facce poco raccomandabili, che sembravano arrabbiati con tutti. A voce alta dissero, con accento marcato, che il Sindaco era impegnato altrove e sarebbe arrivato molto tardi.
Era un invito per farmi andar via e io lo accolsi serenamente.
Abbandonai lì l’idea di impiantare un seme della darearte, nella terra nativa di mia madre, in quella splendida terra, che l’energia calda e viva, mi ricordava quella del Brasile, al quale pensai subito dopo, ritrovando Katia che avevo lasciato sola al campeggio.
Probabilmente non era tempo per la semina.
Probabilmente non ero pronto io, in quel momento.
Questo, infatti, non significa che non si possa ritentare, con la giusta attenzione di cogliere il momento propizio.

Amammo ogni luogo del litorale est, da Porto Passero a Messina, sul quale scivolammo nel nostro pacato ritorno a casa e, attraversato lo stretto di Messina
per la seconda volta, lasciammo il vulcano dell’Isola dei Ciclopi e quella
meravigliosa Terra ai confini del mondo, che ho sempre saputo d’esser figlio.

Giuliano

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