Capitolo 9: In viaggio –
parte 1
La prima tappa fu far conoscere Katia a mia madre.
Mia madre, al momento di quell’incontro, era un’anziana
signora sui 75 anni, convivente con mia sorella da poco tempo prima, ossia da
quando, dopo una vita trascorsa insieme, ci dovemmo separare.
Insieme a lei, vicino o comunque costantemente presente,
rimasi fino ai miei 35 anni.
In una casa del ponente genovese, l’assistii fino al giorno che mi accorsi dell’insostenibilità della situazione e della necessità impellente di cambiarla, in assoluta emergenza, dato era a repentaglio la vita stessa.
In una casa del ponente genovese, l’assistii fino al giorno che mi accorsi dell’insostenibilità della situazione e della necessità impellente di cambiarla, in assoluta emergenza, dato era a repentaglio la vita stessa.
Di entrambi.
Corsi il rischio di comunicarlo
alle sorelle e, solo una su tre, accolse l’appello e la ospitò con sè fino a
che fu colpita da un lutto inaspettato.
Così fu trasferita con l’altra
sorella, all’età di 85 anni.
Mia madre non aveva mai accettato
nessuna delle mie compagne.
Ne aveva conosciute alcune, e
tutte erano state sempre clamorosamente bocciate con una smorfia di
semi-disgusto, una per un motivo, una per un altro.
Nata in Sicilia, a Catania, mia
madre giunse a Genova a 19 anni, direttamente per sposarsi con un uomo che
aveva solo conosciuto su una fotografia.
Era un matrimonio costruito dalle
famiglie, per appropriarsi di beni di proprietà terriere.
Un matrimonio di interessi delle
famiglie, non certo di mia madre, senza scuola, incapace di comunicare in
italiano.
Il marito sarebbe stato un
contadino piemontese, di bassa statura e di 13 anni più vecchio di lei.
L’”affare” era condotto dal
fratello di mia madre, che la scortò personalmente a Genova per concludere
nell’immediato questo matrimonio combinato.
Evidentemente mia madre entrò
nella vita adulta con il piede sinistro, dato che l’”affare” si rivelò presto
un’amara disillusione.
Infatti le proprietà, che sarebbero
dovute essere ereditate da mio padre, non gli furono concesse e da contadino
povero quale era prima, restò anche dopo, con in più, probabilmente, una
pesante frustrazione.
Questa è una delle storie che ho
dovuto ascoltare nella mia infanzia e anche dopo, e che qui riporto a brevi
linee.
Forse, questo “esame” che
sottoponevo alle mie compagne, aveva a che fare inconsciamente con il consenso
di chi ritenevo un riferimento, nella mia vita.
Anche se il suo dissenso non mi
faceva cambiare idea sulla relazione che vivevo, di certo non posso dire che mi
facesse piacere, anzi, era sempre un attrito doloroso.
E che spesso mi influenzava.
Il legame morboso con mia madre
era stato costruito metodicamente per molti anni.
Lei non poteva perdermi e questo lavoro di appropriazione del figlio, unico rimasto su quattro, fu molto violento, oggi posso dichiararlo.
Lei non poteva perdermi e questo lavoro di appropriazione del figlio, unico rimasto su quattro, fu molto violento, oggi posso dichiararlo.
All’età dei miei 20 anni, accadde
un fatto.
Lavoravo ed ero riuscito a creare
un piccolo risparmio.
Ho sempre tenuto a creare la mia
indipendenza, ed il primo sogno da raggiungere era quello di abitare da solo.
Dunque arrivò il giorno che
decisi di prender coraggio e tentare di raccontarlo a mia madre, l’unica dei
due genitori con la quale avessi una relazione.
Entusiasta, le dissi della mia
forte volontà di uscire finalmente di casa, di cercare un piccolo alloggio,
economico, dove avrei potuto provare a cominciare a creare la mia vita. Ero
intimorito da ciò che mi avrebbe potuto dire, ma era per me un percorso
obbligato, dovevo passare attraverso il suo consenso, avevo bisogno del suo
appoggio, perché comunque, per me era un salto nel buio.
Lei si dovette sedere.
Il colpo fu forte, forse nemmeno
se lo aspettava. O forse si, non so.
Tremante, crollò in un pianto
disperato, misto a rabbia e paura.
Un pianto di dolore senza uscita.
Era seduta davanti a me e io non
sapevo cosa stavo cercando di dire.
Da seduta mi aggredì, dicendo che
non potevo fare questo, e che se me ne fossi andato, se fossi uscito di casa,
mai avrei potuto tornare.
“Se esci da quella porta, non tornare
mai più! Non ti faccio più entrare!”
Non mi aspettavo davvero tanto.
Fui sorpreso e terrorizzato.
La mia giovane voce ribelle
sarebbe corsa via, felice di esser finalmente libero. Potevo andarmene! Che
importa del poi? Potevo andarmene…
Ma la trappola era profonda e ci
cascai dentro.
Non riuscii a muovermi, nè più a
dire una sola parola.
E da quel giorno mai più
conversai con entrambi i miei genitori.
Una pietra enorme piombò
sull’ingresso della mia vita, come una tomba.
E come in un lutto, tristemente
taqui, per sempre.
Non potevo certo immaginare che
lei non aveva responsabilità alcuna di ciò che io stavo soffrendo.
Lei stava soffrendo.
Lei aveva terrore di perdere
l’unico riferimento per se, l’unico appiglio al quale dare il senso alla sua
vita.
Lei aveva fatto un viaggio, da
Catania fino a Genova, attraversando un mare nel quale stava annegando, nel suo
mare di solitudine, di sacrificio, di senza amore.
E non aveva colpa nessuna se io
scelsi di restare, presente e assente, zitto e immobile, per il resto dei miei
giorni con lei.
La prigione era solo mia e io
l’avevo costruita con le mie mani, nessun altro.
Ed ero sempre io il carceriere
che mi portava alimento, per far si che rimanessi in vita, ma prigioniero per
lungo tempo.
Un lunghissimo tempo.
E lei era innocente.
Era stata prigioniera di sé,
anch’essa, della sua vita.
E ora, in quel giorno, era
vittima, non certo carnefice.
E se avessi vissuto la sua vita,
nel suo tempo, non avrei potuto fare le stesse cose anche io? Anche io, non sarei caduto in panico
nel restare solo, nel mio buio carcere?
Lei non sapeva che il mio non era
un abbandono, lei aveva paura.
Una paura più grande di lei
stessa.
Da allora sono trascorsi 28 anni
e solo oggi, grazie a questo racconto che Voi,
miei compagni di viaggio, state leggendo, posso finalmente dirlo:
miei compagni di viaggio, state leggendo, posso finalmente dirlo:
“io amo mia madre.”
In viaggio – parte 2
Come in tutte le altre occasioni,
la famiglia di mia sorella e mia madre, ci accolsero sorridenti, ospitali e
curiosi.
Io, ultimo figlio, ero l’unico di
quattro a non aver conosciuto il matrimonio, né la paternità e, oltre ad essere
diverso dagli altri nel modo di vivere e di veder le cose, ero colui che era
rimasto più a lungo con i genitori, e infine il più giovane dei figli.
Tra le due sorelle e il fratello,
avevo confidenza proprio con la sorella che ospitava nostra madre, vuoi per la
minor differenza d’età, vuoi perché fu l’ultima a crearsi una sua nuova vita.
Non era molto che mia sorella
accudiva nostra madre, ma quel poco era sufficiente per farle capire l’entità
della difficoltà di averla vicina.
Di questo soffriva ma, stoica,
voleva in qualche modo resistere e persistere nell’affidamento, nonostante il
suo corpo, ingrossato e affaticato, non diceva la stessa cosa.
Comunque, eravamo con loro e
Katia fu accolta come mai nessuna delle mie altre relazioni precedenti.
Riuscì a capire come muoversi nel
terreno delicato di una famiglia italiana e, vuoi per la sua goffaggine
naturale, vuoi per l’innocenza e allegria che ispirava, con il minimo dei voti,
superò l’esame.
Nessuno certo avrebbe puntato un
soldo, sulla continuità della nostra relazione, immagino, pensando tutti di
conoscermi, ma questo non era importante ai fini dell’accoglienza.
Infatti mia sorella la riconobbe
“simpatica”, anche se nel dirlo non riusciva a mettere esattamente a fuoco il
termine. Come se volesse dire altre cose ma erano difficili da spiegare.
A mia madre, in un momento di
pausa dopo pranzo, soli io e lei, chiesi a bassa voce se le andasse a genio.
Non avevo aspettative, perché di certo l’ultima cosa che si può avere con mia
madre è un’aspettativa positiva, ma comunque ci provai.
Lei abbozzò un sorriso e annuì.
Katia aveva vinto.
Lasciammo casa di mia sorella
dopo questa svolta, il giorno stesso, e nella serata eravamo in Piazza dei
Miracoli, a Pisa.
Lo stupore di Katia nel vedere
quel luogo fu uguale a quello di un bimbo a DisneyWorld. Non di un bimbo di
oggi, ma del medioevo.
E a Pisa, in un parcheggio
appartato, in macchina, dormimmo quella notte.
L’indomani all’alba andammo al
mare.
E poi, nel pomeriggio, eravamo a
Siena.
E visitammo San Gimignano.
E girammo per le terre della
Toscana, incantati dalle sue calde luci naturali.
Ed ecco che ci ritrovammo a
cercare il Circo.
Eravamo a Nettuno, dove Katia,
quattro anni prima, aveva conosciuto una famosa famiglia circense, dove aveva
appreso il mestiere del Clown e conosciuto la vita del Circo.
Mi diressi subito nella piazza
dove Katia sapeva avrebbe trovato il tendone.
Solo un parcheggio.
La piazza era stipata di
automobili e nessun tendone, nessun circo sembrava fosse mai potuto esistere,
in quel luogo.
Non mi arresi.
In non so che modo, trovammo
qualcuno che conosceva la Famiglia dei circensi e ci consigliò di cercare ad
Aprilia, dove abitavano. Lì li avremmo di certo trovati.
Nulla.
L’unico circo che trovammo non
era il loro.
Stava diventando difficile e
tormentato, dunque decidemmo di lasciar perdere e cambiare rotta.
Mi diressi a sud.
Arrivammo direttamente a Reggio
Calabria, dove ci fermammo in un campeggio.
L’indomani eravamo sul traghetto
per la Sicilia.
Ci fermammo in un campeggio sul
mare, fantastico, dove i suoi scogli erano creati dalla lava del vulcano più
bello del mondo.
L’energia di quel luogo è
indimenticabile.
Il viaggio fino in Sicilia era
stato preventivato fin da Genova, da quando presi un appuntamento con il
Presidente di un Ente cattolico rinomato di una piccola cittadina siciliana,
proprio per unire il sogno di Katia, (che purtroppo non riuscimmo a realizzare
in quell’occasione) al viaggio di avventura, al viaggio per darearte.
Infatti prevedevo di presentare
un progetto della nostra associazione alle Entità e Amministrazioni locali per
creare un’eventuale collaborazione.
Purtroppo anche questo secondo
sogno non si realizzò.
Confermato l’appuntamento, mi
presentai ma il Presidente mi fece accogliere da un’equipe di funzionari che si
scusavano per suo conto, dicendomi che non poteva esser presente.
Non sapevo che dire. Ero venuto
da Genova per conoscerlo.
Ebbene, ci riunimmo comunque e
parlai delle possibilità di sviluppo e di collaborazione che intendevo
impiantare in quella cittadina.
Parlai mentre tutti mi guardavo
assorti, attenti, impietriti.
Terminato il monologo, una di
loro mi disse esplicitamente, anche se con un poco di imbarazzo, che “sembravo
arrivato da un altro mondo”.
Mi disse che le mie idee erano
straordinarie ma non sapevano come potevano essere compatibili nel loro sistema
di cose che, forse, era diverso da come lo immaginavo.
Sono stati onesti e cordialissimi, la loro gentilezza mi fece dimenticare l’assenza del fantomatico Presidente, e pensai quanto questi ragazzi meriterebbero attrezzature, informazioni, coraggio e fiducia per poter cambiare le cose.
Sono stati onesti e cordialissimi, la loro gentilezza mi fece dimenticare l’assenza del fantomatico Presidente, e pensai quanto questi ragazzi meriterebbero attrezzature, informazioni, coraggio e fiducia per poter cambiare le cose.
Loro potrebbero farlo.
Ma disconoscevo il sistema di
quei luoghi e, anche se questa piccola esperienza me lo fece intuire, testardo,
decisi di mettere il naso più a fondo.
Presi un appuntamento con il
Sindaco.
Era in ritardo di un’ora al
nostro appuntamento, e lo stavo aspettando nell’ufficio della Segreteria di
quella piccola città.
Arrivarono due energumeni, con
delle facce poco raccomandabili, che sembravano arrabbiati con tutti. A voce
alta dissero, con accento marcato, che il Sindaco era impegnato altrove e
sarebbe arrivato molto tardi.
Era un invito per farmi andar via
e io lo accolsi serenamente.
Abbandonai lì l’idea di
impiantare un seme della darearte, nella terra nativa di mia madre, in quella
splendida terra, che l’energia calda e viva, mi ricordava quella del Brasile,
al quale pensai subito dopo, ritrovando Katia che avevo lasciato sola al campeggio.
Probabilmente non era tempo per
la semina.
Probabilmente non ero pronto io,
in quel momento.
Questo, infatti, non significa
che non si possa ritentare, con la giusta attenzione di cogliere il momento
propizio.
Amammo ogni luogo del litorale
est, da Porto Passero a Messina, sul quale scivolammo nel nostro pacato ritorno
a casa e, attraversato lo stretto di Messina
per la seconda volta, lasciammo il vulcano dell’Isola dei Ciclopi e quella
meravigliosa Terra ai confini del mondo, che ho sempre saputo d’esser figlio.
per la seconda volta, lasciammo il vulcano dell’Isola dei Ciclopi e quella
meravigliosa Terra ai confini del mondo, che ho sempre saputo d’esser figlio.
Giuliano
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