Capitolo 11: ritorno in Brasile
All’aeroporto Katia sudava
freddo.
Era rimasta in Italia molto più
tempo del previsto e per questo temeva di subire un’umiliante punizione o
comunque qualcosa di grave da parte di un severo controllo doganale.
Allo sportello, alla consegna dei
documenti d’imbarco, ci fu un momento di suspence.
L’uomo in divisa grigia mi
squadrò a volto serio, un paio di volte, e poi squadrò lei riuscendo ad essere
ancor più serio.
Si trattava di uscire dal Paese,
non di restare, forse per questo motivo gli bastò digrignare i denti e ci fece
passare.
Katia riprese colore e ritornò sorridente dopo aver
affrontato e superato, un ostacolo per lei tanto spaventoso come quello del
mondo delle divise, delle regole burocratiche e di quelle forme di potere
istituzionale tanto lontane alla sua comprensione, che decidono quale strada
dovresti prendere.
Un’ingenuo cappuccetto rosso in un bosco buio e infestato
da centinaia di lupi affamati, tutti mascherati da nonnine.
Forse si sentiva così.
Finalmente giunse il momento del nostro volo e viaggiammo
in aereo, per la prima volta insieme, verso la terra dei tucani, del carnevale,
delle favelas, dei grattacieli, degli indios, dei paradossi, di Yemanjà Dea del
Mare.
Il nostro aereo giunse a destinazione due giorni prima del
mio 40esimo anniversario.
Mai avrei pensato di aver raggiunto tale età.
Mai avrei pensato di aver raggiunto tale età.
Quaranta anni.
Non descrivo il mio compleanno perché non me lo ricordo,
come gli altri 39 trascorsi. Forse non ho mai avuto una buona relazione con il
giorno della mia nascita.
Ma comunque fosse, ero in Brasile, ad Atibaia, per la mia
seconda chiamata sul fronte, per la seconda puntata, per il secondo giro di
giostra.
Anticipatamente dall’Italia, avevamo affittato una piccola
casetta indipendente che, ci dissero, era solo un pò da ripulire e sarebbe
stata pronta.
Pertanto ci fidammo e, al nostro arrivo, quando ci
trovammo dinanzi alla casetta, restammo a bocca aperta.
Era completamente distrutta.
Era stata abbandonata da tempo dagli ultimi inquilini e
qualcuno l’aveva svuotata di ogni cosa, dai lavandini alla doccia.
Non c’era più nulla.
E quello che c’era, era ricoperto da muffa e sporco, tanto
da spaventare un orco.
Dal tetto pioveva acqua e al suo interno pareti in condizioni oscene, squarci nel muro, nessun vetro, nessun mobile, il pavimento in legno rovinato, impianto luci inesistente e una gran puzza.
Dal tetto pioveva acqua e al suo interno pareti in condizioni oscene, squarci nel muro, nessun vetro, nessun mobile, il pavimento in legno rovinato, impianto luci inesistente e una gran puzza.
Non potevamo fare altro che rimboccarci le maniche e darci
da fare.
Quella prima notte dormimmo su un materasso abbandonato,
che non ho coraggio nemmeno di ricordare, e solo la stanchezza del viaggio ci
consentì di chiudere occhio.
L’indomani sarebbe stato il primo di un interminabile e
continuo periodo di lavoro, senza mai soste, per sistemare quella casa.
Abbiamo ripulito e dipinto, riparato e sostituito, ritrutturato
e arredato, colorato e completamente trasformata, quella povera casupola di una
cucina e due piccole stanze e mezzo.
Io e Katia.
Ma riuscimmo anche a dare lavoro
retribuito ad una coppia di tristi muratori e a Maria che, senza fissa dimora,
viveva in quei giorni in un garage insieme ai suoi due figli, grazie alla
cortesia di una parente di Katia.
Maria si massacrò le ginocchia
insieme a noi, per levigare e ripulire il pavimento delle tre stanze, dove il
legno era stato devastato.
Un giorno intero in ginocchio,
senza fermarsi.
E nemmeno alla sera non riuscii a riposare un attimo, a
causa di un mostruoso temporale brasiliano che mi costrinse ad installare
rapidamente i vetri alla finestra, per salvarci da un allagamento.
Ma l’acqua entrò comunque dal tetto rotto.
E dal bagno, ormai trasformato in
una fetida piscina, dato che dallo scarico entrava acqua degli scarichi della
fogna che, disperatamente e bagnato fradicio, spalavo fuori dalla porta del
retro, mentre Katia cercava di salvare le nostre poche cose ancora chiuse in
valigia dalla pioggia che arrivava, violenta e senza sosta, sia dall’alto che
dal basso.
Non riuscimmo a comprarci nulla
da mangiare e, avendo solo un poco di riso, riuscimmo a cucinarlo senza
condimento alcuno, ma per noi, in quelle condizioni, ci apparve la cosa più
buona che potessimo mangiare.
In quei giorni fummo colpiti
entrambi da “dissenterie di ambientamento” e da altre piccole e simpatiche
piccole disgrazie che credo siano giunte solo per darci un saluto, un po’ come
ricordarci che adesso eravamo in un altro posto, in altre condizioni.
Una sveglia, un “benvenuti in
Brasile”.
La mia pratica nei lavori manuali e la follia creativa
della mia compagna, si univano nuovamente per prendere in mano la situazione,
per dare una direzione al nostro cammino.
La trasformazione della baracca fatiscente in una
carinissima casetta accogliente, non fu solo un’operazione di lavori concreti,
ma ciò che la rese bella fu ciò che noi, ogni giorno, mettevamo insieme alla
tinta e al sudore: il nostro Amore.
Avevamo finalmente dove stare e uno spazio d’incontro per
l’associazione.
Da lì partirono tutti i progetti che, successivamente, realizzammo ad Atibaia.
Da lì partirono tutti i progetti che, successivamente, realizzammo ad Atibaia.
Darearte aveva la
sua sede distaccata in Brasile.
Durante la ristrutturazione ed i progetti, io continuavo
ad avere incontri e nuove conoscenze per creare, localmente, una rete tra le
Entità del terzo settore e l’Amministrazione Pubblica, tutti molto curiosi
delle nostre intenzioni sul loro territorio.
Una delle cose che non sono mai riuscito a far capire, era
che il nostro fosse Volontariato.
Per intenderci, quell’operato che non ha retribuzione o un
secondo fine o un interesse diverso oltre quello della donazione del proprio
fare.
Questo sfuggiva a chiunque.
In vero, mi si guardava come se ci fosse sempre qualcosa
sotto, qualche intenzione occulta.
Ci si chiedeva se volessi arrivare da qualche parte,
ottenere dei vantaggi non espliciti.
Ebbene, si, ora sarò esplicito.
Ho sempre avuto qualcosa sotto.
Era la volontà di crescere, di vedermi sperimentare, di
condividere.
E questo mai lo dicevo.
Ebbene si, ho sempre avuto intenzioni nascoste.
Erano quelle che mi spingevano a donare il mio tempo, la
mia vita, consapevolmente, per provare a me stesso che non siamo divisi, ma
siamo tutti uniti.
E questo mai lo dicevo.
Si, ho sempre voluto arrivare da qualche parte.
Era il luogo nuovo, dove non ero ancora stato, vedermi in
viaggio, sempre.
E questo mai lo dicevo.
E ho sempre ottenuto dei vantaggi personali.
Si, ho vissuto.
E questo ve lo dico adesso.
Giuliano
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