Capitolo 12 - progetti
Eravamo due cavalieri, non dalle
strane figure, ma dalla strana associazione no-profit.
Per noi non c’erano mulini a
vento da combattere.
Il nostro volontariato era
un’atto d’amore, non di guerra.
Non dovevamo distruggere nulla,
soltanto la nostra voglia di arrendersi.
Impegnarsi a realizzare atti
d’amore verso sé stessi e per gli altri, era qualcosa in disuso, quasi
inspiegabile alla maggioranza delle persone.
Sia per la diffidenza, sia per
incomprensione o anche per ammirazione, a volte ci scambiavano davvero per Don
Chisciotte e Sancho Panza.
Giuliano aveva poco tempo per
restare in Brasile e questo lo impegnava al massimo alla realizzazione di tutti
i progetti.
Doveva anche insegnarmi e
prepararmi a gestire da sola la nostra sede distaccata, nella sua futura
assenza.
Cosi, lavorando tutti i giorni,
da domenica a domenica, cominciammo contemporaneamente tante attività.
Quell’uomo era come tutti noi,
fatto di stelle, con la differenza di saperlo essere.
Per la scelta di dove, come, con chi e per chi svolgere le nostre azioni di volontariato, lui seguiva soltanto il suo istinto, che alla fine ci portava sempre al posto giusto, alla giusta ora.
Per la scelta di dove, come, con chi e per chi svolgere le nostre azioni di volontariato, lui seguiva soltanto il suo istinto, che alla fine ci portava sempre al posto giusto, alla giusta ora.
Sapeva davvero incontrare le
persone e non si faceva abbagliare solo dalle parole di incanto, anzi, a volte
non capiva nemmeno il portoghese, ma era capace di percepire profondamente ogni
anima che gli si presentava davanti e così agiva, verso il sogno di ogni
singola persona.
Spesso eravamo presenti in
quartiere di estrema povertà di Atibaia e questo chiamò l’attenzione
dell’Amministrazione Pubblica della Città.
Un giorno, fissammo un incontro
con i responsabili delle politiche sociali del Municipio, presente in una
Segreteria in quel quartiere.
Il capo, un giovane
intellettuale, parlava in termini difficili da comprendere e divagava su
infinite teorie politico-sociali.
Giuliano pareva non ascoltare
nulla e il suo sguardo si fermò sull’uomo che stava spazzando per terra.
Era Jorge, uno scrittore
dilettante.
In pochi minuti Giuliano aveva percepito
il sogno di Jorge e si impegnò a realizzarlo.
Un nuovo progetto era nato.
Era così il nostro operato, senza
una rotta determinata e fissa.
Succedeva spesso di aggiungere al
programma prestabilito, di realizzare dei progetti che non erano stati previsti
ma semplicemente incontrati lungo la strada.
Ogni attività, ogni nostro
movimento, lasciava la sua meravigliosa impronta che ci portava ad altri
incontri, sempre inaspettati e puntuali.
Dopo l’incontro con Jorge,
conoscemmo un gruppo di Madri poverissime che volevano creare una cooperativa
di cucitrici.
Dietro di loro si aprì l’universo
della “favela”.
Giuliano voleva raccogliere le
storie di persone che abitavano in quel luogo estremo, creare un progetti
capace di fare sentire la loro voce.
Ma era seriamente pericoloso.
Qualsiasi individuo non
riconosciuto era immediatamente segnalato da occhi invisibili, poco accoglienti
e per niente innocui.
La favela, come tutti gli altri
Mondi, aveva le sue regole precise, e l’unico che poteva rovesciarle
impunemente, era il clown.
Con quest’idea, siamo partiti una
mattina di sole.
Giuliano portava con sé una
piccola telecamera ed era accompagnato da un’assistente.
Io-pagliaccio, con il naso
dipinto di rosso, con le buffe scarpe che avevo comprato a Genova e un secchio,
camminavo davanti a loro.
Eravamo entrati in quel Mondo.
Il pericolo non si presentò,
perché nessuno si sentiva minacciato da un pagliaccio, anzi, davanti a lui
tutto era possibile e venivano abbattute tutte le frontiere sociali.
La tenda di un circo invisibile
si era aperta e chiunque era invitato.
Al clown, tutte le persone hanno
raccontato un poco delle loro storie, che mai avrebbero rivelato a me come
Katia o a qualsiasi altro, con la stessa leggerezza.
Quel corteo del clown, in mezzo alle baracche, alla spazzatura e ai cani randagi, diventò poi un piccolo cortometraggio, forse il primo di Giuliano.
Quel corteo del clown, in mezzo alle baracche, alla spazzatura e ai cani randagi, diventò poi un piccolo cortometraggio, forse il primo di Giuliano.
L’intensità di quello che ho
visto, condiviso e imparato in quella mattina, lo preservo fino ad’oggi.
Era l’infinita capacità di
comunicazione e trasformazione dell’arte.
Spesso mi avvalevo di tutto ciò
che l’arte poteva offrirmi, per realizzare le attività dell’associazione.
Sceglievo istintivamente quale
poteva essere l’elemento giusto per ogni caso, la medicina esatta per ogni
dolore.
Una volta, in una comunità
cattolica di giovani fedeli estremamente timidi, utilizzai dei Burattini
giganti.
Per le ragazze dell’orfanotrofio,
che erano costrette dai loro tutori a tagliare corti i loro capelli, usai
carta, pennelli e immensi rotoli di lana per la costruzione del loro vero
autoritratto, con lunghissimi capelli da sogno.
E poi anche la danza, il teatro,
la musica, quel che fosse stato necessario ad ogni momento particolare.
L’arte, per me, è una forma di
guarigione.
Ci impegnavamo a creare progetti
a vantaggio di comunità più isolate o povere, grande parte dei nostri
interventi erano destinati anche a orfanotrofi ed i bambini, ormai già ci
conoscevano.
Però, un atto d’amore, non
riconosce età, classe sociale, sesso né religione e a questo punto il nostro
volontariato si aprì, rivolto a tutta la Città.
Katia
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