INFORMAZIONI SU QUESTO LIBRO-BLOG

Questa storia narra di dieci anni vissuti da Katia e da Giuliano.
Il racconto è un "binario", costruito a "doppi capitoli", scritti individualmente dai due autori.
Ogni anno raccontato, dal 2003 al 2013, racchiude cinque capitoli, al termine dei quali,
si conclude un paragrafo e sono pubblicate delle immagini inerenti gli stessi capitoli.
Il libro, nel suo complesso, avrà pertanto 10 paragrafi, composti da 5 doppi capitoli ciascuno.
La pubblicazione di ogni nuovo capitolo avviene senza un tempo determinato, essendo attualmente in fase di creazione.

p.s.: non possiamo essere responsabili della traduzione tramite google che, purtroppo, risulta NON essere completamente compatibile con il testo originale in lingua italiana.

contatto:emaildiecianni@gmail.com
Grazie per seguirci.
Katia & Giuliano

domenica 16 febbraio 2014

Capitolo 12 - progetti



Capitolo 12 - progetti



Il 2005 fu l’anno di dimostrare ciò che eravamo andati a fare in Brasile.
La sede distaccata, appena costruita, era il centro, il nostro luogo dove esistere, e da lì partimmo.
I progetti che volevamo realizzare si allinearono ai lavori di ristrutturazione della piccola sede, ossia, mentre da una parte si costruiva con le mani ed il cuore, dall’altra si costruiva con il cuore e le mani.
La prima cosa che facemmo fu quella di ritornare tra la comunità dei giovani cattolici, in un quartiere molto carente di Atibaia, per dare loro altre possibilità di sviluppo attraverso iniziative creative.
In cinque incontri li impostammo per la realizzazione di uno spettacolo di marionette.
Il tema scelto da loro era, naturalmente, religioso e noi eravamo i coordinatori dello show e i creatori delle marionette dalle grandi dimensioni.
Il giorno della rappresentazione dello spettacolo, l’unica e capiente Chiesa del quartiere, ancora in via di costruzione, era stracolma.  
Il gruppo dei nostri amici era in completa fibrillazione e noi, in prima fila tra il pubblico, davamo le indicazioni.  
I ragazzi, ogniuno con un incarico diverso, erano gli attori che controllavano le grandi marionette di tessuto e cartapesta e, altri di loro, formavano la scenografia.
Ecco la musica del piano, poi un canto, e si diede il via alla magia.
Con movimenti lenti e tremanti, la marionetta che rappresentava una donna, si elevò dal sipario che delimitava la scena, sostenuto anch’esso da un paio di ragazzi, e aprì le braccia.
La delicatezza e la cura dei movimenti, la rese viva.
Era la Madonna che si prendeva cura del suo piccolo, appena nato.
Tutto durò pochi minuti, ma la bellezza fu tale che il pubblico ricambiò con un fragoroso e commosso applauso.
Anche i ragazzi erano commossi e tutti insieme, con un inchino, ringraziarono il loro numerosissimo pubblico.
Io e Katia, emozionati, toccavamo il cielo con un dito.
Era la prima volta che quel gruppo realizzava, insieme, qualcosa di creativo e nuovo, nato dalla loro diretta partecipazione.
Il loro credo era molto intenso e questo atto di Amore, realizzato attraverso una rappresentazione del Sacro, della Nascita, li aveva resi maggiormente sensibili alla loro fede.
Sempre a questo gruppo di giovani rivolgemmo un altro progetto, sempre nello stesso anno, che si trattava di un breve corso di teatro per una loro manifestazione.

Un altro gruppo di persone, alle quali rivolgemmo la nostra attenzione, fu quello di donne residenti in un quartiere in una situazione socialmente molto difficile, che intendeva costituire una cooperativa, ma non sapeva nemmeno come iniziare.
Il giorno che le conobbi, stavano tentando di riunirsi per la realizzazione di un progetto sostenuto dal Comune di Atibaia, relativo al reciclaggio di bottiglie di plastica.
Ma questo non sarebbe stato per nulla sufficiente per sostenere economicamente una decina di donne con famiglie numerose a carico.

Ci riunimmo e decidemmo di collaborare con loro.
Insegnammo loro ad avere nuove idee nel lavoro, come quello di creare una produzione di pupazzi con ritagli di stoffa.
Katia disegnò e creò i prototipi e insieme producemmo alcune decine di pezzi.
Oltre questo invitammo un caro amico artista per insegnare loro l’arte del silk-screen, ossia della stampa su maglietta, fatta artigianalmente, a costi bassissimi.
Il gruppo creò una piccola produzione, una parte l’acquistò darearte e una parte la vendettero in due fiere locali, alle quali anche noi partecipammo.
Conseguentemente, complicazioni interne al gruppo delle donne, non permisero loro di svilupparsi e di crescere nelle attività artigianali e, più avanti, venni a sapere della loro separazione, ma quell’esperienza restò fondamentale per loro e per tutti noi.

Fu durante una riunione con queste donne, che conobbi Jorge.
Un ultratrentenne alcoolista, separato e con figli, che da alcuni anni era in condizioni davvero molto critiche.
Quando ascoltò la mia curiosa tonalità di portoghese, mi si avvicinò tremante.
In quel momento stavo conversando con un coordinatore di un progetto sociale, un giovane di classe benestante, che si sapeva muovere in quegli ambienti come un contadino si aggira nel pollaio.
La mia attenzione rotolò su Jorge, perdendo il senso delle parole che il coordinatore mi stava vendendo.
 “…vi occupate anche di letteratura?”
mi disse timidamente, dopo aver intuito che la conversazione trattava di arte e creatività.
 “Mai fatto prima, ma tutto può essere... Tu scrivi?”
Risposi.
I suoi denti esposti e storti mi sorrisero e tremante, mi consegnò un floppy disc che teneva in tasca da chissà quanto tempo.
Ancora ora mi chiedo come sia possibile uscire di casa portandosi dietro un floppy disc senza sapere a chi lo avresti consegnato e perché.
Mi disse di dargli un’occhiata e che lo avrei ritrovato sempre lì, nel caso mi fosse interessato il suo contenuto.
Ovviamente fui sorpreso dal gesto e gli chiesi se io fossi il primo a leggere il suo lavoro.
Rispose che no, che proprio quel coordinatore, che si era silenziosamente distaccato da noi, lo aveva avuto con se per lungo tempo, senza averlo mai letto.

La sera stessa, grazie a un computer portatile, lessi le prime venti pagine del libro di Jorge.
Il titolo era “Atados”, che significa connessi, collegati, uniti.
Come potevo snobbare un racconto con quel titolo?
La storia era un racconto di vite che si intrecciano, si snodano, si separano per reincontrarsi ancora. Oltre ad essere avvincente, quell’acerbo romanzo, aveva il senso che io volevo raccontare. Era connesso con me.

L’indomani mi presentai alla Segreteria della Cultura di Atibaia per chiedere una collaborazione nella realizzazione della pubblicazione di un libro.
Sarebbe stato motivo di un conseguente Evento, rappresentativo dell’appoggio delle Istituzioni ad autori in stato di disagio sociale.
Io e Katia, in dieci giorni, revisionammo interamente il libro, ne correggemmo gli errori e creammo la copertina e una prefazione di presentazione.
Il libro fu stampato.
Un evento, condotto da Katia con Jorge come protagonista, fu realizzato.
Realizzarono articoli sulla stampa, interviste, epropaganda per quell’avvenimento.
Il libro fu collocato nella Biblioteca cittadina a disposizione di tutti.
Jorge smise di bere.
Lavorò divulgando il suo libro, e continuò a scrivere.
Si aggiustò i denti davanti e riprese a sorridere, finalmente fiducioso.

Ma i giorni passavano e la memoria di quel commovente e straordianario momento, passò anch’essa.
Così Jorge ritornò a bere.
Era il suo modo di reagire alla vita.
Fino a che restai ad Atibaia, negli anni a seguire, ci sentimmo, ma negli ultimi tempi lo avevo perso ormai di vista.
Molto tempo dopo, seppi che, a causa dell’alcoolismo, fu colpito da un’improvvisa cecità agli occhi.
Lasciai un messaggio di affetto a sua madre e il mio recapito, ma mai più seppi nulla di lui.
Lui resta con me anche qui, tra queste righe, vivo e sobrio, felice di essere stato, almeno per un giorno, un famoso scrittore.
Il sogno di Jorge era stato realizzato.
E così il mio.
Della sua vita non potevo esserne responsabile e con il dolore di un addio, si concluse la nostra relazione.

Naturalmente i progetti che realizzavamo si incrociavano.
Avevamo molte cose da fare e non iniziavamo un progetto senza vederlo concluso, ma ci permettevamo di affiancarlo ad altri, come ad esempio la realizzazione dell’esposizione di Katia, Cartas.
Questa mostra avrebbe raccontato del viaggio di Katia in Italia, ma era la prima mostra ad Atibaia che avrebbe presentato l’associazione darearte, e ci serviva farci conoscere al pubblico brasiliano, per raccogliere consensi e adesioni di volontari, di risorse umane, dato che ben poco contavamo sulle risorse economiche locali.
Volevamo impiantare la nostra ideologia, assolutamente nuova in quel tempo, in quella terra.
Questa mostra era anche la più importante che Katia aveva realizzato come artista visiva, presso la pinacoteca cittadina.
Io mi occupai dell’istallazione.
Fu una fatica immensa, ma fummo felici del risultato.
Le sue opere erano poesia e come uccelli e foglie, avevamo creato un’istallazione dove nulla fosse attaccato alle pareti, ma tutto fluttuasse.
Cominciammo così a farci notare di più, attraverso l’arte, per parlare di solidarietà.

A questa bellissima mostra, portammo anche le ragazze di un orfanotrofio, erano il nostro pubblico, coloro alle quali rivolgevamo le nostre più sentite attenzioni.

Dopo la mostra di Katia, toccò alla mia.
Era il momento di “sotto il cielo, Nuvole di Genova” ad Atibaia.
La sua prima rappresentazione.
Ma di questo, ne parlerò al capitolo successivo.

Dirò adesso di un video che feci insieme a Katia, in una favela di Atibaia.
Lei conosceva che cosa volesse dire “favela”, e sapeva bene quali erano i limiti di chi volesse entrarci.
Noi volevamo entrarci.
Ma senza far rumore, non per curiosità, ma per capire e per essere con loro.
Ma entrare nella favela più pericolosa della regione, con una telecamera, poteva essere una sciocchezza anche se fossero le 7:00 del mattino.
Ma Katia aveva un asso nella manica, anzi dentro un secchio.
Il suo clown poteva farci entrare.
Così entrò in scena Pierina, il suo pagliaccio, con naso e vestito rossi, le scarpe grandi, il trucco e la parrucca arancione.
E, Lui, fu la chiave che ci permise l’accesso e di attraversare la strada principale della favela, con una piccola telecamera in mano, che filmava quello che il clown faceva fare alla gente.
Due erano le semplici domande che il clown faceva a chi incontrava: che cosa piacesse e che cosa intendesse buttar via.
Il clown portava con se un secchio e proponeva alla gente di metterci dentro, simbolicamente, le cose che voleva cambiare e dargli un calcio.
Un gioco che mi rivelò verità sorprendenti e realtà mai viste, fino a quel momento.
Questo divenne il mio primo piccolo film in Brasile.

Altri progetti darearte riguardavano una serie di spettacoli teatrali, creati da Katia e realizzati insieme ad una compagnia di giovani attori volontari di darearte in Atibaia, corsi di pittura su tessuto, disegno, di lingua italiana, tutti rivolti ai bambini di orfanotrofi, comunità e scuole pubbliche.
Ed eccoci a più di 50 progetti realizzati, dal giorno della fondazione di darearte.

Tutti, ormai ci conoscevano.
Eravamo sui giornali.
E in prima pagina sul quotidiano più letto.
Ci riconoscevano per la strada e, con le Istituzioni, avevamo un nome e credibilità.
Eravamo un treno colorato in corsa.

Giuliano


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