Capitolo 12 - progetti
Il 2005 fu l’anno di dimostrare ciò che eravamo andati a fare in Brasile.
La sede distaccata, appena costruita, era il centro, il
nostro luogo dove esistere, e da lì partimmo.
I progetti che volevamo realizzare si allinearono ai lavori
di ristrutturazione della piccola sede, ossia, mentre da una parte si costruiva
con le mani ed il cuore, dall’altra si costruiva con il cuore e le mani.
La prima cosa che facemmo fu quella di ritornare tra la
comunità dei giovani cattolici, in un quartiere molto carente di Atibaia, per
dare loro altre possibilità di sviluppo attraverso iniziative creative.
In cinque incontri li impostammo per la realizzazione di
uno spettacolo di marionette.
Il tema scelto da loro era, naturalmente, religioso e noi eravamo i coordinatori dello show e i creatori delle marionette dalle grandi dimensioni.
Il tema scelto da loro era, naturalmente, religioso e noi eravamo i coordinatori dello show e i creatori delle marionette dalle grandi dimensioni.
Il giorno della rappresentazione dello spettacolo, l’unica
e capiente Chiesa del quartiere, ancora in via di costruzione, era
stracolma.
Il gruppo dei nostri amici era in completa fibrillazione e
noi, in prima fila tra il pubblico, davamo le indicazioni.
I ragazzi, ogniuno con un incarico diverso, erano gli
attori che controllavano le grandi marionette di tessuto e cartapesta e, altri
di loro, formavano la scenografia.
Ecco la musica del piano, poi un canto, e si diede il via
alla magia.
Con movimenti lenti e tremanti, la marionetta che
rappresentava una donna, si elevò dal sipario che delimitava la scena,
sostenuto anch’esso da un paio di ragazzi, e aprì le braccia.
La delicatezza e la cura dei movimenti, la rese viva.
La delicatezza e la cura dei movimenti, la rese viva.
Era la Madonna che si prendeva cura del suo piccolo,
appena nato.
Tutto durò pochi minuti, ma la bellezza fu tale che il
pubblico ricambiò con un fragoroso e commosso applauso.
Anche i ragazzi erano commossi e tutti insieme, con un
inchino, ringraziarono il loro numerosissimo pubblico.
Io e Katia, emozionati, toccavamo il cielo con un dito.
Era la prima volta che quel gruppo realizzava, insieme,
qualcosa di creativo e nuovo, nato dalla loro diretta partecipazione.
Il loro credo era molto intenso e questo atto di Amore,
realizzato attraverso una rappresentazione del Sacro, della Nascita, li aveva
resi maggiormente sensibili alla loro fede.
Sempre a questo gruppo di giovani rivolgemmo un altro
progetto, sempre nello stesso anno, che si trattava di un breve corso di teatro
per una loro manifestazione.
Un altro gruppo di persone, alle quali rivolgemmo la
nostra attenzione, fu quello di donne residenti in un quartiere in una
situazione socialmente molto difficile, che intendeva costituire una
cooperativa, ma non sapeva nemmeno come iniziare.
Il giorno che le conobbi, stavano
tentando di riunirsi per la realizzazione di un progetto sostenuto dal Comune
di Atibaia, relativo al reciclaggio di bottiglie di plastica.
Ma questo non sarebbe stato per
nulla sufficiente per sostenere economicamente una decina di donne con famiglie
numerose a carico.
Ci riunimmo e decidemmo di
collaborare con loro.
Insegnammo loro ad avere nuove
idee nel lavoro, come quello di creare una produzione di pupazzi con ritagli di
stoffa.
Katia disegnò e creò i prototipi
e insieme producemmo alcune decine di pezzi.
Oltre questo invitammo un caro amico artista per insegnare
loro l’arte del silk-screen, ossia della stampa su maglietta, fatta artigianalmente,
a costi bassissimi.
Il gruppo creò una piccola
produzione, una parte l’acquistò darearte e una parte la vendettero in due
fiere locali, alle quali anche noi partecipammo.
Conseguentemente, complicazioni
interne al gruppo delle donne, non permisero loro di svilupparsi e di crescere
nelle attività artigianali e, più avanti, venni a sapere della loro
separazione, ma quell’esperienza restò fondamentale per loro e per tutti noi.
Fu durante una riunione con
queste donne, che conobbi Jorge.
Un ultratrentenne alcoolista,
separato e con figli, che da alcuni anni era in condizioni davvero molto
critiche.
Quando ascoltò la mia curiosa
tonalità di portoghese, mi si avvicinò tremante.
In quel momento stavo conversando
con un coordinatore di un progetto sociale, un giovane di classe benestante,
che si sapeva muovere in quegli ambienti come un contadino si aggira nel
pollaio.
La mia attenzione rotolò su
Jorge, perdendo il senso delle parole che il coordinatore mi stava vendendo.
“…vi occupate anche di letteratura?”
mi disse timidamente, dopo aver
intuito che la conversazione trattava di arte e creatività.
“Mai fatto
prima, ma tutto può essere... Tu scrivi?”
Risposi.
I suoi denti esposti e storti mi sorrisero e tremante, mi
consegnò un floppy disc che teneva in tasca da chissà quanto tempo.
Ancora ora mi chiedo come sia
possibile uscire di casa portandosi dietro un floppy disc senza sapere a chi lo
avresti consegnato e perché.
Mi disse di dargli un’occhiata e
che lo avrei ritrovato sempre lì, nel caso mi fosse interessato il suo
contenuto.
Ovviamente fui sorpreso dal gesto e gli chiesi se io fossi
il primo a leggere il suo lavoro.
Rispose che no, che proprio quel coordinatore, che si era
silenziosamente distaccato da noi, lo aveva avuto con se per lungo tempo, senza
averlo mai letto.
La sera stessa, grazie a un
computer portatile, lessi le prime venti pagine del libro di Jorge.
Il titolo era “Atados”, che significa connessi, collegati, uniti.
Come potevo snobbare un racconto
con quel titolo?
La storia era un racconto di vite
che si intrecciano, si snodano, si separano per reincontrarsi ancora. Oltre ad
essere avvincente, quell’acerbo romanzo, aveva il senso che io volevo
raccontare. Era connesso con me.
L’indomani mi presentai alla
Segreteria della Cultura di Atibaia per chiedere una collaborazione nella
realizzazione della pubblicazione di un libro.
Sarebbe stato motivo di un
conseguente Evento, rappresentativo dell’appoggio delle Istituzioni ad autori
in stato di disagio sociale.
Io e Katia, in dieci giorni,
revisionammo interamente il libro, ne correggemmo gli errori e creammo la
copertina e una prefazione di presentazione.
Il libro fu stampato.
Un evento, condotto da Katia con
Jorge come protagonista, fu realizzato.
Realizzarono articoli sulla
stampa, interviste, epropaganda per quell’avvenimento.
Il libro fu collocato nella Biblioteca cittadina a disposizione di tutti.
Il libro fu collocato nella Biblioteca cittadina a disposizione di tutti.
Jorge smise di bere.
Lavorò divulgando il suo libro, e
continuò a scrivere.
Si aggiustò i denti davanti e
riprese a sorridere, finalmente fiducioso.
Ma i giorni passavano e la
memoria di quel commovente e straordianario momento, passò anch’essa.
Così Jorge ritornò a bere.
Era il suo modo di reagire alla
vita.
Fino a che restai ad Atibaia,
negli anni a seguire, ci sentimmo, ma negli ultimi tempi lo avevo perso ormai
di vista.
Molto tempo dopo, seppi che, a
causa dell’alcoolismo, fu colpito da un’improvvisa cecità agli occhi.
Lasciai un messaggio di affetto a
sua madre e il mio recapito, ma mai più seppi nulla di lui.
Lui resta con me anche qui, tra
queste righe, vivo e sobrio, felice di essere stato, almeno per un giorno, un
famoso scrittore.
Il sogno di Jorge era stato
realizzato.
E così il mio.
Della sua vita non potevo esserne
responsabile e con il dolore di un addio, si concluse la nostra relazione.
Naturalmente i progetti che
realizzavamo si incrociavano.
Avevamo molte cose da fare e non
iniziavamo un progetto senza vederlo concluso, ma ci permettevamo di
affiancarlo ad altri, come ad esempio la realizzazione dell’esposizione di
Katia, Cartas.
Questa mostra avrebbe raccontato
del viaggio di Katia in Italia, ma era la prima mostra ad Atibaia che avrebbe
presentato l’associazione darearte, e ci serviva farci conoscere al pubblico
brasiliano, per raccogliere consensi e adesioni di volontari, di risorse umane,
dato che ben poco contavamo sulle risorse economiche locali.
Volevamo impiantare la nostra
ideologia, assolutamente nuova in quel tempo, in quella terra.
Questa mostra era anche la più
importante che Katia aveva realizzato come artista visiva, presso la pinacoteca
cittadina.
Io mi occupai dell’istallazione.
Fu una fatica immensa, ma fummo
felici del risultato.
Le sue opere erano poesia e come
uccelli e foglie, avevamo creato un’istallazione dove nulla fosse attaccato
alle pareti, ma tutto fluttuasse.
Cominciammo così a farci notare
di più, attraverso l’arte, per parlare di solidarietà.
A questa bellissima mostra, portammo anche le ragazze di un orfanotrofio, erano il nostro pubblico, coloro alle quali rivolgevamo le nostre più sentite attenzioni.
A questa bellissima mostra, portammo anche le ragazze di un orfanotrofio, erano il nostro pubblico, coloro alle quali rivolgevamo le nostre più sentite attenzioni.
Dopo la mostra di Katia, toccò
alla mia.
Era il momento di “sotto il
cielo, Nuvole di Genova” ad Atibaia.
La sua prima rappresentazione.
Ma di questo, ne parlerò al
capitolo successivo.
Dirò adesso di un video che feci
insieme a Katia, in una favela di Atibaia.
Lei conosceva che cosa volesse
dire “favela”, e sapeva bene quali erano i limiti di chi volesse entrarci.
Noi volevamo entrarci.
Ma senza far rumore, non per
curiosità, ma per capire e per essere con loro.
Ma entrare nella favela più pericolosa
della regione, con una telecamera, poteva essere una sciocchezza anche se
fossero le 7:00 del mattino.
Ma Katia aveva un asso nella
manica, anzi dentro un secchio.
Il suo clown poteva farci
entrare.
Così entrò in scena Pierina, il
suo pagliaccio, con naso e vestito rossi, le scarpe grandi, il trucco e la
parrucca arancione.
E, Lui, fu la chiave che ci
permise l’accesso e di attraversare la strada principale della favela, con una
piccola telecamera in mano, che filmava quello che il clown faceva fare alla
gente.
Due erano le semplici domande che
il clown faceva a chi incontrava: che cosa piacesse e che cosa intendesse
buttar via.
Il clown portava con se un
secchio e proponeva alla gente di metterci dentro, simbolicamente, le cose che
voleva cambiare e dargli un calcio.
Un gioco che mi rivelò verità
sorprendenti e realtà mai viste, fino a quel momento.
Questo divenne il mio primo piccolo film in Brasile.
Questo divenne il mio primo piccolo film in Brasile.
Altri progetti darearte
riguardavano una serie di spettacoli teatrali, creati da Katia e realizzati insieme
ad una compagnia di giovani attori volontari di darearte in Atibaia, corsi di
pittura su tessuto, disegno, di lingua italiana, tutti rivolti ai bambini di
orfanotrofi, comunità e scuole pubbliche.
Ed eccoci a più di 50 progetti
realizzati, dal giorno della fondazione di darearte.
Tutti, ormai ci conoscevano.
Eravamo sui giornali.
E in prima pagina sul quotidiano
più letto.
Ci riconoscevano per la strada e,
con le Istituzioni, avevamo un nome e credibilità.
Eravamo un treno colorato in
corsa.
Giuliano
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