Capitolo 15: cinque voci
Era notte.
Finalmente era arrivato il
momento di buttare per aria le mie scarpe, lasciare che le preoccupazioni, i
compiti e gli affanni del giorno scivolassero via con l’acqua della doccia, per
poi infine spegnere tutte le luci di casa e spalancare la finestra per far
entrare il chiaro della luna.
Dalla mia stanza, ora tutta di
colori argentei, si vedevano le stelle.
Quanto più ferma restavo a
contemplare la notte, più si percepiva quanto tutto fosse in movimento.
Provavo l’emozione infinita di
essere partecipe a questo viaggio spaziale.
E’ da quando ero piccola, che
nutro il piacere di guardare il cielo stellato.
Quanta allegria e paura provavo
solo nel pensare a tutte quelle storie sulle galassie lontane, stelle che ormai
sono già morte ma che ancora vediamo, pianeti di gas e così via... inoltre
avevo il sentimento primitivo, che forse avevo appreso da un Brasile antico e
magico, di essere integrata a quel vasto universo.
Purtroppo la mia (quasi) assenza di logica ed incapacità di
capire la matematica, non mi ha mai permesso di capire l’astronomia.
La scienza, ormai, era fuori mano; al limite sarei potuta
diventare una “curandeira”, ossia una
donna capace di guarire tramite cose invisibili, come l’arte.
Comunque sia, la passione per il cielo stellato non l’ho mai persa e adesso avevo la solitudine necessaria per goderla.
Comunque sia, la passione per il cielo stellato non l’ho mai persa e adesso avevo la solitudine necessaria per goderla.
Per fortuna dovevo dormire sola
nella sede darearte, un obbligo di presenza, altrimenti avrebbe seguito il
destino di tutte le case disabitate: sarebbe stata invasa o saccheggiata.
Cose che accadono nei Paesi in
via di sviluppo.
Nonostante avessi una grande
mancanza di quell’uomo, tutto quel tempo a mia disposizione fu una vera
benedizione e mi stava rinforzando e nutrendo, come fa un concime per una
pianta.
Erano già passati tre mesi della
partenza di Giuliano e me la cavai benissimo, ma proprio l’ultimo mese d’attesa
fu terribilmente difficile da sopportare.
Nessun ricamo, cucito, dipinto,
stella e nessuna delle tante attività che solitamente mi tenevano occupata per
quasi tutta la giornata, da domenica a domenica, erano state capaci di
alleggerire quel vuoto improvviso.
Non avevo voglia di aspettare
quegli ultimi trenta giorni che restavano, era sparita la pazienza e la
serenità.
Cercai nella mia valigia di
medicinali e fu allora che il Teatro venne in mio soccorso.
Feci un monologo-clown a
vantaggio dell’associazione, ma soprattutto lo creai per calmare quel dolore
dell’attesa.
Condividevo le mie goffe difficoltà
e celebravo il mio amore per Giuliano e alla nuova vita che stavo vivendo dopo
il suo incontro.
Molti furono gli applausi per
quello spettacolo e, come ormai di consuetudine, ne fecero un articolo che uscì
sul giornale.
Ma intravidi i primi segni di una
velata ostilità.
Cominciavo ad essere troppo,
troppo in vista e per oscure ragioni, naturali nella mia piccola città, questo
era molto sconveniente.
Sentii che stavo diventando una
figura scomoda e difficile da inquadrare (o da sopportare).
In quel luogo, per tradizione,
era stato tramandato da generazione a generazione l’idea dell’inutilità della
luce sopra l’oscurità, della creatività sopra la sofferenza e principalmente
della fraternità e dell’amore come fondamenta per la Vita.
In quel momento ero molto
condizionata dal pensiero comune, al punto di crearmi una grande angoscia e
amarezza.
Non avevo ancora vissuto certe
esperienze “illuminanti”, tali da capire che non importava il luogo dove fossi
nata, né l’eredità negativa che potevo aver ricevuto, perché comunque, alla
fine, potevo cambiare la mia vita.
Oggi l’ho scoperto, ma in quei
giorni piansi amaramente e diventai vecchia prima dal tempo.
A prescindere dalle lacrime, il
tempo generosamente mi portò il giorno tanto atteso.
Il giorno del mio ritorno in
Italia.
Diversamente dall’ultima volta
controllai il biglietto aereo più e più volte.
E mi preoccupai di controllare di
avere scarpe e vestiti adatti all’inverno.
E la mia valigia era molto
diversa da quella precedente, piena di oggetti inutili e sogni fluttuanti,
adesso nel mio bagaglio c’erano tutte le opere degli artisti brasiliani, di
Atibaia.
Ora portavo il Loro sogno
fluttuante!
E per questo dovevo avere doppia
attenzione.
Questo secondo viaggio a Genova
fu molto significativo, sotto tutti gli aspetti.
Quel ritorno in Italia era il
risultato concreto del grande e veloce sviluppo dell’associazione, del mio
lavoro personale ed anche della forza del mio legame con Giuliano.
Quel viaggio era come un raggio
di luce nella mia vita, ma quando si illumina qualcosa con un faro, un’altra
parte rimane inevitabilmente nel buio.
E cosi fu.
Sentivo molta allegria ma non
riuscivo ad ignorare, attorno a me, la crescente nuvola di disapprovazione e dispiaceri.
Dalle persone lontane alle
persone vicine, avvertivo lo stesso sentimento color giallo- ruggine, nascosto
sotto le loro parole di congratulazioni.
Volevo alleggerire i loro
dispiaceri, sinceramente, ma non sapevo come e non avevo ancora nessuna
saggezza.
Sarei dovuta essere tutt’altra
cosa, per essere accettata, e per fortuna non ci provai.
Semplicemente non ci pensai più:
dovevo assolutamente rivedere Giuliano e mangiare le mie olive nere.
Credo che le olive nere risolvano
tutti i conflitti inutili, perché insegnano ad amare la vita, sopra ogni cosa.
L’imbarco con tutte le opere
d’arte fu davvero faticoso, ma l’aspettativa dell’arrivo in Italia alleggeriva
tutto.
All’andata sembravo volare, con
quel pesante carico, mentre al ritorno in Brasile quel bagaglio sarebbe
diventato più pesante del necessario.
Arrivai a Milano senza nessun
incidente, con lo stupore di quell’uomo che da me si aspettava di tutto.
Mi incontrò alla Stazione
Centrale e condivise con me il calvario di dover trasportare tutte le quindici
opere in treno fino ad Genova.
E furono due, i treni che dovemmo
prendere.
Finalmente arrivati a casa,
sembravamo invecchiati di cent’anni.
Ma dopo pochi attimi, eravamo già
rinvigoriti, felici di rivederci.
Il giorno dopo lui mi portò al
mare, anche se era già ottobre e la stagione calda era finita.
Ero tanto felice di rivedere Genova, che entrai in mare
completamente vestita, per salutarlo nelle sue gelide acque.
Adesso avevo imparato a
relazionarmi con quella Città e non avevo più tanta paura. Forse era più una
premura e rispetto al suo cospetto stregato.
E lo stesso valeva per
quell’uomo.
Adesso stavo imparando come
muovermi dentro la sua vita.
Quella vita simile ai carruggi
genovesi, fatta di lunghi labirinti, con vie bellissime, misteriose, brutte,
buie e anche proibite.
Comunque sia avevo la distrazione
tipica dell’amore, e quella mi faceva andare avanti, aprire tutte le porte,
voler conoscere ogni angolo vietato anche a costo di trovare spesso il dolore.
Non mi sono mai pentita di
questo.
Credevo, e continuo a credere
nell’amore come forza capace di sostenerci anche davanti alla visione più
brutta del mondo.
La mostra d’arte fu un successo,
arrivò perfino la TV Rai3 a farci
un’intervista promozionale, ed eravamo molto felici.
La nostra maggiore gratificazione
non era individuale, ma dovuta alla consapevolezza che quello era un successo
collettivo!
Lì c’erano insieme il sogno della
ceramista di una piccola città, le aspirazioni di un giovane pittore e del suo
vecchio padre, la riconoscenza che perseguitava un ambizioso artista già
rinomato, la produzione artigianale realizzata dalle cucitrici della favela, le
bambole di tessuto create da madri-bambine di un’Entità di accoglienza, i
disegni dei bambini degli orfanotrofi e le loro fotografie.
Dare a tutti una possibilità,
portarli in un altro Mondo, aldilà del mare, per fare in modo che a casa loro
possano essere rivalutati, ascoltati e valorizzati.
Per noi era questo che muoveva
profondamente le nostre azioni e alleggeriva le nostre fatiche.
Senza questo, chi ce lo faceva
fare?
L’anno finì, bello come era
arrivato.
A breve sarei ritornata in
Brasile e non intendevo rimanere nemmeno un secondo di più di quello previsto
dalla Legge Italiana!
Non avrei sopportato essere di
nuovo “clandestina”.
Dovevo andare via, anche se era
bellissimo condividere la Vita con quell’uomo.
Tutti gli istanti erano
particolari, dai piccoli ai grandi momenti, e solo a vederlo leggere un
giornale riempiva di farfalle il mio giorno.
E poi Giuliano era un vulcano di
idee e voleva realizzarle tutte.
Aveva già in mente un
interscambio di artisti, trenta artisti brasiliani e trenta italiani da
realizzare ad Atibaia, aveva proposto all’Istituto Italiano di Cultura di
realizzare la mostra: Sotto il cielo: Nuvole di Genova a Sao Paulo e
nella sua pentola c’era sempre un gran bollire.
Per questo era necessario che io
ritornassi al più presto, per organizzare tutto e ricominciare le attività
dell’associazione prima del suo arrivo dove, insieme, avremmo creato altre decine di progetti.
Mi dispiaceva lasciarlo ma, in fondo,
sentivo un’inconsueta allegria, perché ritornavo alle mie serate solitarie e a
guardare il cielo stellato.
Katia
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.