INFORMAZIONI SU QUESTO LIBRO-BLOG

Questa storia narra di dieci anni vissuti da Katia e da Giuliano.
Il racconto è un "binario", costruito a "doppi capitoli", scritti individualmente dai due autori.
Ogni anno raccontato, dal 2003 al 2013, racchiude cinque capitoli, al termine dei quali,
si conclude un paragrafo e sono pubblicate delle immagini inerenti gli stessi capitoli.
Il libro, nel suo complesso, avrà pertanto 10 paragrafi, composti da 5 doppi capitoli ciascuno.
La pubblicazione di ogni nuovo capitolo avviene senza un tempo determinato, essendo attualmente in fase di creazione.

p.s.: non possiamo essere responsabili della traduzione tramite google che, purtroppo, risulta NON essere completamente compatibile con il testo originale in lingua italiana.

contatto:emaildiecianni@gmail.com
Grazie per seguirci.
Katia & Giuliano

domenica 9 marzo 2014

Capitolo 15 – cinque voci


Capitolo 15 – cinque voci

Ritorno in Italia.
Nel mese di giugno, dopo la mia seconda permanenza in Brasile, dopo 3 mesi tondi tondi ritornai a Genova.
Così lasciai Katia ad Atibaia e lasciai Atibaia a Katia.
Eravamo d’accordo che mi avrebbe raggiunto in Italia nel mese di ottobre.
E mentre lei coltivava la nostra semina io andavo a seminare altrove, in attesa di ritrovarci nuovamente per raccogliere i frutti e seminare ancora.

Ero dunque a Genova, al telefono del solito phone center per stranieri, quando Katia mi raccontava emozionata della continuazione dei nostri progetti.
Erano proseguite le presentazioni del teatro itinerante, con i nostri amici volontari, negli orfanotrofi e per le strade di quartieri carenti, poi altri corsi di disegno, un corso di lingua italiana e un convegno pubblico sull’importanza dell’arte nell’educazione e nella Cultura.
Intorno a lei si muoveva l’energia che avevamo rimescolato in tutti i mesi trascorsi insieme, una specie di onda che non si fermava, grazie a lei che la continuava a tener viva.

E in Italia amici di altre parti d’Italia si unirono a noi creando visibilità a darearte e a Genova aumentavano adesioni e la partecipazione di chi mi incontrava per la prima volta.
Si parlava di darearte nei vicoli del centro storico e in un paio di teatri di Genova, dove si realizzarono eventi promozionali.
Insomma, un fermento, anche se molto modesto, era fiorito e avevo la sensazione che sarebbe potuto crescere.

“Cinque voci dal Brasile” fu il titolo dell’esposizione che inventai per quello che sarebbe stato un altro progetto di interscambio attraverso l’Arte e la Solidarietà.
Organizzai tutto in previsione dell’arrivo delle 15 opere dal Brasile che, non avendo avuto appoggio economico di nessuno, avrebbe portato Katia a mano e a nostre spese, nel suo lungo e faticoso viaggio in Italia.
Non ci facemmo problemi nell’affrontare e risolvere la questione del trasporto, sapevamo che ne sarebbe valsa la pena e che, in chissà quale modo, ne saremmo stati ricompensati.

Nel mese di ottobre Katia arrivò all’aeroporto di Milano, dove mi trovò ad attenderla, per  accompagnare sia lei che le 15 pesanti opere dei 5 Atibaiensi a Genova.
Anche questa volta stentai per qualche attimo a riconoscerla.
Forse la distanza tra le persone trasforma qualche dettaglio, che poi la nostra mente cerca di ricomporre più o meno rapidamente, chissà.
Comunque ci ritrovammmo nuovamente a fianco, questa volta in Italia, con l’impegno di creare un’esposizione artistica che avrebbe dato continuità alla creazione del nostro metaforico ponte tra i nostri due Paesi.

E arrivò il giorno di “Cinque voci dal Brasile” che portò a Genova, nella sua piccola esposizione, il colore ed il suono del Brasile che avevo conosciuto.
Non so dire quanto questo fosse stato recepito, ma le congratulazioni furono molto sentite, pertanto mi affido a queste. 
Nella grande sala espositiva si trovavano, riunite in cerchio, le opere dei 5 artisti brasiliani e una didascalia dedicata, che li rappresentava individualmente.
Al centro vi era un monitor che proiettava il video che avevo realizzato appositamente per loro, le loro interviste, le loro voci.
Per darearte era indissolubile il connubio di solidarietà e arte e mai avremmo creato un progetto che non fosse stato formato basicamente con questi due ingredienti, per questo in un’altra sala avevamo allestito una seconda esposizione, quella dedicata ai bambini.

L’intervistatore di rai tre era simpatico e sorridente, relativamente giovane e di certo ambizioso nella sua carriera professionale e, con la sua piccola equipe, ci intervistarono per un servizio del telegiornale, che permise alla mostra di avere visibilità e a noi di apparire in televisione.

A volte si fanno certe cose senza saperne esattamente il fine e, li per lì, ne inventiamo uno generico per motivare il nostro fare.
Infatti supposi che l’intervista di rai tre avesse il fine di ottenere una maggior risposta di pubblico per la mostra ma, scoprii solo dopo, fu in realtà come lanciare un sasso in uno stagno che, con l’effetto delle sue onde nell’acqua, avrebbe spostato inevitabilmente qualcosa.
E non potevamo avere certezza di cosa fosse quel “qualcosa” e nemmeno avremmo potuto immaginarlo, in quei giorni.

Nella data stabilita della messa in onda di quel servizio, eravamo insieme davanti al televisore come si assiste alla finale dei mondiali, curiosi di sapere chi fossimo noi stessi attraverso occhi di altri.
La realtà è anche un punto di vista, sempre diverso, e dipende da chi la osserva.
Fu una sorpresa vederci parlare del nostro mondo, della nostra realtà, su quello schermo e forse avremmo potuto dire molte cose infatti, in quel momento, credetti di aver perso un’occasione.
Ma, come mi suggerisce un mio intimo Amico, le occasioni non esistono.

Conclusa l’esposizione, avvertii la sensazione che l’interscambio poteva e voleva crescere.
Potevo esserne parte continuando a cavalcare l’onda, oppure tirarmi di lato abbandonando il gioco.
Ma penso che, generalmente e spesso, le scelte non siano connesse al nostro reale desiderio.
Dunque andare avanti era una logica naturale, ovvia.
E ormai giunti alla conclusione del 2005, si intravedeva un nuovo anno, con il suo nuovo ciclo e i suoi nuovi labirinti da percorrere.

Trascorsi la fine dell’anno per la seconda volta con Katia, insieme dentro casa, distruggendo piatti vecchi sul pavimento della cucina come forma di un insano rituale, e credo proprio che il suo effetto sia stato davvero efficace e curiosamente simile a ciò che avremmo vissuto poi, nell’avventura dell’anno che stava per nascere.

Giuliano


Capitolo 15: cinque voci


Capitolo 15: cinque voci

Era notte.
Finalmente era arrivato il momento di buttare per aria le mie scarpe, lasciare che le preoccupazioni, i compiti e gli affanni del giorno scivolassero via con l’acqua della doccia, per poi infine spegnere tutte le luci di casa e spalancare la finestra per far entrare il chiaro della luna.
Dalla mia stanza, ora tutta di colori argentei, si vedevano le stelle.
Quanto più ferma restavo a contemplare la notte, più si percepiva quanto tutto fosse in movimento.
Provavo l’emozione infinita di essere partecipe a questo viaggio spaziale.
E’ da quando ero piccola, che nutro il piacere di guardare il cielo stellato.
Quanta allegria e paura provavo solo nel pensare a tutte quelle storie sulle galassie lontane, stelle che ormai sono già morte ma che ancora vediamo, pianeti di gas e così via... inoltre avevo il sentimento primitivo, che forse avevo appreso da un Brasile antico e magico, di essere integrata a quel vasto universo.
Purtroppo la mia (quasi) assenza di logica ed incapacità di capire la matematica, non mi ha mai permesso di capire l’astronomia.
La scienza, ormai, era fuori mano; al limite sarei potuta diventare una “curandeira”, ossia una donna capace di guarire tramite cose invisibili, come l’arte.
Comunque sia, la passione per il cielo stellato non l’ho mai persa e adesso avevo la solitudine necessaria per goderla.

Per fortuna dovevo dormire sola nella sede darearte, un obbligo di presenza, altrimenti avrebbe seguito il destino di tutte le case disabitate: sarebbe stata invasa o saccheggiata.
Cose che accadono nei Paesi in via di sviluppo.
Nonostante avessi una grande mancanza di quell’uomo, tutto quel tempo a mia disposizione fu una vera benedizione e mi stava rinforzando e nutrendo, come fa un concime per una pianta.
Erano già passati tre mesi della partenza di Giuliano e me la cavai benissimo, ma proprio l’ultimo mese d’attesa fu terribilmente difficile da sopportare.
Nessun ricamo, cucito, dipinto, stella e nessuna delle tante attività che solitamente mi tenevano occupata per quasi tutta la giornata, da domenica a domenica, erano state capaci di alleggerire quel vuoto improvviso.
Non avevo voglia di aspettare quegli ultimi trenta giorni che restavano, era sparita la pazienza e la serenità.
Cercai nella mia valigia di medicinali e fu allora che il Teatro venne in mio soccorso.

Feci un monologo-clown a vantaggio dell’associazione, ma soprattutto lo creai per calmare quel dolore dell’attesa.
Condividevo le mie goffe difficoltà e celebravo il mio amore per Giuliano e alla nuova vita che stavo vivendo dopo il suo incontro.
Molti furono gli applausi per quello spettacolo e, come ormai di consuetudine, ne fecero un articolo che uscì sul giornale.
Ma intravidi i primi segni di una velata ostilità.
Cominciavo ad essere troppo, troppo in vista e per oscure ragioni, naturali nella mia piccola città, questo era molto sconveniente.
Sentii che stavo diventando una figura scomoda e difficile da inquadrare (o da sopportare).
In quel luogo, per tradizione, era stato tramandato da generazione a generazione l’idea dell’inutilità della luce sopra l’oscurità, della creatività sopra la sofferenza e principalmente della fraternità e dell’amore come fondamenta per la Vita.
In quel momento ero molto condizionata dal pensiero comune, al punto di crearmi una grande angoscia e amarezza.
Non avevo ancora vissuto certe esperienze “illuminanti”, tali da capire che non importava il luogo dove fossi nata, né l’eredità negativa che potevo aver ricevuto, perché comunque, alla fine, potevo cambiare la mia vita.
Oggi l’ho scoperto, ma in quei giorni piansi amaramente e diventai vecchia prima dal tempo.

A prescindere dalle lacrime, il tempo generosamente mi portò il giorno tanto atteso.
Il giorno del mio ritorno in Italia.
Diversamente dall’ultima volta controllai il biglietto aereo più e più volte.
E mi preoccupai di controllare di avere scarpe e vestiti adatti all’inverno.
E la mia valigia era molto diversa da quella precedente, piena di oggetti inutili e sogni fluttuanti, adesso nel mio bagaglio c’erano tutte le opere degli artisti brasiliani, di Atibaia.
Ora portavo il Loro sogno fluttuante!
E per questo dovevo avere doppia attenzione.

Questo secondo viaggio a Genova fu molto significativo, sotto tutti gli aspetti.
Quel ritorno in Italia era il risultato concreto del grande e veloce sviluppo dell’associazione, del mio lavoro personale ed anche della forza del mio legame con Giuliano.
Quel viaggio era come un raggio di luce nella mia vita, ma quando si illumina qualcosa con un faro, un’altra parte rimane inevitabilmente nel buio.
E cosi fu.
Sentivo molta allegria ma non riuscivo ad ignorare, attorno a me, la crescente  nuvola di disapprovazione e dispiaceri.
Dalle persone lontane alle persone vicine, avvertivo lo stesso sentimento color giallo- ruggine, nascosto sotto le loro parole di congratulazioni.
Volevo alleggerire i loro dispiaceri, sinceramente, ma non sapevo come e non avevo ancora nessuna saggezza.
Sarei dovuta essere tutt’altra cosa, per essere accettata, e per fortuna non ci provai.
Semplicemente non ci pensai più: dovevo assolutamente rivedere Giuliano e mangiare le mie olive nere.
Credo che le olive nere risolvano tutti i conflitti inutili, perché insegnano ad amare la vita, sopra ogni cosa.

L’imbarco con tutte le opere d’arte fu davvero faticoso, ma l’aspettativa dell’arrivo in Italia alleggeriva tutto. 
All’andata sembravo volare, con quel pesante carico, mentre al ritorno in Brasile quel bagaglio sarebbe diventato più pesante del necessario.
Arrivai a Milano senza nessun incidente, con lo stupore di quell’uomo che da me si aspettava di tutto.
Mi incontrò alla Stazione Centrale e condivise con me il calvario di dover trasportare tutte le quindici opere in treno fino ad Genova.
E furono due, i treni che dovemmo prendere.
Finalmente arrivati a casa, sembravamo invecchiati di cent’anni.
Ma dopo pochi attimi, eravamo già rinvigoriti, felici di rivederci.

Il giorno dopo lui mi portò al mare, anche se era già ottobre e la stagione calda era finita.
Ero tanto felice di rivedere Genova, che entrai in mare completamente vestita, per salutarlo nelle sue gelide acque.
Adesso avevo imparato a relazionarmi con quella Città e non avevo più tanta paura. Forse era più una premura e rispetto al suo cospetto stregato.
E lo stesso valeva per quell’uomo.
Adesso stavo imparando come muovermi dentro la sua vita.
Quella vita simile ai carruggi genovesi, fatta di lunghi labirinti, con vie bellissime, misteriose, brutte, buie e anche proibite.
Comunque sia avevo la distrazione tipica dell’amore, e quella mi faceva andare avanti, aprire tutte le porte, voler conoscere ogni angolo vietato anche a costo di trovare spesso il dolore.
Non mi sono mai pentita di questo.
Credevo, e continuo a credere nell’amore come forza capace di sostenerci anche davanti alla visione più brutta del mondo.

La mostra d’arte fu un successo, arrivò perfino la TV Rai3 a farci un’intervista promozionale, ed eravamo molto felici.
La nostra maggiore gratificazione non era individuale, ma dovuta alla consapevolezza che quello era un successo collettivo!
Lì c’erano insieme il sogno della ceramista di una piccola città, le aspirazioni di un giovane pittore e del suo vecchio padre, la riconoscenza che perseguitava un ambizioso artista già rinomato, la produzione artigianale realizzata dalle cucitrici della favela, le bambole di tessuto create da madri-bambine di un’Entità di accoglienza, i disegni dei bambini degli orfanotrofi e le loro fotografie.
Dare a tutti una possibilità, portarli in un altro Mondo, aldilà del mare, per fare in modo che a casa loro possano essere rivalutati, ascoltati e valorizzati.
Per noi era questo che muoveva profondamente le nostre azioni e alleggeriva le nostre fatiche.
Senza questo, chi ce lo faceva fare?

L’anno finì, bello come era arrivato.
A breve sarei ritornata in Brasile e non intendevo rimanere nemmeno un secondo di più di quello previsto dalla Legge Italiana!
Non avrei sopportato essere di nuovo “clandestina”.
Dovevo andare via, anche se era bellissimo condividere la Vita con quell’uomo.
Tutti gli istanti erano particolari, dai piccoli ai grandi momenti, e solo a vederlo leggere un giornale riempiva di farfalle il mio giorno.
E poi Giuliano era un vulcano di idee e voleva realizzarle tutte.
Aveva già in mente un interscambio di artisti, trenta artisti brasiliani e trenta italiani da realizzare ad Atibaia, aveva proposto all’Istituto Italiano di Cultura di realizzare la mostra: Sotto il cielo: Nuvole di Genova a Sao Paulo e nella sua pentola c’era sempre un gran bollire.
Per questo era necessario che io ritornassi al più presto, per organizzare tutto e ricominciare le attività dell’associazione prima del suo arrivo dove, insieme,  avremmo creato altre decine di progetti.
Mi dispiaceva lasciarlo ma, in fondo, sentivo un’inconsueta allegria, perché ritornavo alle mie serate solitarie e a guardare il cielo stellato.


Katia

domenica 2 marzo 2014

Capitolo 14 - incontri



Capitolo 14 - incontri

Un vecchio artista mi stava aspettando.
Chiuso in sé, come un riccio di 80 anni suonati, se ne stava lontano da tutto e tutti nella sua casa non lontano dal centro di Atibaia.
Sua moglie, giapponese, non parlava praticamente mai e si esprimeva con estrema gentilezza e ospitalità.
Come un’anziana geisha.
Il loro figlio, affetto da disturbi di natura psicologica, è un poeta riconosciuto e premiato.
Il vecchio artista, disegnatore di fumetti in pensione, alla sua epoca famoso in Montevideo in Uruguay, si ritrovò ad Atibaia in Brasile ad esser dimenticato come artista, come il grande creativo quale era stato nel passato.
I pesanti conflitti con la sua Atibaia lo avevano portato a chiudersi, fino a scomparire dal ricordo di se stesso.

Ho ben vivo in me il momento che mi trovai nel suo atelier, a registrare con una piccola telecamera un racconto della sua vita.
In quei momenti era tornato ragazzo, giovane, vivo.
Stava rivivendo quei giorni della sua gioventù intensamente, come fosse il suo presente e sembrava che mai nessuno fosse entrato tanto a fondo, nei suoi ricordi. Soprattutto un estraneo.
Ed io, estraneo straniero, ero nel suo atelier ad ascoltare la sua voce, il suo portoghese con marcato accento spagnolo e a registrare tutto, senza sapere esattamente il motivo.
Mi stancai moltissimo ma ero davvero felice nel vedere che, l’uomo che mi avevano indicato come in preda a profonda depressione e in stato di abbandono, insieme a me stava entrando in un nuovo momento della sua vita.

Il solo fatto di essere ascoltato da un italiano, per molti brasiliani che ho incontrato, voleva dire che l’Europa intera lo stava ascoltando.
Il “primo mondo”, come lo chiamano da quelle parti.
Ma in verità io avevo solo aperto il mio cuore e avevo capito molto poco del fiume di parole del suo racconto.
Il mio portoghese non era ancora così sviluppato, ma i miei sensi mi indicavano che ero al posto giusto e nel momento giusto.
E in qualche altro modo, capivo tutto.
Mi raccontò di come, quando bambino di strada, fu aiutato da un estraneo a intraprendere la strada dell’arte comprandogli attrezzature e materiali per il disegno, e iscrivendolo in una scuola.
Qualcuno ebbe fiducia in lui.
Nacque un artista, che pubblicò le sue opere e fece la sua storia, a Montevideo.
Fu anche pittore e tramandò l’arte al proprio figlio, anche lui sostenuto fino a sviluppare il proprio talento.

Dopo questa intervista, decisi che potevo fare la mia parte nel dare uno slancio all’arte di Atibaia e ai suoi artisti.
Inventai su due piedi una mostra di 5 artisti della città, che avrei portato con me
per un’esposizione che avrei realizzato in uno spazio concesso dal Comune di Genova.

Un semplice progetto, 15 opere in tutto, ma che avrebbero reso noti, almeno nella loro città, i 5 artisti in trasferta nel “primo mondo”.
La mia scelta cadde su artisti che, completamente diversi uno dall’altro, potevano raccontare il Brasile che avevo conosciuto fino a quel momento.
Dopo il vecchio artista ne intervistai altri quattro, per realizzare un unico video che sarebbe stato poi apprezzato all’esposizione a Genova.

Devo dire che le storie delle persone, le storie vere e da loro stessi raccontate, mi incantavano profondamente, ma non solo per la storia in sé, costruita di parole e movimenti, ma per ciò che contenevano e soprattutto per quel bagliore che, a volte fiebile e a volte accecante, durante la narrativa emettevano.
Era proprio quella luce, fondamentalmente, ciò che mi attraeva, quello che di più vero scorgevo nelle anime di chi incontravo, anche solo per pochi minuti.
Tutti abbiamo luce, chi più e chi meno evidente, chi più costante e chi meno.
A volte la ritroviamo solo dopo molto tempo, a volte quasi mai, ma in genere, la luce, lampeggia, a intermittenza, senza farci sapere quando lo farà, ci illumina e poi scompare di nuovo per un tempo ignoto, e per poi riaccendersi ancora, per ricordarci che è in noi e per ricordarci chi siamo.
Quelle luci mi chiesero di essere raccolte ed io, da fotografo, dovevo trovare o inventare nuovi mezzi per poterlo fare.
Avevo paura di cambiare la mia attrezzatura, quasi ci fosse il rischio di cambiar pelle, lavoro, identità e chissà se fossi riuscito a guadagnarmi da vivere con un nuovo mestiere.
Allora ci pensò per me un’amica, che mi prestò una piccola telecamera, per abituarmi, durante un viaggio che feci in Canada, a vedere le mie fotografie in movimento.
E poi mi fu prestata, ancora da un’amica, per il mio primo viaggio in Brasile.
E ancora mi fu regalata, da un’altra amica, per il mio secondo viaggio in Brasile.
Meno male che avevo tante amiche.
Le ringrazio qui mille e mille volte, per avermi indicato a quelle possibilità.

Quelle piccole telecamere amatoriali registrarono voci e realtà in movimento, di luoghi tanto diversi dalle mie abitudini. 
Intervistarono persone, diedero attenzione chi aveva qualcosa che fosse importante raccontare.
La diedero a un fervente giovane cattolico, al principio della realizzazione del suo sogno.
Diedero voce a una Mae de Santos, all’esordio nella sua carriera politica.
La diedero ad un Parroco molto amato, negli ultimi giorni di permanenza nella sua città.
Diedero voce al vecchio artista dimenticato, nell’ultimo periodo della sua vita.

Impossibile, si intende, riportare in queste righe tutto il vissuto di quei tempi, di questi anni, ma in questo viaggio di parole e di ricordi si attraversa e si sorvola quel panorama ricco di momenti indimenticabili, di dettagli di vita intensa, di sofferenze per scottature, di fastidi per i pidocchi e  infezioni, di disturbi per le aggressioni e di gioie per gli abbracci, di entusiasmi per i successi, di splendore per la bellezza incontrata.
Insomma infiniti e infiniti dettagli di un fiume che scorre, dove le sue acque si mischiano ad altri torrenti e a fiumi più grandi, e si divide per riunirsi ancora e crea lagune e cascate, vortici e paludi, e incontra alberi, animali e il vento, e accarezza pesci, foglie, pietre e nutre altre vite, che lo nutrono a loro volta, e continua, se lento o veloce non importa, nel suo procedere verso il Mare, la sua meta, ma non l’ultima.


Giuliano


sabato 1 marzo 2014

Capitolo 14 - incontri


Capitolo 14 - incontri


Ero all’inizio di una lunga e profonda trasformazione.
Riuscire a stare al fianco di quell’uomo era, già di per sé, un gran travaglio di cuore che mi richiedeva continuamente nuove sfide personali.
E non meno faticoso era svolgere tutte le attività dell’associazione.
In genere non ho mai avuto difficoltà nel rapporto con le persone in stato di estrema povertà e mai mi sono sentita a disagio nei quartieri svantaggiati.
Con lo spirito del pagliaccio riuscivo ad eseguire tutti i progetti artistici con la medesima energia libera, allegra e in grande intesa con bambini e adulti.

Per visitare le donne cucitrici e i loro numerosi figli, era necessario passare in mezzo alla grande discarica Municipale della spazzatura, attraversare una nuvola di polvere e puzza, deviare intorno a un mucchio di detriti, saltare le fogne a cielo aperto, salvarsi da ladri o da altri pericoli, per finalmente trovare i bambini che giocavano in mezzo agli avvoltoi, ai cani randagi e le loro madri, davanti alle loro “case/baracche”.
Per me tutto ciò era decisamente più facile e piacevole che affrontare una riunione con il Sindaco o partecipare all’inaugurazione di una mostra d’arte, dove non sapevo mai come muovere le mani e nè come fermare i miei piedi.
Ero sempre a disagio in queste riunioni, in mezzo a vestiti da sera e a calici di vino.
Avevo un’immensa difficoltà per le relazioni sociali di un certo tipo, ma sapevo che anche queste erano necessarie allo sviluppo delle nostre attività solidali.
L’associazione era fatta di persone e per le persone, per questo avevamo tanti incontri, veramente infiniti incontri!
Siano quelli con i responsabili dell’Amministrazione Pubblica, Enti ed altre Strutture, siano quelle informali, che continuamente ci capitavano.
Quell’uomo aveva una bussola dentro di sé, che invece di indicare sempre la direzione nord, lo attirava verso altri esseri umani.
Dentro la nostra sede appena ristrutturata, c’era un constante viavai.
Un mosaico di svariate persone che entravano ed uscivano: giovani teatranti volontari, qualche pittore desolato, un vecchio scrittore italiano immigrato, i vicini curiosi, le persone assistite da noi delle comunità che ci venivano a visitare e tutti gli artisti e artigiani che Giuliano aveva trovato per le strade di Atibaia.
Lui percepiva e ascoltava chiunque.
Voleva sapere la loro motivazione e il loro sogno, e molto spesso si metteva all’azione per, in qualche modo, rendere possibile la loro aspirazione.
Oltre quel movimento nella nostra sede eravamo spesso ospiti a qualche pranzo, cena, merenda o semplicemente eravamo fermati per la strada o per far parte di una riunione dentro a un bar.
Lui non rifiutava mai nessun invito, anzi, da un incontro ne nascevano altri dieci.

E così, da un incontro con un artista visivo di grande talento che di giorno faceva il contabile, andammo a conoscere artisti in una festa popolare presso Joanopolis, la Capitale del Lupo Mannaro.
Ormai Giuliano non usciva più senza la sua piccola telecamera, perché stavano nascendo in lui nuovi desideri di espressione e non voleva perdere alcuna occasione.
Durante quella festa registrò una canzone in particolare, che anni dopo avrebbe inserito nella colonna sonora del progetto: Sotto il cielo: Nuvole di  Atibaia.
In quel groviglio di musicisti con strani capelli, santi, contadini e cacche di cavallo, lui conobbe una ceramista che, anche lei, ci invitò a pranzo e nel suo atelier, nel mezzo della campagna.
Durante il pranzo quella singolare famiglia mi certificò l’esistenza del Lupo Mannaro e mi diedero le indicazioni giuste di come poterlo sconfiggere.

Seguire Giuliano mi portava a vivere le cose di cui non mi sarei mai permessa prima.
A causa della mia timidezza, sicuramente non avrei accettato nessuno di questi inviti. E intanto diventava piacevole conoscere tante realtà e tanti nuovi punti di vista diversi.
Avevo un poco di pigrizia nel guardare il Mondo con gli occhi degli altri, perché a volte è davvero faticoso e spesso ci ritroviamo con il rischio di cambiare il nostro.
Insieme a quell’uomo, ormai, ero in questo vortice.
Non sapevo più dove andassi a finire l’indomani, in quale realtà sociale sarei capitata e in quale casa avrei pranzato o cenato, ma la ceramista finì per prendere parte ad una mostra d’arte a Genova appositamente creata dalla nostra associazione per realizzare il desiderio di artisti conosciuti durante in nostro camminare senza sosta.

Piano piano tutto questo movimento stava cambiando anche quella mia finta timidezza, che nascondeva sotto un’insicurezza, che a sua volta nascondeva tutt’altro che solo molto più avanti avrei potuto scoprire.
Presto sarei stata costretta cambiare pelle, più e più volte, come fanno i serpenti.
Però in quel momento, si avvicinava una dura prova.
Giuliano doveva ripartire per Genova, senza di me.
Sarei rimasta ad Atibaia da sola e avrei dovuto gestire la sede darearte e tutti i progetti locali.
E poi avrei anche dovuto vederlo partire…respirai a fondo.
Una parte di me voleva scomparire dentro un buco e piangere un mare di lacrime, ma una grande maggioranza di me votò a favore per andare avanti.
Era una grande sfida, una pietra davanti al cammino e non sapevo se fossi stata capace di affrontarla.
Prima di tutto guardai gli aspetti positivi: in breve sarei tornata a Genova, anch’io.
Le attività dell’associazione mi avevano portato grande visibilità e i lavori privati erano, per me, sempre abbondanti.
Anche se ero volontaria con darearte, senza alcun compenso, mai mi sono mancati i soldi.
 
Durante la mostra di “Cartas”, fui invitata a fare illustrazioni per un libro e con questo mi sarei pagata il biglietto aereo per l’Italia.
Sarei stata la responsabile per trasportare tutte le opere d’arte dei brasiliani, alla mostra di Genova.
La parte positiva che più mi convinceva era che, per almeno quattro mesi, non avrei più convissuto con la “Signora del Danubio”!
Sarei stata finalmente sola, con la mia foresta, con la mia montagna e con la mia vita.
Ma tutti questi pensieri luminosi, non hanno impedito alle paure di arrivare numerose.
Avrei dovuto mantenere la contabilità, curare la Sede, coordinare i volontari, andare alle riunioni, incontrare persone, organizzare progetti e realizzarli.
Dovevo chiedere al mio pagliaccio di farsi largo nel mio cervello affinché potesse funzionare qualche raggio di ragionevolezza.
Dovevo persino chiedere alla donna dentro di me di resistere al distacco da quell’uomo.
Dopo la contabilità l’aspetto più difficile per me era quello di dover continuare tutti quegli incontri, da sola, senza poter contare più con il talento innato di Giuliano, quello di capire profondamente le persone e, proprio per questo, dargli un margine, un limite.

Invece io ero goffa e ancora non sapevo come relazionarmi.
Arrossivo, inciampavo nelle parole, ora parlavo tanto e ora mi mancavano i verbi. Quando dovevo essere dolce mi chiudevo e quando occorreva di mettere un limite, lasciavo che le persone invadessero la mia vita.
Mi mancava l’attenzione nel tempo presente.
Se avevo un incontro con il Segretario della Cultura, scrivevo su un foglio tutto quanto mi occorreva ricordare, poi nel cammino perdevo il foglio, mi distraevo con il tramonto o con le farfalle e arrivavo con i capelli arruffati.
Mi lasciavo travolgere dai pettegolezzi dei funzionari e dalla costante curiosità sulla mia persona.
Alla fine riuscivo ad eseguire sempre il mio compito, anche se in maniera approssimativa, e poi inventavo soluzioni per rammendare tutte le falle che avevo lasciato nel cammino.
Mi sbilanciava il fatto di essere sempre troppo in vista, presente nelle copertine dei giornali locali e, adesso, conosciuta da tutti.
Questi riflettori su di me mi spingevano verso ferite del mio passato che avevo mantenuto nel buio per lungo tempo.

Quando Giuliano partì mi sedetti e pensai di desistere.
Dato che lui se ne era andato, sarebbe stato il momento di prendere le valigie e scappare!
Basta con gli incontri, basta i progetti, basta seguire quell’uomo così difficile, basta dover sempre scoprire qualcosa dentro di me!
Avevo tanta paura di cambiare perché non intendevo perdere nulla.
Per fortuna, questo fu soltanto un istante di follia e di codardia che mi sono permessa.
Nella realtà non mi fermai.
Presi la mia spada di zucchero filato, il mio naso rosso e andai verso la battaglia, in mezzo alla tempesta.
Davanti a me sorgevano, ogni giorno, nuove sfide.
E più le vincevo, più ostilità e incomprensione mi trovavo davanti.
Sembrava che tutto questo vivere, mi stesse spingendo verso un viaggio interiore.
Non un viaggio verso splendide spiagge in superficie, ma nella direzione di abissi oscuri e sconosciuti.
E più scendevo verso il buio, più in basso venivo spinta.
Sentivo che avrei provato tanto dolore, incontrato antichi scheletri e riaperto vecchie ferite, ma solo scavando sul fondo avrei potuto trovare i veri Tesori.

Per questo decisi instintivamente di proseguire e di lasciarmi andare alla Vita.


Katia