Capitolo 17 – Favela.
Non amo molto volare, rinchiuso
dentro quei grandi transatlantici del cielo.
La durata del volo e delle attese, e gli spazi sacrificati
all’interno dell’aereo, mi hanno sempre causato la sofferenza sufficente per
non vedere quanto sia incredibile raggiungere l’altro lato del mondo al di
sopra delle nuvole.
Ma stavo facendo l’abitudine al
volo intercontinentale e ormai avevo capito come muovermi.
Arrivai in Brasile in aprile.
Per la mia terza volta.
E allo sbarco mi attende una
sorpresa.
I miei bagagli erano stati
smarriti!
“Ci dispiace, ma sono stati
imbarcati in un altro volo”, mi dissero,
pacati, all’ufficio reclami.
Lasciai il mio recapito, dissero
di non preoccuparmi e che li avrei ricevuti al mio domicilio.
Ma mi preoccupai lo stesso, senza
disperarmi dato che la maggior parte delle 30 opere della mostra che avrei
presentato alla città di Atibaia erano con me, nei miei bagagli a mano.
Katia e suo padre mi vennero a
prendere all’aeroporto di Guarulhos.
Come tutte le altre volte, al
nostro incontro, tenemmo a freno l’entusiasmo, anche se era evidente la gioia
di ritrovarci ancora.
L’arrivo alla sede fu una bella
sorpresa.
Katia non solo l’aveva accudita,
ma anche ristrutturata a nuovo, ridipinta e abbellita con mosaici, e adesso brillava
in festa come se, anche lei, fosse lieta di rivedermi.
Che meraviglia, mi sentivo a
casa.
Forse per la prima volta in vita
mia.
Amai profondamente quella casina.
Era colma del nostro amore e del
nostro sudore per costruirla, per renderla bella e accogliente.
E anche in questa permanenza mi
occupai di renderla migliore, ristrutturando la parte del retro e arredandola.
Rimase semplice e pulita, viva e
aperta, come noi volevamo essere con gli altri, con tutti coloro che ci
incontravano o ci venivano a trovare.
Quella sede, quella casa, era
parte di noi.
Dopo qualche giorno un corriere
bussò alla porta con le valigie ritrovate, promessa mantenuta dalla compagnia
aerea, e io tirai un sospiro di sollievo.
Il programma da realizzare in
Brasile, questa volta, era davvero impegnativo, un passo in avanti, oltre tutto
ciò che avevamo già fatto e sapevamo che nel percorso avremmo incontrato molte
cose che avrebbero richiesto altri sforzi, quelli che chiamavamo “progetti
aggiunti”.
Erano gli incontri imprevisti nel
cammino.
Ossia: darearte partiva con un
programma di massima, da realizzare con le forze disponibili e nel fare questo
ci si poteva accorgere che nascevano altre richieste, altre possibilità o altre
situazioni che volevano o dovevano essere sviluppate.
Ad esempio, attraverso gli
incontri con i bambini degli orfanotrofi venivamo a sapere che alcuni di loro
erano fuggiti, evasi, e che si rifugiavano in favela, in un quartiere di
baracche e violenza che li avrebbe concesso un certo tipo di protezione.
Allora noi si andava là, a vedere
cosa era possibile fare, a vedere se potevamo essere utili.
E incontravamo chi era fuggito e
ci correva incontro, felice di rivederci, come noi.
Ma mai era nostra la decisione su
cosa era meglio fare per loro.
Noi mettevamo noi stessi e la
nostra sede a loro disposizione, perché potessero sentirsi meno soli.
Loro decidevano cosa era giusto
per loro fare.
Io, di certo, non lo potevo
sapere.
Ma ecco che, da questo
avvenimento, nasceva il progetto aggiunto, che poteva essere creato all’interno
della favela, per avere il contatto con loro che erano i dispersi.
E si inventava su due piedi un
modo per dare una possibilità.
Un’altra possibilità.
La favela non l’ho ancora
raccontata.
E in effetti solo quest’anno
l’avrei vissuta più da vicino, e divenne il mio ingresso in quel mondo che fino
ad allora avevo solo conosciuto superficialmente.
La prima volta, nel 2003, la
moglie del sindaco mi fece visitare una parte della favela vista dai finestrini
chiusi della sua auto, con l’autista che mi consigliava di non aprirli mai, in
quella calda mattina di sole.
Il tragitto era per mostrarmi il
lavoro compiuto dall’Amministrazione pubblica cittadina.
Avevano fatto di quello che era
l’immondezzaio cittadino, una verde montagna.
Il monte di spazzatura era stato
ricoperto con terra e ora sembrava fosse una collina, prossima alle centinaia
di baracche dei residenti del quartiere.
E l’immondezzaio disorganizzato
era diventato organizzato.
Organizzato con un sistema di
separazione della spazzatura dove scorreva su un rullo meccanico e decine di
persone, praticamente tutte donne, separavano in fretta tutti i materiali.
La puzza di quel posto era per me
insopportabile.
Mosche e batteri erano tutt’uno
con lo sporco che dominava quel posto, che aveva ancora molto da fare per
divenire luogo di educazione ambientale.
Solo per l’occasione della
visita, seppi poi, alcuni dipendenti di questa coperativa avevano indosso delle
mascherine.
Stavo zitto e osservavo scattando
qualche foto di quel luogo, dove l’unico “uomo bianco” era al comando, servile
e gentile con la moglie del sindaco.
Era il vanto della città, questo
immondezzaio che confinava con il quartiere, anche se a me appariva come una
cosa unica.
Era il loro fiore all’occhiello,
il vanto dell’ecologia e del riciclo.
Poco dopo, mi accorsi che nella
parte dell’immondezzaio che i camion scaricavano i rifiuti urbani, c’erano
persone che li raccoglievano.
Per loro stessi, per
sopravvivere.
Donne, bambini e uomini che
raccoglievano rifiuti per sopravvivere.
Ma questi non avrei dovuto
considerarli e io non potevo fare fotografie, mi dissero.
Dei Rifiuti che raccolgono
rifiuti.
Nonostante avessi sotto gli occhi
molti elementi che mi raccontavano esplicitamente della città, del sistema
sociale e della cultura di quel posto, in quei giorni misi da parte
quell’esperienza in uno dei tanti cassetti del mio archivio.
Senza saperlo, nel mio primo anno
in Brasile, avevo sotto gli occhi, e tutti i giorni, la favela.
Perché era negli occhi delle
persone che incontravo.
La favela era presente nel centro
benestante della città, minacciosa a pochi isolati da lì, con il suo vento come
un alito cattivo che segnalava la sua angosciante presenza.
Era nella paura della gente, che
teneva stretta la borsa anche se vuota, che camminava guardandosi attorno con
la certezza che sarebbe stata assaltata, prima o poi.
Ma peggio di tutto era nello
sguardo dei bambini, nelle loro parole, nei loro gesti.
E loro l’avrebbero imparata e poi
insegnata, ancora.
Come sta nel sistema naturale
delle cose.
E come in ogni mondo che soffre,
in quei mondi si trovano meraviglie, luci, sogni e speranze che possono essere
più luminose del sole, più grandi di una galassia intera e possono lasciarci
senza fiato per la loro immensa e commovente bellezza.
Ed ecco splendere una stella.
Donna di 33 anni, mamma di 5
figli, di padri diversi, piccola e gracile, dagli occhi immensi.
Questa donna faceva parte del
gruppo di madri cucitrici che avevamo sostenuto.
Era una di coloro che avevamo
affiancato sapendo della sua realtà difficile e della sua situazione molto
delicata, anche per la difficoltà di seguire i propri cinque figli, tre
maschietti e due bambine, tutti di una bellezza sconcertante.
I suoi racconti, sulla propria
vita, erano davvero difficili da concepire.
Per questo motivo avevamo un
attenzione particolare alla sua storia e ci avvicinammo un poco di più a lei,
che alle altre madri.
E avvicinandosi, scoprimmo la sua
luce.
Spesso occorre approssimarsi alle
cose, alle persone, per intuire la loro essenza, per ascoltare la loro fiebile
voce, ormai sepolta, ormai soffocata dai rumori e dalle imposizioni del mondo
circostante.
E allora ci possiamo
meravigliare.
E allora possiamo incontrare
realmente chi ci sta di fronte e finalmente essere connessi.
Tania aveva paura.
Tutti i giorni, ogni giorno,
aveva paura.
Ma la sua paura aveva fatto il
suo coraggio, di potercela fare, nonostante la follia che la circondava.
La vedemmo in condizioni
orribili, picchiata a sangue dal suo compagno, ma sempre in piedi, con la
dignità di una Regina che doveva badare al suo regno, ai suoi cinque piccoli
fedeli, che contavano su di lei e solo su di lei.
E lei, per loro, c’era sempre.
Forse c’era meno per se stessa,
naufragando in quel mare in continua tempesta, dove i morti bussavano alla porta
e restavano lì fuori, fino a che qualcuno non li portasse altrove, forse
seppellirli in quell’immondezzaio a pochi metri dalla sua casa.
La sua casa.
Una delle cose che mi colpirono
maggiormente in Brasile, fu conoscere la sua casa. Non dovrebbe esistere un
sistema che osi definirsi “sociale”, un sistema che sventoli termini come
“cittadinanza”, “sviluppo”, “prevenzione sanitaria”, “educazione”, “diritti
umani”, “dignità del proprio popolo”, “solidarietà” e permettere che una
famiglia di 7 componenti, di cui 5 di età inferiore ai 9 anni, di vivere nelle
condizioni che avevo solo intravisto.
Come tante madri della favela,
lei era l’unico riferimento dei propri figli che crescevano senza padre, avendo
come unico modello da seguire il leader del quartiere o quello che vendeva la
televisione.
Entrambi dubito siano un buon
esempio di stile di vita.
Il primo inseriva in una vita a
breve scadenza, dove le prospettive erano il carcere o la morte, e la seconda
era una penosa illusione senza uscita.
Ma in certi ambienti, le
opportunità sono davvero misere, anche se le meteore appaiono in ogni cielo.
Ci siamo sentiti meteore,
cercando di offrire alternative, lavori e diversivi, ma la nostra era solo un
indicazione, non potevamo mai farci carico della vita del nostro prossimo.
E in molti sappiamo quanto questo
sia doloroso, guardando gli occhi di un bimbo, che in te può intuire una via di
uscita.
E quanti occhi di bambini abbiamo
incontrato.
In quanti si sono chiesti da dove
arrivavamo, con i nostri buffi modi di fare, tanto diversi.
E che cosa avessimo poi da
sorridere, sempre, tanto da essere contagiosi.
Chissà quali domande passavano
per la testa di molti di loro.
Ho ancora con me lettere d’amore
che adolescenti mi hanno scritto, come omaggio della nostra presenza.
Ho ancora in me, tutti i bambini
che ho incontrato.
E i bambini delle bambine?
A undici anni si può essere
madri?
Quando uscii dalla mia prima
vista da un’entità che accoglieva bambine madri, rimasi come in stato
confusionale.
Avevo visto bambine con figli.
Non di plastica, ma di carne e
ossa che piangevano invocando latte materno.
L’entità accoglieva bambine per
prepararle al parto e assisterle per i primi mesi subito dopo, essendo tutte
provenienti dalla favela, in stato di carenza di ogni cosa.
Bambine che restano incinte da
amici, familiari, vicini, sconosciuti.
Preparate ad essere madri
dall’entità, che le accoglie ed aiutano solo ed esclusivamente se accettano di
portare avanti la gravidanza.
A undici anni.
Per quell’entità raccogliemmo
fondi, realizzammo e donammo un video che raccontava e promuoveva il loro
intento e facemmo corsi alle bambine per sensibilizzarle al meraviglioso evento
che le attendeva.
Quelle bambine le incontravamo
nei vicoli di fango della favela, insieme ai figli senza genitori, evasi dagli
orfanotrofi, insieme ad altri abbandonati ed emarginati.
E i figli di quei figli nascevano
in questo cerchio, all’interno di un ciclo che non voleva spezzarsi, in quei
vicoli ciechi di quell’interminabile giostra che è la favela.
E proprio in questo luogo,
proprio nella favela, incontrai un uomo nero come la pece, di quasi 50 anni,
padre di più di 25 figli (quelli riconosciuti, mi disse), leader religioso di
una parte della comunità della favela, centro di riferimento per molti e “maestro
di vita”, in favela.
Mio caro amico, ti ricordo con
grande affetto.
Grazie a lui imparai a conoscere
meglio quel mondo e ad entrare ancor di più nel suo intestino, fino al limite a
me concesso.
Con lui, realizzai diversi
progetti importanti e determinanti per i nostri reciproci sviluppi.
Lo scambio tra noi fu molto
generoso, eravamo maestri uno del’altro, aiutandoci nel comprendere le nostre
diverse realtà e mettendoci in condizione di migliorare i nostri sforzi.
Nella prima occasione del nostro
incontro, offrii una donazione alla sua associazione.
Si trattava di un filmato che
avremmo successivamente divulgato in un evento da noi organizzato.
Questo avrebbe dato la visibilità
locale alle attività sociali della loro entità.
In teoria, era un’associazione di
beneficenza per i residenti della favela, ma che non aveva più come proseguire
il loro intento.
Si occupavano di raccogliere
alimenti scartati da tre o quattro supermercati della città, che avrebbero
selezionato e suddiviso in ceste e poi donato a coloro che si avvicinavano alla
loro associazione, che aveva anche un carattere religioso.
Avevo capito più o meno, sul loro
progetto, ma non sapevo esattamente a cosa sarei andato incontro il giorno che
chiesi al mio compagno se potevo salire sul camion con lui per il quotidiano
giro ai supermercati.
Così, con la mia piccola
telecamerina, mi sedetti al suo fianco e partimmo per la raccolta con tre donne
aiutanti sul grande cassone.
Capii che questo leader sapeva il
fatto suo e sapeva comandare come pochi avevo visto fare.
Al termine della raccolta e
tornati alla sede, ci fu la suddivisione degli alimenti, la pulizia del camion
e la divisione delle parti con chi aveva lavorato, essendo che nessuno aveva
compenso da questo, ma poteva avere la precedenza sul migliore raccolto.
Poi tutto veniva esposto al
pubblico, che ritirava il biglietto e, al giusto momento, lo riconsegnava al
leader che, al microfono, permetteva l’ingresso.
La gente poteva prendere una
borsa intera di cibo, gratuitamente, il tutto in mezzo a milioni di mosche e
con un sottofondo di musica evangelica.
Ricordo che, in un momento di
questi, ebbi un’impressione, che durò come un flash di un fotoreporter.
Mi resi conto di essere lì.
Fu come un colpo sordo che mi
stordì.
Ero lì, dove mai ero stato prima,
in un luogo che aveva dell’incredibile, in un mondo che mi era completamente
sconosciuto.
Ero nel mezzo di un articolo
fotografico del National Geografic che avevo visto tanto tempo prima.
Non avrei mai potuto capire cosa
volesse dire essere lì realmente, se lo avessi visto esclusivamente attraverso
le pagine brillanti di una bella rivista fotografica.
Ero in mezzo alla puzza
insopportabile, a insetti molesti e a cani randagi malati, a un’insostenibile nenia religiosa e a persone che potevano anche ammazzarmi per prendere quel
poco che avevo addosso.
Io ero lì.
E la puzza diventava l’odore
naturale delle cose, gli insetti e i cani randagi erano cornice e parte
integrante del luogo, la musica la colonna sonora di quei momenti e in verità
nessuno mi avrebbe mai torto un capello, perché ero uno di loro anche io, in
qualche modo.
Registrai ciò che potevo e nacque
un piccolo video, che più avanti presentammo in un evento organizzato in uno
spazio pubblico concesso dall’amministrazione pubblica di Atibaia.
A quell’evento vi era una
rappresentanza della favela, alcuni figli del mio compagno, sua moglie e alcuni
personaggi che riuscimmo a convincere di far parte del pubblico.
Poco prima dell’inizio
dell’incontro, a sorpresa, entrò un tizio dall’aria un pò troppo decisa e
arrogante, che mi strinse la mano in maniera eccessivamente forte.
Era l’uomo più ricco della città.
Ed era candidato alle elezioni
politiche come sindaco.
Un argomento nuovo per me e
un’altra lezione che stavo per imparare, in Brasile.
Ebbene, il film che presentammo
fece commuovere il nostro pubblico e poi parlammo un poco per presentare
l’entità di Clodoaldo.
L’uomo più ricco della città
chiese quale fosse la necessità primaria e il nostro amico leader rispose che
il camion, quello che si vedeva nel film, si era bloccato e in condizioni
infelici, ridotto a un rottame non sarebbe stato possibile continuare con la
raccolta degli alimenti.
Ebbene: l’uomo più ricco della
città mise a disposizione la propria attrezzata officina per la ristrutturazione
completa del camion!
Il valore donato era davvero
molto, molto alto, e io chiusi con gioia l’evento, preoccupandomi di seguire e
essere testimone di tale donazione.
E il donatore mantenne la parola.
Il camion fu rimesso
completamente a nuovo e il mio caro amico era felice.
E io ancor di più.
Pensai che proprio questo fosse
il mio lavoro.
Pensai che era un miracolo che
era accaduto grazie a ciò che avevo collocato nelle immagini del film, creato
senza strumenti che si fanno chiamare “professionali” e senza alcuna
preparazione, ma con l’unico ingrediente fondamentale quando si vuole realmente
fare: l’amore.
Amai con tutta l’innocenza
possibile il lavoro di questo leader e il mio lavoro di testimone e questo si
avvertiva nelle riprese.
Ero tanto felice che non pensai
di fare altro nella vita.
Ero diventato un videomaker,
finalmente, il lavoro dei miei sogni!
Avevo realizzato un sogno per
qualcuno, per forse molti, e si era realizzato il mio più irraggiungibile.
Non ci credevo, tanto ero al
settimo cielo!
Potevo adesso continuare?
Ero apparso in pubblico, mi
avevano visto, sentito, avevo creato, realizzato un film, avevo commosso,
ricevuto applausi, raggiunto un obiettivo straordinario!
Potevo credere in me,
adesso? Si. Finalmente, si.
Di queste due persone semplici,
questa donna e quest’uomo, potrei scrivere moltissimo.
Frequentai entrambi, per motivi
diversi, fino al giorno che lascerò Atibaia.
Loro rappresentavano, per me,
l’altro lato del fiume, o meglio, l’altro lato della strada che divideva la
città in due diversi stili di vita.
Loro due sono universi dei quali
ho potuto visitare solo un brevissimo tratto, da pianeta a pianeta, senza
potermi avventurare di più, ma sempre con la consapevolezza della dimensione
infinita di ciò che si nascondeva oltre quello che era a me concesso visitare.
Sebbene oggi, non sappia più
nulla di loro, li conservo con me come due splendide perle nere, preziosi
compagni di un viaggio senza fine.
Giuliano