INFORMAZIONI SU QUESTO LIBRO-BLOG

Questa storia narra di dieci anni vissuti da Katia e da Giuliano.
Il racconto è un "binario", costruito a "doppi capitoli", scritti individualmente dai due autori.
Ogni anno raccontato, dal 2003 al 2013, racchiude cinque capitoli, al termine dei quali,
si conclude un paragrafo e sono pubblicate delle immagini inerenti gli stessi capitoli.
Il libro, nel suo complesso, avrà pertanto 10 paragrafi, composti da 5 doppi capitoli ciascuno.
La pubblicazione di ogni nuovo capitolo avviene senza un tempo determinato, essendo attualmente in fase di creazione.

p.s.: non possiamo essere responsabili della traduzione tramite google che, purtroppo, risulta NON essere completamente compatibile con il testo originale in lingua italiana.

contatto:emaildiecianni@gmail.com
Grazie per seguirci.
Katia & Giuliano

domenica 13 luglio 2014

"CARI LETTORI..."


"Cari Lettori,

il racconto della nostra storia ha raggiunto la sua prima tappa.

Siamo felici del successo ottenuto e 
grati per le risposte amiche e positive 
che ci avete donato durante il nostro percorso.

Abbiamo deciso di sospendere qui i nostri post che ad oggi, nella loro narrativa cronologica, hanno raggiunto l'anno 2006.

A coloro che ci hanno seguito fino ad oggi, 
chiediamo di avere pazienza.
Forse un giorno potranno leggere il proseguo 
del racconto in versione "libro".
Questo è ciò che ci auguriamo.

Il nostro blog si ferma qui.
Vi ringraziamo con tutto il cuore per essere stati con noi.

Se vorrete comunque contattarci, 
per sapere del nostro cammino, 
saremo lieti di rispondervi:    
progetto.oia@gmail.com

Con immensa gratitudine."

domenica 15 giugno 2014

Capitolo 18 - 30x30 e tutti gli altri



Capitolo 18. 30x30 e tutti gli altri

Due giorni fa sono andata ad un incontro al Centro per Donne Immigrate, nella città dove attualmente (mentre scrivo) mi trovo, in Italia.
Mentre aspettavo il mio turno, guardavo fuori da una finestra il volo autunnale delle foglie.
Mi sentivo quasi come loro e mi sono lasciata andare a quella piccola bellezza, fino a quando una grande donna egiziana mi riportò al mondo abitato dalla gente.
Alle sue domande risposi in modo istintivo che io non ero una donna immigrata ma una donna esiliata.

Nel tragitto di ritorno a casa, in bicicletta, mi fermai davanti al mare e lì mi accorsi della profondità del segreto che avevo svelato a me stessa.
Ero una donna esiliata, e questo non c'entrava nulla con il fatto di aver lasciato il mio Paese d'origine.
Questo esodo cominciò molti anni prima che prendessi un aereo per il “mai più”.
Nacque inizialmente come una semplice sensazione di estraneamento alle cose una volta familiari, poi si trasformò in un disadattamento cronico, poi iniziai a vivere in un mondo tra i mondi, per finalmente abbandonare definitivamente la località che mi ha dato i natali, seguito dall’addio al Brasile intero.

Non so con certezza il perché di tutto questo, ma so determinare esattamente quando cominciò questo processo: il mio esilio ebbe il suo inizio con l'ingresso di Giuliano nella mia vita, ossia dieci anni fa.
Ricordo che quando camminavo insieme a lui, dovunque andassimo, sembrava di portare con me una torcia incandescente capace di farmi vedere le cose, come non avevo mai immaginato.
Insieme a lui cominciai a vivere delle esperienze bellissime, ma che mettevano in dubbio tutte le mie convinzioni precedenti.
Lentamente, tutto il mondo che avevo delicatamente costruito nei miei anni anteriori, si stava disintegrando, tutte le informazioni che avevo acquisito, ciò che avevo imparato e tutte le verità stavano lentamente scomparendo.
Anche le relazioni personali rimasero sospese, perché non riuscivo più ad appartenere al loro mondo, e per quanto provassi ad adattarmi, stranamente, non ci riuscivo.
Naturalmente, l’intensa attività dell’associazione darearte, mi riportava a vivere delle situazioni di estrema ingiustizia sociale e tutto ciò mi toglieva bruscamente il velo dell’innocenza che insistevo a portare sugli occhi.
Perdere l’innocenza era come svegliarsi di colpo e avere la forza di mantenere lo sguardo davanti a cose brutali, come un bambino che vive in strada.
E’ ovvio che anche prima vedevo delle cose, (é impossibile non vedere un bambino che dorme per la strada in Brasile, ce ne sono troppi!) ma ero protetta da una favola che raccontavo a me stessa per restare nel sonno.
Perdere l’innocenza era come uscire dall’ignoranza e affrontare i fatti che si proponevano, e solo così sarei stata capace di non smettere più di sognare e credere di poter fare qualcosa (anche una piccola cosa) perché, alla fine, tutto conta per cambiare la realtà.

Soltanto oggi riesco a capire che tutto questo vivere ha inciso in un profondo cambiamento interiore, ma in quei giorni ero esclusivamente arrabbiata e convinta che tutti mi avessero chiuso la porta in faccia o che ero stata espulsa dal paradiso per qualche peccato commesso e che non ci fosse più un posto per me, tra la gente.
Non riconoscevo nessun luogo come familiare, sia nel mondo della favela sia in quello di campagna, della città, dell'arte, delle relazioni sociali e questo includeva anche il mondo di Giuliano.

Ogni tanto trovavo la sensazione di essere a casa, della mia vera casa, quando sentivo il rumore delle mie ossa, nell’abbandonare il mio corpo su un divano dopo una giornata piena di lavoro, di incontri con segretarie, di laboratori in luoghi poveri e infine il silenzio... soltanto il profumo del caffè e l’incrociare del mio sguardo con quello di quell'uomo che, muti, ci dicevamo la stessa cosa: “siamo felici di ciò che stiamo facendo!”

Oppure in quel pomeriggio, quando incontrammo un bambino che era stato espulso da un orfanotrofio ed era smarrito.
Questo bambino, da infante, era stato testimone dell'assassinio di sua madre per mano di suo padre ed era segnato profondamente.
La diagnosi dei medici era la conseguenza: portatore di gravi disturbi mentali.
L’abbiamo conosciuto in un orfanotrofio di Atibaia, dove realizzavamo laboratori artistici e avevamo stabilito con lui una relazione di affetto, come succedeva naturalmente ad ogni nostro intervento.
Appena venimmo a sapere che si era smarrito, espulso dell'orfanotrofio e privato di assistenza medica, Giuliano cominciò un lungo pellegrinaggio.
Iniziò a bussare alle porte di tutte le istituzioni, entità e organizzazioni sociali che potessero aiutarlo.
Ma sia le entità che le persone comuni, parevano non essere interessate alla sorte di un bambino ritenuto “colpevole” di essere diverso.
In genere la risposta più consueta era: “purtroppo é cosi!”.

Mi rifiutavo in ripetere anch’io questa frase, desideravo che le cose potessero cambiare in meglio, ma al tempo stesso mi sentivo impotente davanti ai risultati negativi, con la sensazione di fallimento, condizionata da un Mondo sempre piu' sprovvisto di Umanità.
Ancora non sapevo che il Mondo é questo, ma allo stesso tempo tutt’altro.

E allora, in quel pomeriggio, la vita venne nuovamente a mettere sottosopra le mie credenze unilaterali.
Camminavamo verso il mercato, io e Giuliano, e ci raggiunse una voce da un gruppetto di vagabondi della piazza, un richiamo.
Era lui, quel bambino!
E urlando felice i nostri nomi, corse ad abbracciarci.
Lo invitammo con noi ad una passeggiata, per sapere di lui e della sua vita, e di come lo avremmo potuto aiutare, così andammo alla mostra d'arte 30x30, il progetto darearte che riuniva trenta artisti brasiliani e trenta artisti genovesi.
Quel bambino danzava davanti alle opere, ridendo sbalordito per quel nuovo mondo che si era presentato davanti ai suoi occhi al quale, molto, molto difficilmente vi sarebbe potuto accedere.
Sentii che in quel momento, noi stavamo portando un nuovo significato alla sua vita e lui lo stava portando alla nostra.
Anche quella Mostra d'Arte (che per un’omissione dei responsabili non aveva raggiunto il suo vero obiettivo di solidarietà sociale) in quel momento prese Vita e Senso.
Ci congedammo da lui con una foto insieme come fanno i turisti in un viaggio, per ricordarsi di un luogo nel quale non torneranno forse mai più.
E tutti e tre, nel momento dello scatto fotografico, sapevamo che non ci saremmo mai più rivisti, nonostante ci fossimo dati appuntamento al giorno successivo.
Ma in quell’istante nulla era più importante dei nostri sorrisi e dei nostri sentimenti.
Il suo sguardo sorridente ci diceva che, a prescindere di tutte le sue ferite interne e della sue problematiche mentali, c'era ancora un posto integro e puro nella sua Anima, un posto per l’amore e noi eravamo lì semplicemente per ricordargli questo.
E  fu un momento davvero speciale.
Ecco: lì, ero a casa mia.

Molte volte durante quest’esilio, sentivo spesso dubbi, le diffidenze e gli scoraggiamenti per  questo cammino composto di arte e solidarietà.
E molte volte mi lasciavo coinvolgere davanti alle difficoltà e credenze altrui.
In tantissime occasioni, sia davanti alle situazioni di miseria ed assenza di diritti umani e sia nel mezzo di salotti fatti per relazioni pubbliche di cieche competizioni per potere e denaro, mi domandavo se questo avesse un senso.
Perché non dimenticare tutto e andare a vedermi la TV per sempre, mangiando pop-corn senza farmi troppe domande?
Perchè non smettevo di seguire quell'uomo che mi riportava tutto questo scombinamento e mi costringeva constantemente alla trasformazione?

Ricordo che in una discussione con una persona, dopo avermi messo di fronte alle mie scarse risorse economiche e ai miei inutili risultati, mi domandò seccamente:
-Ma Lei pensa di essere capace di cambiare il mondo?
-Si!... Risposi, ma senza alcuna convinzione.

Oggi, anche se ancora in esilio ma molto meno confusa, posso affermare, e questa volta con molta convinzione:
-Si! Sono capace di cambiare il Mondo..., almeno il mio mondo interiore.
E voglio continuare a camminare insieme a quest'uomo, che non ha ancora smesso di scombussolare le mie verità.

Katia

domenica 1 giugno 2014

Capitolo 17 – Favela.


Capitolo 17 – Favela.


Non amo molto volare, rinchiuso dentro quei grandi transatlantici del cielo.
La durata del volo e delle attese, e gli spazi sacrificati all’interno dell’aereo, mi hanno sempre causato la sofferenza sufficente per non vedere quanto sia incredibile raggiungere l’altro lato del mondo al di sopra delle nuvole.
Ma stavo facendo l’abitudine al volo intercontinentale e ormai avevo capito come muovermi.

Arrivai in Brasile in aprile.
Per la mia terza volta.
E allo sbarco mi attende una sorpresa.
I miei bagagli erano stati smarriti!
“Ci dispiace, ma sono stati imbarcati in un altro volo”, mi dissero, pacati, all’ufficio reclami.
Lasciai il mio recapito, dissero di non preoccuparmi e che li avrei ricevuti al mio domicilio.
Ma mi preoccupai lo stesso, senza disperarmi dato che la maggior parte delle 30 opere della mostra che avrei presentato alla città di Atibaia erano con me, nei miei bagagli a mano.

Katia e suo padre mi vennero a prendere all’aeroporto di Guarulhos.
Come tutte le altre volte, al nostro incontro, tenemmo a freno l’entusiasmo, anche se era evidente la gioia di ritrovarci ancora.

L’arrivo alla sede fu una bella sorpresa.
Katia non solo l’aveva accudita, ma anche ristrutturata a nuovo, ridipinta e abbellita con mosaici, e adesso brillava in festa come se, anche lei, fosse lieta di rivedermi.
Che meraviglia, mi sentivo a casa.
Forse per la prima volta in vita mia.

Amai profondamente quella casina.
Era colma del nostro amore e del nostro sudore per costruirla, per renderla bella e accogliente.
E anche in questa permanenza mi occupai di renderla migliore, ristrutturando la parte del retro e arredandola.
Rimase semplice e pulita, viva e aperta, come noi volevamo essere con gli altri, con tutti coloro che ci incontravano o ci venivano a trovare.
Quella sede, quella casa, era parte di noi.

Dopo qualche giorno un corriere bussò alla porta con le valigie ritrovate, promessa mantenuta dalla compagnia aerea, e io tirai un sospiro di sollievo.

Il programma da realizzare in Brasile, questa volta, era davvero impegnativo, un passo in avanti, oltre tutto ciò che avevamo già fatto e sapevamo che nel percorso avremmo incontrato molte cose che avrebbero richiesto altri sforzi, quelli che chiamavamo “progetti aggiunti”.
Erano gli incontri imprevisti nel cammino.
Ossia: darearte partiva con un programma di massima, da realizzare con le forze disponibili e nel fare questo ci si poteva accorgere che nascevano altre richieste, altre possibilità o altre situazioni che volevano o dovevano essere sviluppate.
Ad esempio, attraverso gli incontri con i bambini degli orfanotrofi venivamo a sapere che alcuni di loro erano fuggiti, evasi, e che si rifugiavano in favela, in un quartiere di baracche e violenza che li avrebbe concesso un certo tipo di protezione.
Allora noi si andava là, a vedere cosa era possibile fare, a vedere se potevamo essere utili.
E incontravamo chi era fuggito e ci correva incontro, felice di rivederci, come noi.
Ma mai era nostra la decisione su cosa era meglio fare per loro.
Noi mettevamo noi stessi e la nostra sede a loro disposizione, perché potessero sentirsi meno soli.
Loro decidevano cosa era giusto per loro fare.
Io, di certo, non lo potevo sapere.
Ma ecco che, da questo avvenimento, nasceva il progetto aggiunto, che poteva essere creato all’interno della favela, per avere il contatto con loro che erano i dispersi.
E si inventava su due piedi un modo per dare una possibilità.
Un’altra possibilità.

La favela non l’ho ancora raccontata.
E in effetti solo quest’anno l’avrei vissuta più da vicino, e divenne il mio ingresso in quel mondo che fino ad allora avevo solo conosciuto superficialmente.
La prima volta, nel 2003, la moglie del sindaco mi fece visitare una parte della favela vista dai finestrini chiusi della sua auto, con l’autista che mi consigliava di non aprirli mai, in quella calda mattina di sole.
Il tragitto era per mostrarmi il lavoro compiuto dall’Amministrazione pubblica cittadina.
Avevano fatto di quello che era l’immondezzaio cittadino, una verde montagna.
Il monte di spazzatura era stato ricoperto con terra e ora sembrava fosse una collina, prossima alle centinaia di baracche dei residenti del quartiere.
E l’immondezzaio disorganizzato era diventato organizzato.
Organizzato con un sistema di separazione della spazzatura dove scorreva su un rullo meccanico e decine di persone, praticamente tutte donne, separavano in fretta tutti i materiali.
La puzza di quel posto era per me insopportabile.
Mosche e batteri erano tutt’uno con lo sporco che dominava quel posto, che aveva ancora molto da fare per divenire luogo di educazione ambientale.
Solo per l’occasione della visita, seppi poi, alcuni dipendenti di questa coperativa avevano indosso delle mascherine.
Stavo zitto e osservavo scattando qualche foto di quel luogo, dove l’unico “uomo bianco” era al comando, servile e gentile con la moglie del sindaco.
Era il vanto della città, questo immondezzaio che confinava con il quartiere, anche se a me appariva come una cosa unica.
Era il loro fiore all’occhiello, il vanto dell’ecologia e del riciclo.
Poco dopo, mi accorsi che nella parte dell’immondezzaio che i camion scaricavano i rifiuti urbani, c’erano persone che li raccoglievano.
Per loro stessi, per sopravvivere.
Donne, bambini e uomini che raccoglievano rifiuti per sopravvivere.
Ma questi non avrei dovuto considerarli e io non potevo fare fotografie, mi dissero.
Dei Rifiuti che raccolgono rifiuti.

Nonostante avessi sotto gli occhi molti elementi che mi raccontavano esplicitamente della città, del sistema sociale e della cultura di quel posto, in quei giorni misi da parte quell’esperienza in uno dei tanti cassetti del mio archivio.

Senza saperlo, nel mio primo anno in Brasile, avevo sotto gli occhi, e tutti i giorni, la favela.
Perché era negli occhi delle persone che incontravo.
La favela era presente nel centro benestante della città, minacciosa a pochi isolati da lì, con il suo vento come un alito cattivo che segnalava la sua angosciante presenza.
Era nella paura della gente, che teneva stretta la borsa anche se vuota, che camminava guardandosi attorno con la certezza che sarebbe stata assaltata, prima o poi.
Ma peggio di tutto era nello sguardo dei bambini, nelle loro parole, nei loro gesti.
E loro l’avrebbero imparata e poi insegnata, ancora.
Come sta nel sistema naturale delle cose.

E come in ogni mondo che soffre, in quei mondi si trovano meraviglie, luci, sogni e speranze che possono essere più luminose del sole, più grandi di una galassia intera e possono lasciarci senza fiato per la loro immensa e commovente bellezza.
Ed ecco splendere una stella.
Donna di 33 anni, mamma di 5 figli, di padri diversi, piccola e gracile, dagli occhi immensi.

Questa donna faceva parte del gruppo di madri cucitrici che avevamo sostenuto.
Era una di coloro che avevamo affiancato sapendo della sua realtà difficile e della sua situazione molto delicata, anche per la difficoltà di seguire i propri cinque figli, tre maschietti e due bambine, tutti di una bellezza sconcertante.
I suoi racconti, sulla propria vita, erano davvero difficili da concepire.
Per questo motivo avevamo un attenzione particolare alla sua storia e ci avvicinammo un poco di più a lei, che alle altre madri.
E avvicinandosi, scoprimmo la sua luce.
Spesso occorre approssimarsi alle cose, alle persone, per intuire la loro essenza, per ascoltare la loro fiebile voce, ormai sepolta, ormai soffocata dai rumori e dalle imposizioni del mondo circostante.
E allora ci possiamo meravigliare.
E allora possiamo incontrare realmente chi ci sta di fronte e finalmente essere connessi.

Tania aveva paura.
Tutti i giorni, ogni giorno, aveva paura.
Ma la sua paura aveva fatto il suo coraggio, di potercela fare, nonostante la follia che la circondava.
La vedemmo in condizioni orribili, picchiata a sangue dal suo compagno, ma sempre in piedi, con la dignità di una Regina che doveva badare al suo regno, ai suoi cinque piccoli fedeli, che contavano su di lei e solo su di lei.
E lei, per loro, c’era sempre.
Forse c’era meno per se stessa, naufragando in quel mare in continua tempesta, dove i morti bussavano alla porta e restavano lì fuori, fino a che qualcuno non li portasse altrove, forse seppellirli in quell’immondezzaio a pochi metri dalla sua casa.

La sua casa.
Una delle cose che mi colpirono maggiormente in Brasile, fu conoscere la sua casa. Non dovrebbe esistere un sistema che osi definirsi “sociale”, un sistema che sventoli termini come “cittadinanza”, “sviluppo”, “prevenzione sanitaria”, “educazione”, “diritti umani”, “dignità del proprio popolo”, “solidarietà” e permettere che una famiglia di 7 componenti, di cui 5 di età inferiore ai 9 anni, di vivere nelle condizioni che avevo solo intravisto.

Come tante madri della favela, lei era l’unico riferimento dei propri figli che crescevano senza padre, avendo come unico modello da seguire il leader del quartiere o quello che vendeva la televisione.
Entrambi dubito siano un buon esempio di stile di vita.
Il primo inseriva in una vita a breve scadenza, dove le prospettive erano il carcere o la morte, e la seconda era una penosa illusione senza uscita.
Ma in certi ambienti, le opportunità sono davvero misere, anche se le meteore appaiono in ogni cielo.
Ci siamo sentiti meteore, cercando di offrire alternative, lavori e diversivi, ma la nostra era solo un indicazione, non potevamo mai farci carico della vita del nostro prossimo.
E in molti sappiamo quanto questo sia doloroso, guardando gli occhi di un bimbo, che in te può intuire una via di uscita.

E quanti occhi di bambini abbiamo incontrato.
In quanti si sono chiesti da dove arrivavamo, con i nostri buffi modi di fare, tanto diversi.
E che cosa avessimo poi da sorridere, sempre, tanto da essere contagiosi.
Chissà quali domande passavano per la testa di molti di loro.
Ho ancora con me lettere d’amore che adolescenti mi hanno scritto, come omaggio della nostra presenza.
Ho ancora in me, tutti i bambini che ho incontrato.

E i bambini delle bambine?
A undici anni si può essere madri?

Quando uscii dalla mia prima vista da un’entità che accoglieva bambine madri, rimasi come in stato confusionale.
Avevo visto bambine con figli.
Non di plastica, ma di carne e ossa che piangevano invocando latte materno.
L’entità accoglieva bambine per prepararle al parto e assisterle per i primi mesi subito dopo, essendo tutte provenienti dalla favela, in stato di carenza di ogni cosa.
Bambine che restano incinte da amici, familiari, vicini, sconosciuti.
Preparate ad essere madri dall’entità, che le accoglie ed aiutano solo ed esclusivamente se accettano di portare avanti la gravidanza.
A undici anni.

Per quell’entità raccogliemmo fondi, realizzammo e donammo un video che raccontava e promuoveva il loro intento e facemmo corsi alle bambine per sensibilizzarle al meraviglioso evento che le attendeva.
Quelle bambine le incontravamo nei vicoli di fango della favela, insieme ai figli senza genitori, evasi dagli orfanotrofi, insieme ad altri abbandonati ed emarginati.
E i figli di quei figli nascevano in questo cerchio, all’interno di un ciclo che non voleva spezzarsi, in quei vicoli ciechi di quell’interminabile giostra che è la favela.

E proprio in questo luogo, proprio nella favela, incontrai un uomo nero come la pece, di quasi 50 anni, padre di più di 25 figli (quelli riconosciuti, mi disse), leader religioso di una parte della comunità della favela, centro di riferimento per molti e “maestro di vita”, in favela.
Mio caro amico, ti ricordo con grande affetto.
Grazie a lui imparai a conoscere meglio quel mondo e ad entrare ancor di più nel suo intestino, fino al limite a me concesso.
Con lui, realizzai diversi progetti importanti e determinanti per i nostri reciproci sviluppi.
Lo scambio tra noi fu molto generoso, eravamo maestri uno del’altro, aiutandoci nel comprendere le nostre diverse realtà e mettendoci in condizione di migliorare i nostri sforzi.
Nella prima occasione del nostro incontro, offrii una donazione alla sua associazione.
Si trattava di un filmato che avremmo successivamente divulgato in un evento da noi organizzato.
Questo avrebbe dato la visibilità locale alle attività sociali della loro entità.
In teoria, era un’associazione di beneficenza per i residenti della favela, ma che non aveva più come proseguire il loro intento.
Si occupavano di raccogliere alimenti scartati da tre o quattro supermercati della città, che avrebbero selezionato e suddiviso in ceste e poi donato a coloro che si avvicinavano alla loro associazione, che aveva anche un carattere religioso.
Avevo capito più o meno, sul loro progetto, ma non sapevo esattamente a cosa sarei andato incontro il giorno che chiesi al mio compagno se potevo salire sul camion con lui per il quotidiano giro ai supermercati.
Così, con la mia piccola telecamerina, mi sedetti al suo fianco e partimmo per la raccolta con tre donne aiutanti sul grande cassone.
Capii che questo leader sapeva il fatto suo e sapeva comandare come pochi avevo visto fare.
Al termine della raccolta e tornati alla sede, ci fu la suddivisione degli alimenti, la pulizia del camion e la divisione delle parti con chi aveva lavorato, essendo che nessuno aveva compenso da questo, ma poteva avere la precedenza sul migliore raccolto.
Poi tutto veniva esposto al pubblico, che ritirava il biglietto e, al giusto momento, lo riconsegnava al leader che, al microfono, permetteva l’ingresso.
La gente poteva prendere una borsa intera di cibo, gratuitamente, il tutto in mezzo a milioni di mosche e con un sottofondo di musica evangelica.

Ricordo che, in un momento di questi, ebbi un’impressione, che durò come un flash di un fotoreporter.
Mi resi conto di essere lì.
Fu come un colpo sordo che mi stordì.
Ero lì, dove mai ero stato prima, in un luogo che aveva dell’incredibile, in un mondo che mi era completamente sconosciuto.
Ero nel mezzo di un articolo fotografico del National Geografic che avevo visto tanto tempo prima.
Non avrei mai potuto capire cosa volesse dire essere lì realmente, se lo avessi visto esclusivamente attraverso le pagine brillanti di una bella rivista fotografica.
Ero in mezzo alla puzza insopportabile, a insetti molesti e a cani randagi malati, a un’insostenibile nenia religiosa e a persone che potevano anche ammazzarmi per prendere quel poco che avevo addosso.
Io ero lì.
E la puzza diventava l’odore naturale delle cose, gli insetti e i cani randagi erano cornice e parte integrante del luogo, la musica la colonna sonora di quei momenti e in verità nessuno mi avrebbe mai torto un capello, perché ero uno di loro anche io, in qualche modo.

Registrai ciò che potevo e nacque un piccolo video, che più avanti presentammo in un evento organizzato in uno spazio pubblico concesso dall’amministrazione pubblica di Atibaia.
A quell’evento vi era una rappresentanza della favela, alcuni figli del mio compagno, sua moglie e alcuni personaggi che riuscimmo a convincere di far parte del pubblico.
Poco prima dell’inizio dell’incontro, a sorpresa, entrò un tizio dall’aria un pò troppo decisa e arrogante, che mi strinse la mano in maniera eccessivamente forte.
Era l’uomo più ricco della città.
Ed era candidato alle elezioni politiche come sindaco.
Un argomento nuovo per me e un’altra lezione che stavo per imparare, in Brasile.

Ebbene, il film che presentammo fece commuovere il nostro pubblico e poi parlammo un poco per presentare l’entità di Clodoaldo.
L’uomo più ricco della città chiese quale fosse la necessità primaria e il nostro amico leader rispose che il camion, quello che si vedeva nel film, si era bloccato e in condizioni infelici, ridotto a un rottame non sarebbe stato possibile continuare con la raccolta degli alimenti.
Ebbene: l’uomo più ricco della città mise a disposizione la propria attrezzata officina per la ristrutturazione completa del camion!
Il valore donato era davvero molto, molto alto, e io chiusi con gioia l’evento, preoccupandomi di seguire e essere testimone di tale donazione.
E il donatore mantenne la parola.
Il camion fu rimesso completamente a nuovo e il mio caro amico era felice.
E io ancor di più.

Pensai che proprio questo fosse il mio lavoro.
Pensai che era un miracolo che era accaduto grazie a ciò che avevo collocato nelle immagini del film, creato senza strumenti che si fanno chiamare “professionali” e senza alcuna preparazione, ma con l’unico ingrediente fondamentale quando si vuole realmente fare: l’amore.
Amai con tutta l’innocenza possibile il lavoro di questo leader e il mio lavoro di testimone e questo si avvertiva nelle riprese.
Ero tanto felice che non pensai di fare altro nella vita.
Ero diventato un videomaker, finalmente, il lavoro dei miei sogni!
Avevo realizzato un sogno per qualcuno, per forse molti, e si era realizzato il mio più irraggiungibile.
Non ci credevo, tanto ero al settimo cielo!
Potevo adesso continuare?
Ero apparso in pubblico, mi avevano visto, sentito, avevo creato, realizzato un film, avevo commosso, ricevuto applausi, raggiunto un obiettivo straordinario!
Potevo credere in me, adesso?   Si. Finalmente, si.

Di queste due persone semplici, questa donna e quest’uomo, potrei scrivere moltissimo.
Frequentai entrambi, per motivi diversi, fino al giorno che lascerò Atibaia.
Loro rappresentavano, per me, l’altro lato del fiume, o meglio, l’altro lato della strada che divideva la città in due diversi stili di vita.
Loro due sono universi dei quali ho potuto visitare solo un brevissimo tratto, da pianeta a pianeta, senza potermi avventurare di più, ma sempre con la consapevolezza della dimensione infinita di ciò che si nascondeva oltre quello che era a me concesso visitare.

Sebbene oggi, non sappia più nulla di loro, li conservo con me come due splendide perle nere, preziosi compagni di un viaggio senza fine.


Giuliano

domenica 25 maggio 2014

Capitolo 17- Favela


Capitolo 17- Favela


Indifferente a qualsiasi cosa che potesse accadere sulla faccia della Terra, la Notte ed il Giorno continuavano a susseguirsi, le formiche continuavano a raccogliere le piccole parti di cibo cadute per la strada, il gatto cacciava il topo, mia zia pregava i Santi ed io, con pazienza e fedeltà, aspettavo il ritorno di Giuliano, così come i portoghesi hanno atteso il loro Re Sebastiano.
Fino ad oggi il Re portoghese non ha ancora fatto ritorno dalla Guerra Santa, mentre quell’uomo stava sicuramente per arrivare.
Dopo tre lunghi mesi, mancavano adesso pochissimi giorni al suo rientro ed io correvo senza fermarmi, per sbrigare mille faccende, tutte inutili.
Stavo preparando delle piccole sorprese, dovevo finire il nuovo mosaico di galline nella cucina, avevo dipinto nuovamente l’intera facciata della sede e aggiunto un altro mosaico alla finestra, cucito tutte le federe colorate per ogni sedia, costruito una rete anti-zanzare, piena di rose bianche (bella, ma non molto efficace, perchè pareva che le rose bianche piacessero anche alle zanzare).
Andavo anche alla ricerca di ricette e di ingredienti per preparare pietanze saporite, anche se non sapevo affatto cucinare.
Tutte queste erano le mie priorità, alle quali mi dedicavo allegramente.
Molto meno allegramente mi impegnavano gli incontri burocratici per le questioni dell’associazione.
Confesso che lo facevo solo perché non esisteva nessun’altro che lo potesse fare al posto mio; evidentemente non apparteneva alla mia natura.
Ero sempre distratta e non vedevo l’ora che ogni riunione finisse, per essere finalmente libera.
Spesso i miei sensi si addormentavano e solo dopo molte ore capivo ciò che era accaduto.
E accadde questo anche quando consegnai il progetto proposto da Giuliano, per la mostra 30x30, al Segretario della Cultura di Atibaia.
Ero soddisfatta e sorpresa della sua generosa accoglienza ed immediata disponibilità nel realizzare quest’interscambio.
Ero tanto felice che mi sfuggì un piccolo dettaglio: il Segretario non avrebbe chiesto agli artisti la donazione delle loro opere d’arte.
Solo molte ore dopo realizzai la questione, con il solito disastroso ritardo.
Senza una partecipazione solidale alla mostra, quale senso avrebbe avuto?
Pensai di ritornare subito alla Segreteria ed impormi sul fatto che senza questa donazione la mostra non si poteva realizzare.
Ma rimasi immobile come una pietra.
Il Segretario conosceva Atibaia tanto quanto me e sapeva benissimo che se avesse imposto l’obbligo della donazione, pochi artisti avrebbero partecipato e forse si sarebbe rischiato un boicottaggio.
La paura bloccò tutto il mio corpo.
Sapevo che tutti gli artisti italiani avevano già donato la loro opera e ci contavano con la realizzazione dell’evento.
Nel dubbio non feci nulla e scelsi di aspettare l’arrivo di Giuliano per risolvere questo infelice “dettaglio”.

Ma quell’uomo arrivò dentro ad un uragano.
Afferrai al volo l’intensa felicità di rivederlo, per poi essere trascinata via nella sua tempesta.
Per cominciare, la compagnia aerea del suo volo aveva perso il suo bagaglio e per diversi giorni abbiamo vissuto come funamboli, finchè le valigie non furono ritrovate e riconsegnate a domicilio.
Comunque fosse, lui subito cominciò a muoversi per la città.
Aveva mille idee, tanta energia e poco tempo.

Scoprimmo che il progetto delle madri-cucitrici della favela, di realizzare una cooperativa grazie a un promesso sostegno del Comune, era fallito, e molto si deve al fatto che il loro gruppo non era riuscito a formare un vero e proprio collettivo e, senza questa sinergia, non potevano affrontare le forze ostili.
Continuammo a restare vicini a loro per creare delle attività di sostegno e, in particolare, stabilimmo un legame con una di loro, quella alla quale luccicavano gli occhi ogni volta che pensava di cambiare la propria vita.
Attraverso questa donna abbiamo veramente conosciuto quel quartiere estremo e raggiunto tanti bambini.

Lei era una porta di quel mondo parallelo, per noi irraggiungibile, e grazie alla sua ospitalità e conoscenza cominciammo a intravedere una misteriosa tessitura.
Tutti i bambini degli orfanotrofi, la maggioranza delle adolescenti-madri di una “Casa di Accoglienza”, tutti i giovani disadattati, insomma tutte le persone che darearte conosceva, avevano un destino in comune: appartenevano a quella favela.
E un disegno invisibile si formò ai nostri occhi: le ragazze abbandonate e prive d’ogni diritto, in tenera età partorivano i loro bambini, che sarebbero a loro volta stati abbandonati e accolti da orfanotrofi o mantenuti in favela, cresciuti in mezzo alla povertà e alla violenza per poi, adolescenti, diventare precoci genitori di altri bambini…
In tutto questo tempo dedicato alle Entità di accoglienza e agli orfanotrofi, soltanto adesso eravamo giunti a vedere con chiarezza l’origine di quel cerchio senza fine.
Eravamo sbalorditi e come dice un detto: “Quando si comprende qualcosa, arriva il Maestro”.
Fu cosi anche per noi.
Un giorno in un bar, Giuliano conobbe un uomo perso e questo, improvvisamente, decise di regalargli qualcosa.
Dalla sacca del suo immenso vuoto, estrasse una perla: gli presentò il “Maestro”.
Al contrario di quelle figure di “Maestri” con la barba bianca e lunga, con il viso impassibile, investiti da poteri sconosciuti e improbabili, il nostro era un vero “Maestro” semplicemente perché aveva con sé le chiavi giuste per tutto quello che stavamo cercando in quel momento.
Era alto, con la pelle nera, imponente e con una voce da basso tenore.
Girava per la città con un camion blu per raccogliere i residui di viveri dei supermercati e merce scaduta.
Gli veniva concesso perché, oltre ad essere utile perché puliva gratuitamente il retro dei grandi magazzini, era colui che eliminava ciò che non era più possibile vendere.
In verità non esisteva la minima solidarietà da parte dei supermercati.
Il suo compito era caricare il massimo possibile dei resti raccogliendo anche cartone e altri materiali di scarto.
Lo faceva sorridendo, con grande eleganza ed intraprendenza.
Ritornava alla favela e nella sua casa-baracca sistemava il raccolto per poi distribuirlo in gran parte alla gente, armato di un microfono, di una musica di fondo e della parola di Dio.
Era un curioso spettacolo da vedere.
Le verdure raccolte per terra, i legumi già abbastanza sofferti, i succhi di frutta, sughi e altri prodotti industriali tutti scaduti e tanta gente che arrivava da tutte le parti del quartiere e in continuazione, per prendere un pò di quel prezioso tesoro.
Il panorama era desolante, il garage dove venivano radunate le merci era pieno zeppo di topi che gironzolavano intorno ai cani randagi che non si potevano più definire cani.
E lo stesso valeva per quelle persone, prive di diritti umani.

Il nostro “Maestro” aveva tante ambizioni e molti altri progetti.
Con l’aiuto di un farmacista voleva raccogliere anche le medicine scadute, per distribuirle gratuitamente.
Era fertile, non solo di idee e azioni, ma aveva anche un numero incredibile di figli, tutti sparsi, e tante donne diverse.
Lui, per me, era la personificazione del Brasile.
Forte, pieno di risorse, fertile, generoso, solidale, ma povero, violento, arrabbiato perché privo di possibilità per realizzare e per questo abbandona i propri figli al loro destino.
Giuliano era affascinato da quest’uomo.

  
Katia




domenica 18 maggio 2014

Capitolo 16 – Fiducia


Capitolo 16 –  Fiducia

E’ un freddo giorno di gennaio del 2006, quando Katia si deve preparare al suo ritorno in Brasile.
I bagagli che porterà con sè sono le opere dei suoi concittadini che, molto pesanti, renderanno poco confortevole il suo viaggio.
L’accompagnai a Milano in treno, la sera prima del volo previsto per l’alba.
La lasciai sola in tarda serata, a malincuore, per l’ennesimo sacrificio al quale era sottoposta.
Vederla affrontare gli ostacoli e le proprie paure, mi procurava due emozioni distinte.
Una era quella di essere felice di avere a fianco una donna di tale fattura, generosa e coraggiosa.
L’altra era procurata dalla consapevolezza del mio limite nel proteggerla, che mi causava preoccupazione per lei, che cercavo di dissolvere confidando nelle sue capacità.
Non sempre ci riuscivo.
Sapevamo che l’avrei raggiunta dopo pochi mesi, ma quel giorno io ritornai a Genova e lei ritornò ad Atibaia.
Eravamo nuovamente separati dall’oceano.

Molto del tempo che trascorsi in attesa di ritrovare Katia, lo passammo comunicando al telefono e attraverso internet.
Qui di seguito, ci sono due delle nostre e-mail nella loro versione originale, scritte e inviate poco dopo il suo arrivo in Brasile, che possono essere interessanti ai fini del racconto per osservare più da vicino un piccolo frammento di quel nostro particolare momento:

GIULIANO: inviata il 10/01/2006

- Leggo la tua bella lettera di sole e non riesco a rispondere con la luce, ma con le solite tenebre che qui in questa città d'italia mi oscurano il cuore.
Sono in un brutto studio fotografico, pieno di energie dolorose e con il cane “Briciola”.
Abbandonati entrambi dalla luce del sole.
Qui un solo termosifone scalda i nostri peli.
Come spesso accade, mi sono alzato con il peso del corpo che appariva di altre atmosfere, pesante e rigido.
Come molti altri giorni mi sono rallentato.
La tua presenza non ha nessun tipo di influenza in questo, e nemmeno la tua assenza. Come si sapeva, non è più merito di nessuno o colpa di chissà chi, se noi non abbiamo forze.
Forze che si scatenano in rabbie e malattie interiori se non spostano ciò per le quali sono state create.
Il loro sforzo si moltiplica e l'attrito che si crea diviene insopportabile alla mente di un uomo.
Così la notte leggo.
Così il giorno cerco giustificazione perchè non riesco a spostare il corpo.
La mattina mi alzo tardi.
E non ho avuto il tempo di fare le cose che il giorno prima mi proponevo a gran voce di fare.
Strano l'atteggiamento di questo "guerriero" di terre desolate.
Strano, ma davvero sta combattendo.
Scrivendo queste parole, lotta con le sue forze che sembrano sempre essere le ultime.
Lamentando come solo un genovese sa fare, difende la propria pelle dagli attacchi feroci dei propri morsi.
E continua nell'assoluta cecità un viaggio di inspiegabile dolore.
Le soluzioni sono a portata di mano, è vero, ma chi ha le mani tremanti per una innata timidezza, per un’artrosi deformante o per un morbo mortale, non ha facilità nel raccoglierle.
Credo fermamente che, in questo, stia molto della bellezza della vita.
Conto molto su di te.
Che stai riacquistando fiducia e energia per muovere le cose del mondo.
Conto su di te per continuare un percorso fatto di Amore.
Conto su di te perchè sei Katia, in queso mondo, in questa Epoca, in questa Vita.
Conto su di te.
Per Amore.
Andiamo avanti.
Io non mi fermerò.
Non mi fermerò Mai.
Un piccolo soldato in terre di conquista.

KATIA: inviata il giorno successivo, 11/01/2006
Ho appena letto la tua e-mail…
Non ti posso dire altro che puoi contare su di me per tutto, lo sai…
Lo sai anche che se potessi io,  ti scaldavo il cuore, ma non so come fare...
Soltanto posso pensarti con amore e mandarti pensieri di affetto,
Sappi che ti amo tanto e mi muovo qua per prepararti tutto di bello per quando arrivi. Per te, per me, per tutto quanto vogliamo fare.
C´e da dire che qua per me é piu´facile, con questo caldo e con l’energia del Brasile, non perché é un posto più buono, che chissa chi, ma perché é la mia casa… riconosco le montagne e l´odore che mi dà forza e vado avanti.
Non ti preoccupare, se puoi, continua come puoi fare.
Ci siamo.

In Italia, una volontaria darearte di Torino chiese di realizzare un’esposizione delle opere di Katia, i volontari darearte di Teramo chiesero di realizzare una promozione delle attività dell’associazione e un volontario darearte di Genova chiese di realizzare una promozione delle attività darearte all’interno dei grandi stabilimenti dove lavorava.
Sono profondamente grato a tutti coloro che si sono esposti e si sono attivati, con la fiducia e con il rispetto per ciò che stavamo creando.
Sono profondamente grato a tutti coloro che hanno risposto, che hanno detto con sincerità: “si, Vi credo” perché ci hanno dato la forza per continuare.

La fiducia era il tassello, di me, più delicato che potevo esporre.
Nell’esperienza di darearte mi sono dovuto confrontare con la fiducia del prossimo nei miei riguardi.
È stato molto arduo, molto difficile, questo confronto.
Fino al giorno che capii che la fiducia non doveva arrivare dagli altri.
Era una questione che dovevo risolvere in me.
Io avevo la necessità di fidarmi di me.
Io dovevo imparare la fiducia.

Si può immaginare quanto si può soffrire, se centinaia di sguardi estranei sono diffidenti e avversi perchè vuoi fare qualcosa per qualcun altro, gratuitamente.
Per molti, crederci è davvero difficile, posso anche capirlo.
Infatti non critico nessuno di quei commenti o, peggio, di quei silenzi insinuanti che riuscivano a creare dubbi anche in me stesso!
A volte, pensai che ciò che stavo facendo era una menzogna.
Perché credevo in quelle voci e in quei silenzi, e dimenticavo di me e di ciò che realmente stava accadendo.
Lasciamo le voci e i silenzi oscuri fuori di noi, perché questi abissi non ci appartengono.
Facciamo della nostra Casa solo ciò che vogliamo essere, liberi dai rumori e dai sussurri.
Restiamo sotto la luce della nostra Casa, del nostro reale Sogno.

Raggiungere questo equilibrio fu il primo passo per affrontare l’avventura del progetto che chiamai 30x30.
Grazie a un momento di follia visionaria, decisi di portare con me, in Brasile, 30 artisti di Genova; non fisicamente ma attraverso le loro opere, per rappresentare l’Arte della mia città natale dall’altro lato del mondo.
Attraverso Katia, chiesi ospitalità ad Atibaia per la realizzazione di una mostra di questo calibro, che avrebbe visto 30 opere di genovesi, del formato di 30cm.x 30cm., apparire nel nuovo Centro di Convention, la nuova Pinacoteca d’Arte, fresca i inaugurazione.
Non solo ottenni il consenso ma, con il Segretario della Cultura, si creò su due piedi un incontro d’arte con altri 30 artisti della loro città!
Ero entusiasta anche perché, avevo messo bene in chiaro, che i partecipanti all’esposizione avrebbero avuto l’obbligo di donare l’opera presentata ai fini di una raccolta fondi per darearte continuare i progetti in Brasile.
Arte, solidarietà e interscambio internazionale, cosa volevo di più, a soli due anni dalla fondazione dell’Associazione?

Con questo entusiasmo, invitai artisti conosciuti e non, maestri e allievi, ai quali sono riconoscente per la loro generosa disponibilità e fiducia nel progetto.
Trenta artisti, non tutti genovesi, ma tutti abitanti di Genova, uniti per un’esposizione collettiva in Brasile, attraverso un progetto di solidarietà.
L’arte può essere solidale.
Dipende dagli artisti.
E dalle occasioni che, come già ho detto, non esistono.

Il criterio scelto per la selezione dei 30 artisti, l’ho lasciato al mio istinto.
Con lui mi muovevo per il centro storico, esplorando atelier e incontrando creatori d’arte, di diversi generi e caratteristiche, ed il viaggio che intrapresi per questa ricerca fu davvero un’avventura.
Uno solo dei 30 non era quello che viene dichiarato artista ma un architetto, un famosissimo architetto.
Oserei dire l’Architetto per eccellenza, essendo stato premiato anche con un Nobel!
Il suo studio è situato nel lungomare di Genova e per me, suonare al suo citofono per chiedere la sua partecipazione, fu un attimo.
E devo dire che la risposta positiva fu davvero una sorpresa piena di gioia.
Una bozza del disegno originale del bigo, l’ascensore del centro di Genova, da lui creato, faceva ora parte delle 30 opere del nostro progetto!
E tra gli artisti che parteciparono, voglio menzionare colui che incontrai poco tempo prima che scomparisse, a 86 anni, nel gennaio del 2007.
Il maestro Emanuele Luzzati, che generosamente si dispose a lasciarmi un’intervista in video e alcuni disegni donati per la mostra.
Grazie Maestro.

Giuliano

domenica 11 maggio 2014

Capitolo 16 - Fiducia


Capitolo 16 - Fiducia

Il volo per il ritorno in Brasile, partiva alle sei del mattino da Milano.
Giuliano non aveva più la sua macchina perciò dipendevo unicamente dai treni, per arrivare all’aeroporto di Malpensa.
Però, come Cenerentola, anch’io ero prigioniera degli orari.
Non esisteva nessun treno che partisse da Genova verso Milano capace di farmi arrivare in tempo all’imbarco.
Non volevo perdere l’ora e vedere i miei vestiti diventare stracci e la mia carrozza trasformarsi in una zucca: una zucca con il tempo scaduto dalla Legge italiana!
Una zucca clandestina!
L’unico modo era partire da Genova la sera prima e questo significava dover passare tutta la notte all’aeroporto, con tutto quell’ingombrante bagaglio, e da sola.

Ormai non mi spaventavano più le porte che si aprivano da sole, nè le commesse italiane con il mento rivolto verso l’alto, che nervosamente sistemavano le rumorose tazzine di caffè.
Piano piano, cominciavo a capire quel mondo strano e poi avevo comunque passato uno splendido soggiorno in quel Paese tanto amato.
Insieme a quell’uomo avevo realizzato delle cose talmente belle che potevo permettermi un ultimo piccolo sacrificio.
Eravamo insieme in treno ed il paesaggio diventava sempre più brutto, man mano che ci  avvicinavamo a Milano.
Anche le persone diventavano sempre più grigie.

Giuliano aveva un pò di preoccupazione per la mia nottata all’aeroporto, ma tutta la sua concentrazione era rivolta ai progetti da svolgere in Brasile e si mise a raccomandare su tutto ciò che avrei dovuto fare al mio rientro.
Dopo il risultato positivo della mostra dei cinque artisti brasiliani a Genova, lui era pieno di coraggio e adesso voleva realizzare un interscambio ancora più grande: trenta artisti brasiliani e trenta genovesi riuniti in una mostra per scopi solidali.
Inoltre avremmo dovuto realizzare la mostra di “Sotto il cielo, Nuvole” nella gigantesca Città di Sao Paolo!
Sarebbe stato un passo importante per la nostra associazione e per lo sviluppo della nostra creatività.
Dovevo preparare tutto questo, prima del suo ritorno ad Atibaia previsto per l’aprile successivo.
Ma non sentivo nulla di quello che lui mi diceva.
Vedevo solo il movimento dei suoi baffi e sembrava veramente che fossimo come due trapezisti di circo che saltavano a vicenda.
Saltavamo da un Paese all’altro continuamente, con un oceano in mezzo e senza la rete di protezione!

Quando lui mi lasciò, quell’aeroporto divenne immediatamente brutto e avrei voluto corrergli dietro, ma questo impulso durò un attimo, poi la mia follia si calmò.
Sentii allegria per il mio coraggio perché era la prima volta che non avevo paura.
Da sola, cominciai a ridere della nostra storia.
Era la più strana storia d’amore che avevo mai vissuto, tra aeroporti, treni, olive e favelas brasiliane.
Una storia che mi procurava non solo un grande sviluppo personale, ma anche quello economico, perché ogni anno dovevo avere i soldi sufficienti per un nuovo biglietto aereo!
Senza contare le spese per le telefonate internazionali!
Nulla poteva oscurare quella felicità, per quello che stavo facendo, in quel momento.
Avevo una vita piena di sfide ed un lavoro capace di realizzare dei sogni collettivi.
Nemmeno le difficoltà, come le crescenti ostilità nella mia città, la convivenza con il fantasma della “Signora del Danubio”, le mie sensazioni di inadeguatezza ed i naturali conflitti relazionali con quell’uomo, erano sufficienti ad ostacolare il mio camminare.
Ero felice e riuscii a dormire abbracciata alle opere degli artisti brasiliani, da me custodite.

Appena arrivata in Brasile mi recai subito a Sao Paolo, per un appuntamento con l’Istituto Italiano di Cultura, un’ente collegato al Consolato Italiano in Brasile.
Camminavo con un mescolare d’allegria e paura.
Quando arrivai davanti al portone d’ingresso, non riuscii ad entrare.
Prima dovevo convincere il mio cuore a pulsare normalmente, mi sembrava che tutti potessero sentirlo da lontano, tanto era scombussolato.
Nonostante fosse un incontro di conferma per la realizzazione della mostra (Giuliano aveva già incontrato il responsabile in precedenza), fu per me molto difficile.
In quel luogo l’aria aveva l’odore del potere e, in un siffatto posto, non erano minimamente apprezzati i modi goffi e clowneschi di una persona, non era ammessa nessuna debolezza.
Comunque, e non so come, riuscii a raggiungere il mio obbiettivo!
Mi confermarono che la mostra si sarebbe fatta e fissarono un nuovo appuntamento con Giuliano, stabilito al suo arrivo a Sao Paulo!
Corsi fuori e saltellavo per la strada, ricolma di gioia!
E senza calpestare nessuna delle tante persone che dormivano per terra.

Mentre aspettavo l’autobus per il ritorno ad Atibaia aprii un giornale ed ebbi uno shock!
Il padrone del Circo, del mio Circo, quello che avevo inseguito per tutta l’Italia, il mio maestro, che ho sempre desiderato rivedere, in quel momento era a Sao Paulo per una serie di spettacoli!
Ed era ospite a casa di una mia vecchia amica dei tempi dell’università, che ora si occupava di produzione teatrale.
Era arrivato il momento di un lungo ed attesissimo incontro!?
Appena arrivata a casa, mi feci un bagno di rose bianche per calmare il cuore.
Erano cinque anni e mezzo che aspettavo di rivederlo, male ci riuscivo a credere!
Presi il telefono e mi cadde dalle mani, per il tremore.
Respirai e riprovai nuovamente.
Chiamai.
Rispose lei, la mia amica, con una voce dolce di plastica e metallo, e mi sembrò un’infermiera monosillabica, e poi attesi per un intervallo infinito: lei lo stava chiamando!
Sentii un mormorio, poi i passi di qualcuno che si avvicina e ancora un suono più vicino…pensai di buttare giù il telefono per la paura, ma per prima arrivò la voce del padrone del Circo.
Aveva un tono seccato e, in pochi secondi, mi congedò.

Rimasi con la cornetta in mano, per un tempo sospeso dal tempo.
Nella mia testa la sua voce seccata si contrastava a quell’altra, quella dei miei ricordi, quando sulla pista del circo annunciò che l’anno seguente avrebbero pagato, loro, il mio biglietto aereo affinché potessimo ritornare insieme e ridare al pubblico tanta gioia, come già avevo fatto.
Tutto il pubblico e loro stessi, applaudirono emozionati ed io piansi senza ritegno.
Adesso piangevo nuovamente, ma non di gioia, ma per lo schianto al suolo, senza preavviso.
E’ stato necessario un lungo tempo per rielaborare questa esperienza e cogliere la sua perla di saggezza, e ce l’ho fatta.
Come diceva mia nonna materna: “prima o poi, tutto esce nella cacca.”

Comunque, in quell’esatto momento, anche se molto confusa, intuivo che ero davanti a qualcuno che si era lasciato travolgere dalle acque del Potere.
E proprio nello stesso anno, avrei vissuto un impattante viaggio attraverso le forme del Potere.
Nei trecento giorni a venire, avrei conosciuto questa strana forza capace di mutare le persone e tutt’intorno.
Quante cose belle sono state stroncate davanti al desiderio di Potere.
Quante città inginocchiate davanti alla figura e ai desideri di un Sindaco, o piegate dagli interessi di un gruppo di poche persone.
Quante “favelas” esistono  in conseguenza a questo sistema di cose.
E, dentro le baracche, presto si impara a riconoscere e utilizzare il potere per sopravvivenza, sia con la via della violenza, sia con quella della religione.
Quanti progetti di arte deviati, appassiti, distrutti per i capricci di un singolo o di un pugno di artisti, di direttrici, di “responsabili” che comandano gli spazi e le attività.

Nel 2006 la nostra associazione ha fatto grandi passi di crescita.
E’arrivata a relazionarsi con importanti Entità, Amministrazioni Pubbliche e organizzazioni.
Ed è entrata nel fondo del cuore della favela.
Noi due abbiamo conosciuto tante persone ambiziose e ossessionate dal Potere.
Abbiamo scoperto, con amarezza, le forme meschine di potere presente in Enti “Filantropiche”, nelle scuole, in organizzazioni che vantavano scopi umanitari.
E, devo ammettere, anche noi siamo stati attratti da questa “forza”.
Così, ad un tratto, ci trovammo ad un bivio.
E scegliemmo l’aspetto positivo, del Potere.
Il potere come forza motrice, creativa e selvatica capace di connettere e non dividere le persone. Quello capace di creare, e non distruggere la Vita.
Quello capace di Umanità, di essere collegato con i desideri profondi delle Anime.
Questa scelta è stata decisiva per il futuro dell’associazione.
Con questo principio perdemmo tanti “amici” e collaboratori lungo il cammino e così come perdemmo le opportunità per un “prestigio sociale” e sostegni economici.

Ancora oggi, quando prendo un caffè insieme a Giuliano, lo guardo mentre lui non mi vede e mi sento felice per le nostre scelte.
Vicini e avvolti dal fumo delle tazzine bollenti, nel nostro silenzio condiviso, vedo che abbiamo perduto tanto, ed è stato fantastico perché, se non avessimo fatto questo, non avremo mai imparato a vivere.
Senza questo, non ci sarebbe rimasto nessuno spazio per l’Amore.


Katia