INFORMAZIONI SU QUESTO LIBRO-BLOG

Questa storia narra di dieci anni vissuti da Katia e da Giuliano.
Il racconto è un "binario", costruito a "doppi capitoli", scritti individualmente dai due autori.
Ogni anno raccontato, dal 2003 al 2013, racchiude cinque capitoli, al termine dei quali,
si conclude un paragrafo e sono pubblicate delle immagini inerenti gli stessi capitoli.
Il libro, nel suo complesso, avrà pertanto 10 paragrafi, composti da 5 doppi capitoli ciascuno.
La pubblicazione di ogni nuovo capitolo avviene senza un tempo determinato, essendo attualmente in fase di creazione.

p.s.: non possiamo essere responsabili della traduzione tramite google che, purtroppo, risulta NON essere completamente compatibile con il testo originale in lingua italiana.

contatto:emaildiecianni@gmail.com
Grazie per seguirci.
Katia & Giuliano

domenica 24 novembre 2013

Capitolo 3: Insieme


Capitolo 3: Insieme

Aver incontrato Katia mi diede l’occasione di poter continuare a credere che fosse possibile creare un’equipe che portasse avanti i progetti solidali della darearte.

Ma qualcosa si stava muovendo in senso contrario a questa forza positiva.
Accaddero molte cose in opposizione a questo incontro ma, in qualche modo, riuscii a ottenere il suo numero di telefono e un giorno la chiamai per prendere un appuntamento.

Così, dopo qualche giorno, ci reincontrammo.
Ogni incontro era sempre carico di energia, pieno di gioia e scintille.
Non capivo esattamente se, quando le raccontavo dei miei progetti, dei miei sogni da realizzare nella sua città, mi ascoltasse veramente, se mi capisse, se davvero le mie parole erano interpretate giustamente e con raziocinio.
Era come trasportata da un vento e a volte mi pareva di un entusiasmo eccessivo, fuor di ogni misura.
Era come farla felice ad ogni incontro, perché ciò che le dicevo era esattamente compatibile con ciò che avrebbe fatto lei.
Insomma, eravamo completamente in sintonia, al punto che un conseguente avvicinamento era evidente, e fu inevitabile.

Grazie al nostro incontro avevo ripreso fiducia e ricominciai a muovermi, se mai mi fossi fermato, creando immediatamente dei micro-progetti per testare la risposta della città e della nostra sinergia.
In verità fu proprio con lei che iniziai i progetti negli orfanotrofi, tutti i precedenti erano stati solo degli incontri, delle visite di conoscenza.
Pertanto abbiamo cominciato a lavorare insieme, in un orfanotrofio maschile.
In Atibaia, esistevano almeno un paio di Entità che avevano l’usanza di dividere i bambini maschi dalle femmine, anche nel caso di fratelli e sorelle, semplicemente per una comodità organizzativa della struttura. (questo mi fu confessato, fuori dai denti, dal presidente di un orfanotrofio).

Nel primo progetto creato per i bambini, dovetti portare via Katia quasi a forza, perché non riusciva a smettere di giocare con loro.
Aveva trasformato tutti in clown, tutti avevano il naso rosso del pagliaccio,
Capii che avrei avuto bisogno di molta pazienza, per fare in modo che Katia si accorgesse che esistono dei margini organizzativi che migliorano le attività e i tempi, ma che lei non considerava affatto.
Ma il suo talento e la sua forza di volontà erano, insieme alla sua energica generosità, una vera bomba!
Forse, mai avevo incontrato prima una persona con tanta voglia di fare e di vivere.
Forse solo dei bambini.
Impiegai del tempo per capire che il connubio era semplice: Katia viveva l’infanzia.
E io potevo solo accompagnarla.

Insieme seguitammo a creare progetti, condividendoli anche con altri volontari, che comunque rimasero sempre molto rari.
Andammo in una comunità di giovani cattolici che stavano costruendo la loro Chiesa, con le loro uniche forze e con loro, e per loro, inventammo un progetto che potesse rinforzarli, dargli coraggio.
La scuola e le capacità teatrali di Katia furono propizie.
Mentre io coordinavo il progetto, lei insegnava ad essere più sciolti e fiduciosi, dinanzi al pubblico di fedeli che dovevano affrontare ogni domenica.
Fu un successo straordinario.

Andammo in un altro orfanotrofio, quello femminile, per regalare allegria e incontri didattici attraverso il disegno.
Meravigliose, mai dimenticate bambine.

Andammo in una comunità che offriva il pasto gratuito a bambini, in un quartiere molto povero e pericoloso, dove inventammo un piccolo corso di cartapesta per i bambini e i ragazzi.
Esperienza molto intensa.

Il corso di cartapesta lo volemmo donare anche ai bambini dell’orfanotrofio maschile, perciò ci rividero tornare ancora tra loro.
Fantastico!

Senza parlare di tutti gli incontri, le esperienze, le emozioni, le difficoltà, le peripezie e le impotenze che abbiamo incontrato in questo seppur breve percorso.
Come posso raccontare di ciò che ho raccolto, in questo “salto quantico” avvenuto in un breve spazio temporale, ma tanto pieno di accadimenti ed esperienze che nemmeno io sapevo come fossi riuscito a dirigere senza esserne travolto.
Non ho parole per questo, davvero.
Mai le ho avute, e nemmeno ora, a distanza di dieci anni.

Forse, conobbi veramente Katia quando la vidi con il naso rosso del suo clown.
Era verso la fine della mia permanenza in Brasile, in un suo spettacolo organizzato presso una scuola municipale, che regalava a tutti gli allievi dell’Istituto.

Come parte del pubblico, mi sedetti in prima fila, in mezzo a tanti giovani studenti, in attesa di vedere in cosa poteva sorprendermi la ragazza che avevo incontrato poco tempo prima e con la quale avevo vissuto momenti indimenticabili.
Ma lo straordinario, lo avrei visto da lì a poco.

Da una finestra e gettandosi al suolo senza preoccuparsi della gravità, uscì un clown completo di costume, naso rosso e parrucca arancione.
Una musica di sottofondo accompagnava il suo ciondolarsi e le sue gag, che lasciavano tutti, dico tutti, a bocca aperta.
Io non credevo ai miei occhi, perché le folli acrobazie e cadute, oltre alle risate, provocavano sussulti di preoccupazione per l’incolumità fisica del clown.
E lei era un’altra cosa, che non posso chiamare persona, dato che era più un personaggio, una figura di un’altra dimensione, un cartone animato vivente, qualcuno che non avevo mai visto, ma che mi impressionava tantissimo.
Il suo talento era enorme, tanto quanta l’energia che provocava al suo intorno.
E a bocca aperta assistii a tutto lo show, applaudendo alla fine, felice per aver conosciuto colei che era capace di creare questa Magia straordinaria.
Alla fine dello spettacolo, dopo i meritati applausi di successo e ammirazione, mi congratulai con lei e subito mi preoccupai nel vederla zoppicante.
Aveva le gambe colme di lividi, così prima di dirle quanto fosse stata incosciente nel suo funambolico show, pensai come poterla aiutare per medicarsi le contusioni.
L’accompagnai in una farmacia e poi a casa, ringraziandola per ciò che aveva saputo donare.

Katia avrebbe realizzato ancora una volta quello stesso spettacolo, ma solo dopo la mia partenza, per raccogliere dei fondi, finalizzati all’acquisto di materiali utili agli incontri con i bambini, che lei, senza di me ma per darearte, avrebbe continuato a fare.

La nostra complicità era solo all’inizio.
Avevamo sperimentato ciò che volevamo fare, ciò che volevamo condividere.
Avevamo conosciuto bambini con storie che non si possono raccontare, giocato con loro e visti finalmente sorridere.
Avevamo toccato le loro mani, stretto i loro corpicini, in abbracci di affetto sincero.
Avevamo saltato, riso, parlato e ballato con bambine che non sapevano di essere ancora delle bambine.
Avevamo ascoltato i loro sogni e le loro speranze, i loro incubi e le loro tristezze.
Insieme avevamo spostato tante cose, Vite comprese.
In così breve tempo…


Giuliano

Capitolo 3: Insieme


Capitolo 3: Insieme


La possibilità che potesse succedere qualcosa di davvero incredibile, ad Atibaia, era tanto remota quanto un’alluvione d’acqua nel deserto!
Oppure, ero soltanto io che, immersa nel dolore, non ero stata capace di vedere lontano.
Ed ecco che quell’uomo fantastico girava per la mia piccola città!
Avevo un appuntamento con lui, nella stessa piazza dove c’eravamo conosciuti e per lui non sarebbe stato difficile trovarla, dato che era l’unica.
Voleva parlarmi sull’associazione di volontariato della quale era il responsabile e dei progetti da svolgere in Brasile.
Su questo argomento era molto chiaro che lui ci mettesse il cuore, l’anima, il corpo e tutto il resto. Sopratutto era questo il motivo del suo viaggio, ed era per questo che stava lì, nella nostra povera e piccola città, e non per un miracolo, come credeva il mio cuore.
Comunque sia quest’associazione era molto importante per lui e, per veder sbocciare il suo sorriso, ero disposta a tutto.
Volevo essere d’aiuto in quest’impresa, ero pronta come un soldato che si presenta alle armi.
Se mi avesse dato un cucchiaio rotto e mi avesse mandato a svuotare un fiume, andavo.
Ma avevo paura di quello che provavo dentro.
Sarei stata capace di controllarmi?
Di non arrossire, sudare e puzzare ed essere ragionevole?
Allora, prima del suo arrivo, entrai in Chiesa.
Volevo pregare per tutte le Entità magiche, ai Santi, agli Dei di tutte le religioni, (dato che per dominare un mare dentro, un solo Santo non fa il miracolo, c’è bisogno di numerose forze messe insieme).
Inginocchiata, pregavo.
Per prima cosa ho ringraziato per l’avvenimento straordinario e poi chiesi ai Santi di farmi diventare una persona in uno stato normale e con un cervello funzionante.
Almeno un poco pare che abbia funzionato, perché non svenni al suo arrivo e riuscii ad ascoltarlo e anche dire qualcosa che avesse un senso.

Abbiamo cominciato da subito a lavorare insieme.
Mi chiese di disegnare il volantino ed il marchio dell’associazione.
Era strano il suo senso assoluto di organizzazione, qualcosa a me completamente sconosciuto. Riusciva a pianificare ogni progetto e a dargli un margine, un contenitore, una vita propria, con un inizio un mezzo e una fine.
Aveva chiaro che tutte le persone erano connesse, come da un filo invisibile, e che un singolo cambiamento era capace di provocare un centinaio di successive trasformazioni.
Non aveva pretese faraoniche, diceva che se fossimo riusciti ad aiutare un unico bambino, il nostro compito era raggiunto.
Inoltre era estremamente gentile e generoso con chiunque si avvicinasse all’associazione, voleva conoscere il loro lavoro e capire il loro sogno per agire di conseguenza.
Il punto più difficile da far capire a tutta la gente era sul fatto che nessuno venisse pagato, nemmeno lui.
Ma la sua idea era di gran lunga la più bella ed efficace che avevo mai sentito.
Nonostante l’associazione non retribuisse economicamente, poteva appoggiare la creazione di progetti artistici, dei sogni, dei lavori.
Quello che la gente non riusciva a vedere, era che tutti coloro che si disponevano come volontari, avrebbero ottenuto uno sviluppo del proprio lavoro artistico ed ovviamente un riscontro economico per la propria arte. (Questo accadde anche a me, negli anni successivi.)
Sembrava fantastico, tutti venivano aiutati, sia i bambini, sia gli artisti e per me, che avevo difficoltà nel produrre uno spettacolo o qualsiasi altra cosa, ero salva!
Se non fossi follemente innamorata, sarei stata anche felice.
Quasi nessuno capì fino in fondo la proposta dell’associazione, però in una unica cosa la maggioranza delle donne della città erano d’accordo: tutte erano invaghite o affascinate da lui.
Non provavo gelosia, era ovvio che tutte vedessero quello che avevo visto io, e non poteva essere altrimenti.
Per tutta la città giravano voci sull’arrivo ”dell’affascinante uomo dai capelli argentati”.
Un’artigiana mi ha confessato di averci “provato” con lui, ma capì da subito che era impegnato in una relazione sentimentale, in Italia.
Un’altra voce diceva di un bacio che una ragazza è riuscita a strappargli, ma il più strano dei racconti era sul suo ipotetico fidanzamento con una donna della città, nove anni più anziana di lui.
La sua amica, che lo ospitava nella sua casa, in un momento che ci trovammo sole, volle provocarmi affermando che se lui non se ne fosse andato entro un mese, sarebbe nata una guerra civile tra le donne della città.

Che umiliazione. Era così evidente che ero anch’io tanto innamorata?
Tutte queste voci non mi turbavano più della sua presenza, ma cercavo di contenermi.
In relazione al lavoro, lentamente cambiai.
Infatti la motivazione non era più solo quella di veder sbocciare il suo sorriso (era anche quella), ma divenni presto decisamente felice di partecipare a quell’associazione.
Il suo sguardo sulle cose, così straniero e privo di abitudini, mi faceva guardare e scoprire la mia propria città, che credevo di conoscere già.
Ignoravo la solitudine degli orfanotrofi e gli effetti che un semplice abbraccio può suscitare in un bimbo, abbandonato.
Qualcosa di bello stava nascendo nella confusione della mia vita!
Se almeno potessi far conto sulla mia ragione… ma per la maggior parte del tempo, il mio cervello era come spento e galleggiavo nel “quasi dolore” degli innamorati.
Il suo rapporto con me era molto delicato e distaccato.
Quello che notavo di più, era il suo senso protettivo, aveva una voglia immensa di aiutarmi.
Forse gli facevo un pò di pena, cosi buffa e priva di senso com’ero.
Qualche volta mi guardava stupefatto, come chi vede una giraffa per la prima volta, ed ero sicura che non corrispondesse ai miei sentimenti.
Ci vedevamo spesso, per le visite agli orfanotrofi e per altre questioni che riguardavano le attività da svolgere.
Lui aveva pochissimo tempo perché, presto, sarebbe dovuto tornare in Italia, ed era sempre in giro, anche con tanta altra gente.
Ogni volta che mi capitava la sua compagnia, l’assaggiavo in ogni suo secondo, più a fondo che potevo, perchè lui era un uomo provvisorio.

Un giorno, stanca di tenermi tutto dentro, tirai fuori i miei scarponi da clown, rinchiusi da tanto tempo nell’armadio e lo invitai a vedere il mio spettacolo.
Sarebbe stata l’opportunità per dichiarargli tutto quel mio sentimento trattenuto senza che lui se ne fosse accorto.
I clown possono dire le più dure verità, senza dover spiegare nulla, dopo.
Prima lo invitai allo spettacolo e dopo mi misi a creare, in fretta e furia, la serata, che ancora non esisteva affatto.
Corsi da una scuola pubblica, parlai alla sua Preside e, come sa fare Arlecchino, inventai un mucchio di storie, riuscendo a convincerla di realizzare uno spettacolo.
Capita spesso che, prima di ogni entrata in scena, il coraggio se ne vada per conto suo ed il corpo si metta a tremare, ma in quel giorno era davvero peggio: non riuscivo nemmeno a truccarmi.
Avevo spostato un’intera Scuola, coinvolto moltissima gente, creato uno show-clown, tutto per una singola persona.
Sfiorare il solo pensiero che lui non fosse venuto, mi faceva svenire.
Ero pronta, dietro le quinte, e sentivo lo schiamazzo del pubblico.
Arrivavano numerosi, ma questo non mi interessava.
Non riuscivo ancora ad entrare in scena perchè non sentivo più le mie gambe.
Ad un tratto lo vidi, era qui!
Stava seduto proprio di fronte al palcoscenico, con la sua solita eleganza.
Senza pensare, mi buttai in scena come fosse fra le sue braccia.
Quello che accadde, era qualcosa di anteriore al Teatro: ero un Clown di Neanderthal!
All’improviso la diga che conteneva il mare dentro si ruppe riversandosi sopra il malcapitato pubblico.
Per me c’era solo lui, ma evitavo di guardarlo per non morire.
La scena finale, era una lotta di pugili.
Senza nessun ritegno mi gettai moltissime volte a terra, come fossi fatta di gomma.
Vedevo la faccia di sgomento del pubblico, le respirazioni sospese, ma non potevo farne a meno.
Lì mi stavo dichiarando veramente: sono caduta nell’Amore, “I’m fall in love”.
E’ stato un successo, perchè l’energia era fortissima e reale.
Ci sono stati tanti applausi sentiti e tanta gioia condivisa.

Dopo lo spettacolo mi accorsi che avevo entrambe le ginocchia gonfie e con lividi, ma non sentivo nessun dolore.
Forse perché ero felice e finalmente non avevo più un segreto.
Da quel giorno, lui cambiò.
Avrà forse capito?
Non lo so.
Ma ero più tranquilla, come uno che si è vendicato.
Non mi ricordo più l’ordine degli eventi successivi, ma poco dopo, in un bar, lui mi baciò.


 Katia

domenica 17 novembre 2013

Capitolo 2: Katia



Capitolo 2: Katia




Chissà per quale strano caso, davvero non potevo saperlo, conobbi un immigrato italiano, giovane padre di famiglia che mi invitò con entusiasmo alla festa degli immigranti italiani, organizzata dal parroco della Chiesa centrale di Atibaia.
Sopra un palco, si sarebbero esibite decine di comparse in costume folcloristico e suonate musiche tradizionali, per commemorare quella grande parte di cittadinanza che ha contribuito, in maniera determinante, alla costruzione dello Stato di Sao Paulo: gli italiani.

Ero rimasto senza la compagnia e le traduzioni della mia amica e, forse per sentirmi meno solo, decisi di andare a ficcare il naso in questa festa.

Fu lì, in quel pomeriggio, che la vidi.
Di quel momento, ho vivo il ricordo della sua gonna rossa.
Ma, in verità, non dimentico quanto fui attratto dalla sua presenza che, camminando e dandomi le spalle, si muoveva dondolando il corpo, come sotto l’effetto di opposte influenze gravitazionali.

Capelli sulle spalle e gonna rossa, in quei brevi momenti non vidi di più, anche se il mio sguardo cercava altre informazioni.
Ma l’attrazzione era talmente forte che la seguii, volutamente distratto per non dare nell’occhio, mischiandomi alla piccola folla davanti al palco, dove i figuranti in costume da Tarantella avevano iniziato la loro tradizionale danza popolare.
Ma a lei, quella danza piaceva, pensai, perché la vidi sorridere.
E credo fosse l’unicaa, in quella piazza, a sorridere.
Restai vicino a lei, a pochi passi dietro di lei, per un minuto, o forse meno e, combattuto sul da farsi, non le dissi nulla e ritornai a gironzolare tra la folla, per dimenticare quel rischioso momento di attrazzione, che mi aveva improvvisamente colpito.

Tornando sui miei passi ritrovai il mio amico immigrato che, euforico, mi veniva incontro:
-“Dov’eri? Ti stavo cercando! Ti voglio presentare una persona! Presto, vieni!”
Lo seguii vicino al palco della manifestazione, era poco affollato.

-“Lei è di origine italiana e parla benissimo la nostra lingua!”
continuò indicandomi una ragazza.
Non avevo realizzato immediatamente.
La mia mente fece fatica a capire come fosse possibile che la stessa ragazza che avevo guardato con tanta attenzione in mezzo alla folla, adesso era davanti a me, sorridente e luminosa anche se timida e imbarazzata, a porgermi la mano.

Era la ragazza dalla gonna rossa, che sapeva camminare danzando.
“Piacere, Katia.”e mi sorrise.
Sorrisi anch’io, stringendole la mano, davvero sorpreso e incredulo.
Mi sentivo come fossi dentro a un passaggio obbligato.
Sentii una rapidissima, ma nitida, sensazione che qualsiasi cosa potessi fare o non fare, sarebbe accaduto comunque, nonostante me.
Durò un attimo, come tutte quelle sensazioni che appaiono fuori dal controllo della mente, ma questo dichiarava, esplicitamente, che questo incontro era inderogabile.
Questo incontro doveva esserci.
E fu un incontro con i fuochi d’artificio.

Cominciammo subito a sentire una fortissima energia e guardandoci negli occhi, e sfuggendo allo sguardo, parlavamo rapidamente di qualsiasi cosa ci passasse per la mente.  In italiano, o almeno così pareva, dato che lei, più che parlare, lo interpretava.
La conversazione non durò a lungo, ma fu accesa, viva e brillante, così decidemmo di rivederci e le lasciai il mio numero di telefono.

Dunque ci salutammo e mi disse:
-“Io sono brasiliana perciò ti saluto come si usa da noi!”
E mi saltò al collo, dandomi un forte abbraccio.

Avevo trovato una compagna.
Ero certo che, con lei, avrei realizzato qualcosa di importante.
E, come un bimbo nel bel mezzo di una festa piena di fuochi di artificio, mi sentivo felice.


Giuliano

Capitolo 2: Giuliano

Capitolo 2: Giuliano

Era già pomeriggio. 
Restavo seduta al mio banchetto, nel mercato degli artigiani, da almeno cinque ore e non avevo venduto un’ unico pezzo. 
Ero completamente lontana dal presente, non curavo minimamente i clienti e non mi accorgevo del mondo intorno. Avevo soltanto attenzione ai miei pensieri, impegnati a trovare un modo per ripartire per Sao Paulo, l’indomani.

La mia mente vagava di qua e di là, andando a frugare nel passato, quando mio padre mi permise di studiare in una scuola privata, di quell’immensa metropoli. 
Era l’unica soluzione per un possibile accesso all’Università.
A quel tempo abitavo nella campagna di Atibaia, e dovevo affrontare uno stancante viaggio di andata e ritorno in autobus, tutti i giorni. 
Un lunedì, mio padre mi accompagnò alla fermata e si accorse che avevo una valigia in mano, ma nessuno di noi due si disse nulla, come era nella nostra usanza familiare. 
Quando uscii della macchina, lo salutai e aggiunsi: 
-“Ci vediamo sabato!”
Fu così che cominciai a vivere a Sao Paulo, in una pensione per sole donne, in una zona chiamata “Paradiso”. 
Era il nome giusto, perche’ lì ho vissuto giorni davvero belli, che porterò per sempre nel cuore.

Nella piccola pensione a due piani, abitavano trentacinque donne, provenienti da tutte le regioni del Brasile, con mestieri, colori, età e culture diverse. 
Era uno strano ed affascinante mosaico di donne: la vecchia, che bestemmiava a tutte le ore, la zoppa, perchè da bambina una vipera l’aveva morsicata ad una gamba e per tre giorni rimase come morta finchè un indigeno la salvò, la magrissima del sertao (il deserto brasiliano), che raccoglieva oggetti di plastica per poi mostrarli ai suoi parenti che non conoscevano una simile “tecnologia”, la grassa prostituta di mezza età, che dovunque si portava un secchio per fare pipì, e la silenziosa, che scontò vent’anni di galera per aver ucciso il cognato e l’unica frase che ripeteva a noi era: “Se avete bisogno, chiamatemi” e con la mano mimava l’atto della decapitazione.
Erano donne così forti che una notte picchiarono l’unico ladro che si era azzardato ad entrare nella nostra casa. 
Ma quando erano mescolate alla gente, per le strade della grande Citta’, nessuno faceva caso alla loro esistenza. 
Ma io sapevo quanto erano incredibili. 
Volevo bene a tutte quante loro.
Mi hanno insegnato a cucinare e mi hanno insegnato cose che fino ad oggi ancora non ho compreso e, nonostante nessuna di loro sapesse leggere o scrivere, quanta saggezza hanno donato alla mia vita!

Vivemmo insieme per un intero anno e come regalo mi lasciarono, per sempre, la loro musicalità.
Per questo motivo, tutte le volte che parlavo, nessuno riusciva a identificare da dove provenisse il mio strano accento. 
E’ perché mescolavo tutti gli accenti di quelle magiche donne. 
Addirittura mi chiedevano in quale Paese fossi nata. 
Avrei voluto rispondere che venivo dal Paese delle Donne, nel Paradiso dove, in una pensione, vi era rinchiuso tutto il Brasile.

Piu’ pensavo e meno riuscivo a restare in quel banchetto. 
Sì! Dovevo prendere la mia valigia, come quella volta, e partire!
Ma adesso, ero così sconfitta e priva di grinta… sarei stata capace? 
Ad un tratto, smontai tutto e mi congedai gridando: 
-“Me ne vado! Vado via, ciao e fine!”
Cominciai a correre e correre, per mangiare aria. 
Strada facendo, sentii lontanamente una musica e decisi di seguirla.
La piazza centrale era tutta vestita di rosso, bianco e verde e, davanti alla Chiesa, sventolava la bandiera italiana. 
La musica era una specie di Tarantella e c’erano dei ballerini vestiti in costume folcloristico, con i quali danzava goffamente anche il Parroco. 
Era la festa in onore a San Gennaro, una festa dedicata ai discendenti degli immigrati italiani.

Oh, che fortuna! 
Ero anch’io una discendente di italiani: allora avevo il diritto di partecipare!
Solo l’Italia, in quel momento, poteva distogliermi dai miei pensieri. 
Stavo per buttarmi tra la folla, quando improvvisamente il mio cuore sussultò. 
Ero terrorizzata, perche’ fino a quel momento, non ricordo di aver mai visto un uomo così bello.

Restai immobile e lo guardai, ma più lo guardavo, più ero inchiodata alla terra. 
Forse la cosa migliore sarebbe stata quella di scappare prima che succedesse una tragedia, come innamorarsi perdutamente di uno sconosciuto.
Sì, era decisamente meglio fuggire! 
Era difficile reggere la vita stessa, figurariamoci aggiungere un tale scombussolamento al cuore.
Dovevo scappare!
Guai a chi non dà ascolto alle Storie: tutte le tragedie greche insegnano che fuggire da qualcosa,  può soltanto accelerarne l’incontro. 
Ed ecco che proprio quando sono scappata, lo ritrovai davanti a me.
E qualcuno ci ha addirittura presentati! 
Quello che seguì fu un terremoto dentro. 
Lui, da vicino, non era soltanto bello, ma aveva una luce, un alone intorno e una voce così melodica, così serena che mi costringeva alla sua presenza,  e poi… era anche un italiano! 
Che sfiga, le sue parole erano tutte italiane! 
Era così bello sentirle… uscivano della sua bocca, facevano un giro nell’aria e mi arrivavano subito al cuore. 
Ad ogni verbo, sostantivo, aggettivo, vedevo l’Italia, con gli alberi d’olivo, questo Paese mille volte immaginato e amato, ma appena intravisto. 
Era palese che non sarei sopravissuta.
E mi vergognavo un pò, perchè non seguivo nulla di quello che provava a dirmi, qualcosa in relazione al suo lavoro e su un’associazione di volontariato.
Di certo ero una potenziale volontaria, già da sola creavo laboratori gratuiti, ma se lui avesse saputo cosa provavo in quel momento, tutto lo scompiglio che mi stava succedendo dentro, forse avrebbe rinunciato a invitarmi per i suoi progetti. 
Volevo andarmene, perchè con il tramonto vedevo, ancor di più, la sua bellezza lunare, ma restavo immobile. 
Sudavo e sentivo che puzzavo.
Ma, finalmente, fu lui che dovette andarsene ma prima di salutarmi mi diede il suo biglietto da visita e quando pronunciò il suo nome, le sue parole divennero un rogo, dove io, volontariamente, mi sono gettata. 
Continuavo a sudare, tremavo e la faccia mi bruciava, tutto era un incendio in me.
Lo salutai facendo finta che ero ancora in possesso delle facoltà mentali e poi scappai correndo, con il biglietto di visita stretto in mano. 
Quando mi accorsi che ero abbastanza lontana, lessi ad alta voce il suo nome, tante volte per tutto il percorso.
Arrivai a casa che avevo la febbre alta. 
Passai la notte in delirio.
Al mattino stavo meglio e mia sorella mi chiese chi fosse “Giuliano”.
Le chiesi il perché di quella domanda e lei ridendo, rispose:
- “Hai urlato questo nome per tutta la notte”

L’indomani non partii per Sao Paulo.
E nemmeno nei giorni seguenti.
E nemmeno nei mesi a venire.
Non sarei ripartita e non avrei vissuto mai più in quella città.
La vita mi stava portando altrove.

Katia

lunedì 11 novembre 2013

Capitolo 1: Brasile


Capitolo 1: Brasile

Non immaginavo il Brasile.
Preferivo evitare di pensare come fosse, prima di conoscerlo.

Nel febbraio del 2003, avevo finalmente fondato un’associazione di volontariato alla quale avevo dato nome “darearte”, dopo un lungo processo necessario alla sua creazione durato un’anno intero, e con “lei” mi ero proposto di vedere cosa potevo fare in una terra così lontana da me, come quella brasiliana.

La fondazione di “darearte” era la conseguenza di una ricerca profonda, di una personale necessità di sviluppo interiore.
Ero un fotografo professionista, collaboravo con uno studio fotografico di Genova e avevo qualche cliente, che mi permettevano, arrotondando con altri piccoli lavori, di mantenere un certo stile di vita: un’auto, uno scooter e un’appartamento in affitto.
Da un paio d’anni vivevo una storia d’amore con una ragazza ungherese, residente in Italia da tempo, che mi sostenne e partecipò alla fondazione dell’associazione.
Oltre lei, altre tre persone avevano creduto nell’idea che l’Arte potesse essere anche solidale e di voler creare progetti educativi e d’intrattenimento creativo per sostenere lo sviluppo di bambini con meno opportunità.

Ma dopo pochi mesi ed aver realizzato alcuni progetti in Italia, già uno di noi ci aveva girato le spalle e ai pochi restanti era scemato l’entusiasmo iniziale.
Questo rinforzò la scelta di cercare altrove energie per “darearte” e decisi di farlo in Brasile.
L’unico contatto che avevo in questo immenso Paese, era con un’amica che abitava ad Atibaia, una piccola cittadina a 60 chilometri dalla grande San Paolo.
Una donna che avevo conosciuto una dozzina di anni prima, quando lessi su un giornale la sua richiesta d’aiuto per perfezionare lo studio della lingua italiana.
Risposi e, attraverso lettere scritte a mano, diventammo amici e decidemmo di incontrarci nel suo viaggio in Toscana, l’anno successivo.
Fu così che conobbi lei e suo figlio di 10 anni, e li ospitai per qualche giorno a Genova.

Trascorsero molti anni, da quell’incontro, e da almeno dieci, ci eravamo completamente persi di vista, ma l’avvento di Internet favorì il nostro secondo  riavvicinamento.
Così, ritrovata per e-mail, le raccontai di me e di “darearte” e le domandai se fosse a conoscenza di qualcosa di attinente a ciò che mi proponevo di fare.
Mi rispose che in qualche rara occasione aveva visto una signora che, per strada, insegnava danza a delle bambine scalze.
Questo fu sufficente.

Dunque, da solo, partii, ricco di speranze d’incontrare un nuovo Mondo che mi potesse accogliere per ciò che potevo fare, con mille paure e incognite, ma spinto dal coraggio e dalla volontà di vivere fino in fondo questa scelta.

Il giorno che giunsi in Brasile, a Sao Paulo e poi ad Atibaia, era l’11 ottobre 2003.
Il giorno dei bambini, in Brasile.
E adesso, era anche il mio.

La mia amica mi accolse con entusiasmo e generosità, ospitandomi nella sua casa che condivideva con l’anziana madre, il figlio, ora maggiorenne, ed il vecchio cane.
Una stanza era pronta per me, per restare il tempo stabilito, un intero mese.

Ero in Brasile, finalmente, e lì potevo ricominciare.
Dopo aver realizzato ed essermi stabilizzato, mi diedi da fare per conoscere le istituzioni e le associazioni, enti e case di accoglienza che gravitavano intorno a coloro che erano il mio obiettivo: i bambini in difficoltà.
Così conobbi tutti.
Tutte le entità e le associazioni che operavano nel settore, da coloro che si occupavano di dare alimento a bambini di strada, a coloro che sostenevano le bambine in stato di gravidanza, dalla prima donna, moglie del sindaco della città, all’ultima povera donna, madre di una dozzina di figli di mariti diversi.
E fu proprio con queste ultime due che ebbi a che fare, la prima, moglie del Sindaco, e responsabile dell’Istituzione Pubblica di solidarietà sociale, con la quale feci la mia prima visita alla favela, chiuso dentro una macchina completa d’autista, a finestrini chiusi, e la seconda, madre di un numero indefinito di figli, residente in una baracca nella favela considerata la più pericolosa della regione, con la quale vissi momenti di una bellezza tanto elevata che mai dimenticherò nella vita.

La visita alla favela, con la moglie del Sindaco, la feci accompagnato dalla mia amica, che per una settimana tentò di seguire ciò che io volevo impiantare nella sua città.
Ma, infelicemente, non riuscì a capire esattamente ciò che volevo fare.
E nemmeno il perché.
E nonostante fosse in imbarazzo per l’intenzione di aiutarmi, rinunciò a starmi al fianco in questa avventura perché, mi confessò, non si sentiva all’altezza.

Tentai più volte di farle capire che non si trattava di avere particolari capacità, di essere buoni, forti o di essere filantropi, ma di essere semplicemente Umani.
Umani che, con tutti i loro limiti, imparano ad ascoltarsi, insieme, e cercano di capire come possono migliorare questo ascolto.
Facendo ciò che detta il cuore, o l’istinto o quella voce che li avvicina agli altri.
Un semplice scambio per ritrovare, attraverso questo, se stessi.
Ma questo, a volte, appare come un qualcosa di insormontabile, di impossibile.
E colui che dovrebbe essere l’altro, diviene uno sconosciuto, una minaccia.
La paura ha il sopravvento, ci allontana da quel piccolo spiraglio di luce, di possibilità.
E si rinuncia, giustificando tutto.
Ebbene, la mia amica si giustificò e abbandonò il progetto, senza però mai mancare alla sua gentile ospitalità.

Ma rimasi, ancora una volta, solo.
Il “mio” portoghese non esisteva ancora e quasi tutto ciò che mi veniva detto, era per me incomprensibile.
E da solo, in quel luogo a me ancora sconosciuto, tutto divenne più difficile.

Giuliano.

2003 - Capitolo 1: Brasile


Capitolo 1: Brasile

Corro.
Faccio il giro dell’unica piazza della mia piccola città brasiliana e, quasi senza fiato, arrivo in Italia, nel posto dove una volta c’era il Circo.
Guardo intorno e niente… nulla del tendone, né dell’odore di zucchero filato o dei cocomeri distribuiti in mezzo a tante risate.
Il posto e’ vuoto, ed è diventato un parcheggio.
In un angolo, ad un tavolo, c’è un uomo- pagliaccio che mangia lentamente una minestra.
Mi guarda e dice: - “Vattene, che il circo non c’e più!”.
Vado via, senza parole.

Sognavo spesso questo stesso sogno, dal primo giorno che ritornai in Brasile, dopo l’esperienza straordinaria di aver vissuto in un circo italiano e finalmente diventare un clown.
Da quel momento in avanti non ero più riuscita a combinare nulla di particolare, tranne affinare la capacità di divenire ogni volta sempre più povera.
L’esperienza del circo mi aveva scombinato e non ero stata capace di comprenderla bene;
ero ancora troppo giovane per poter gestire la bellezza e la bruttezza delle cose.
Era il terzo anno che cercavo un modo di ritornare al circo, ma sempre invano.
Riuscire a ricavare i soldi del biglietto aereo per l’Italia era diventata un’ossessione.
Era come  la ricerca al Santo Graal, o delle Terre sperdute dell’Eldorado.
Nel mese di giugno del 2003 sono stata invitata da una mia cara amica a far da narratrice al suo spettacolo di danza indiana in Luanda, capitale dell’Angola, in Africa.
Confesso che, in fondo, accettai soltanto per essere geograficamente più vicina al mio agognato Paese a forma di stivale.
Dentro di me nutrivo pensieri assurdi, come quello di attraversare l’Africa a piedi, con scarponi da clown, arrivare fino in Sicilia, mangiare un’oliva, per poi prendere il treno e raggiungere il circo a Roma.
Ma il soggiorno in Angola mi ha dimostrato che quello non era il posto adatto per sognare.
Ero talmente sconvolta dalla realtà africana che, nel giorno dello spettacolo, io la narratrice, avevo perso completamente la voce e, di conseguenza, anche l’amica.
Questa sarebbe stato il primo addio, in quell’anno, di un’amicizia che, come successivamente le altre, scivolò via.

Dopo l’Africa, ero sicura che anche stavolta non ci sarebbe stata alcuna possibilità di rivedere il circo.
Mi sentivo estremamente sola e senza riferimenti, ma istintivamente credetti che se potesse esserci un Maestro per l’arte del clown, questo era il Pubblico.
Però non sapevo produrre, nè vendere uno spettacolo e nonostante avessi ottenuto regolare licenza come Clown, rilasciata dal Ministero del Lavoro di Sao Paolo, non riuscivo a capire la logica del “mondo lavorativo” e, ancor peggio, il mio senso organizzativo era inesistente.
Ma questo non fu un vero impedimento per l’incontro con il pubblico, perché c’era dovunque!
Allora realizzavo i miei spettacoli gratuitamente in piazza, nelle scuole e dove capitava.
Non provavo mai, seguivo una bozza idealizzata e improvvisavo direttamente in scena.
I risultati non erano sempre positivi. 
A volte erano perfino disastrosi come quando, in un quartiere “difficile”, i bambini mi legarono ad un palo della luce e fuggirono via con la mia valigia o quando, in una scuola privata, i bambini mi riempirono di insulti e pallottole di carta.
Tutto questo non era certo piacevole, ma per nulla mi fece desistere, anzi, confermava un pensiero  che nutrivo nel profondo che, per quest’arte, è necessario assolutamente mettersi in gioco e che occorre del tempo.
Tempo per vivere e invecchiare.
Non vedevo l’ora di invecchiare.
La vecchiaia per me, è il cammino naturale verso la libertà di sé e ci permette di ritrovare nuovamente l’infanzia.
Nessuno rimprovera un anziano che esce di casa in pigiama, verrebbe subito giustificato.

Però avevo 28 anni  e non avevo la minima pazienza con la Vita.
Ero inesperiente e piena di pretese, la vecchiaia e l’infanzia erano troppo lontane da me.
Non riuscivo per niente ad accettare le rotture, le partenze ed i cambiamenti continui delle cose.
Nonostante sentissi che facendo così, tutt’attorno a me aveva preso un colore sbiancato e che non provassi mai una vera gioia in ciò che facevo, non permettevo che nessun vento sbilanciasse questa finta stabilità che avevo creato nella mia vita. 
Un equilibrio precario tra forze opposte e, come un funambolo, cercavo di librarmi.

Per me era tutto perfetto.
Abitavo in due luoghi molto diversi tra loro: Sao Paolo, la grande metropoli e Atibaia, una piccola cittadina.
Lavoravo con l’energia estroversa del clown e con il silenzio solitario della pittura e dell’ artigianato.
Ogni cosa dipendeva dal suo contrario e non riuscivo ad immaginare altrimenti.

A Sao Paolo avevo un importante sostegno affettivo: il mio compagno di scena, con il quale per tante volte ho diviso il palco e mi affiancò nella creazione degli spettacoli.
Un musicista con il talento nato per l’allegria, che divideva con me la sua propria famiglia.
Da quando ero rimasta senza riferimento materno, sua madre divenne anche la mia e a lei ero amorevolmente e profondamente legata.
Ma in quell’anno, grandi sorprese mi aspettavano… e presto, il fragile equilibrio della  mia vita, scomparve.
Avvenne un’improvvisa rottura della nostra relazione e fui costretta ad abbandonare la città di Sao Paulo e con lei i suoi grattacieli, la mamma, gli spettacoli, gli amici e tutto ciò che mi era caro.
Ed io, che credevo di avere soltanto un unico pensiero, quello del ritorno impossibile al circo, adesso dovevo affrontare un terremoto immenso.
Sentivo il pavimento mancare e, solo molto più tardi, capii che più grande è il sonno e più forte sono le scosse.
Una grande parte della mia Vita era stata strappata dal vento. Ero zoppa.
E adesso mi restava solo Atibaia.
Non credevo che, dopo tanto girovagare, fossi ritornata al punto di partenza, nella città dove sono nata, in quella piccola località ai piedi di una montagna.
Atibaia che, in lingua indigena, significa “acqua buona”.
Ma le meravigliose sorgenti d’acqua minerale erano scomparse da vent’anni e con loro gli alberi e gli animali della montagna.
Tutto spazzato via dal “progresso”, diceva la gente.
Non è un caso che nella bandiera del Brasile c’è la scritta “ordine e progresso”.
Secondo me si può leggere cosi: “ l’ordine è il progresso”.
Un progresso che non è capace di amare un albero, un fiume e nemmeno un bambino.
Ero “stretta” in quella città, come indossare una scarpa con un numero di meno, e certamente il mio atteggiamento sfiduciato non mi aiutava.
Diversamente da Sao Paulo, dove scomparivo allegramente in mezzo alla folla d’ignoti, ad Atibaia nessuno camminava immune agli sguardi.
Tutti conoscevano e sapevano tutto di tutti.
Di chiunque si conosceva l’intero albero genealogico, e le vicende personali, e quello che non si sapeva con certezza, la gente se lo inventava, così, per passare il tempo.
La vita culturale era ridotta, come pure tutto il resto, o forse era solo la mia impressione e sicuramente non ero in un buon momento per vederci chiaro.
Se fossi stata più aperta alla Vita, se non avessi avuto tanta resistenza ai cambiamenti, potrei capire che per tutto questo c’era una ragione invisibile e che, in verità, i cambiamenti sono le possibilità.
Ignoravo tutto e mi lamentavo.
Mi si era fermata anche l’ossessione del circo.
I miei scarponi da clown erano ormai rinchiusi in un armadio.
Mi ritirai dentro di me.

Mi misi a dipingere e a creare oggetti artigianali.
In ottobre, vendevo in un banchetto, al mercato degli artigiani ed ero profondamente a disagio.
Non volevo accettare per niente il mio destino.
Volevo lottare contro tutto ciò che mi era accaduto.
Fui colpita dal pensiero improvviso che non sopportavo più l’idea di rimanere ad Atibaia! .
Decisi che sarei ritornata a Sao Paulo, ad ogni modo, e che sarei ripartita l’indomani mattina.

Katia.

domenica 10 novembre 2013

Presentazione.


Salve a tutti.

Questa è una breve presentazione per questo blog, per spiegare in sintesi di ciò che qui troverete.
Si tratta di 10 anni di Vita.
10 anni, dal 2003 al 2013.
E si raccontano attraverso le esperienze di due persone: noi due.

Giuliano, nato l’11 marzo del 1965, a Genova, in Italia.
Katia, nata il 18 giugno del 1975, ad Atibaia, in Brasile.
E ci siamo incontrati nel 2003.

Abbiamo deciso di raccontare di questi dieci anni e, proprio al loro scadere, di iniziare la pubblicazione dei nostri scritti su questo blog, per condividerlo con voi.

Il racconto si sviluppa cronologicamente, ed è scritto da entrambi, indipendenti, dove ogniuno di noi racconta e sviluppa il tema dal proprio punto di vista che, pur trattandosi dello stesso periodo, si rivela diverso proprio perché vissuto diversamente.

Ci auguriamo che il lettore possa trovare la stessa Luce che abbiamo trovato noi, scrivendo.

Grazie.