INFORMAZIONI SU QUESTO LIBRO-BLOG

Questa storia narra di dieci anni vissuti da Katia e da Giuliano.
Il racconto è un "binario", costruito a "doppi capitoli", scritti individualmente dai due autori.
Ogni anno raccontato, dal 2003 al 2013, racchiude cinque capitoli, al termine dei quali,
si conclude un paragrafo e sono pubblicate delle immagini inerenti gli stessi capitoli.
Il libro, nel suo complesso, avrà pertanto 10 paragrafi, composti da 5 doppi capitoli ciascuno.
La pubblicazione di ogni nuovo capitolo avviene senza un tempo determinato, essendo attualmente in fase di creazione.

p.s.: non possiamo essere responsabili della traduzione tramite google che, purtroppo, risulta NON essere completamente compatibile con il testo originale in lingua italiana.

contatto:emaildiecianni@gmail.com
Grazie per seguirci.
Katia & Giuliano

domenica 26 gennaio 2014

IMMAGINI 2004 - GIULIANO

Capitolo 6: Italia.
..."Non mi disse che le fotografie non potevano restare con i bambini, 
forse per non farmi restare male o rivoltare su una questione tanto ingiusta."...


foto Capitolo 7: Secondo incontro.
..."Era marzo e a Genova era freddo."...


foto Capitolo 8: In Cammino.
..."Questa era Atibaia, ed ora era presente anche a Genova, grazie a Katia."...


Capitolo 9: In viaggio 
Nata in Sicilia, a Catania, mia madre giunse a Genova a 19 anni, 
direttamente per sposarsi con un uomo che aveva solo conosciuto su una fotografia.


Capitolo 10: sotto il cielo
..."Scelsi di fare un ritratto fotografico a 80 persone di età diversa tra loro, 
da un anno a 80..."


IMMAGINI 2004 - KATIA


Capitolo 6: Italia.

..."Non c’erano nè porte nè finestre, soltanto i buchi che segnalavano quello che
 un giorno era stata una porta o una finestra."...


foto Capitolo 7: Secondo incontro.

..."Nella Stazione c’era un orologio gigante con numeri romani indecifrabili per me,
e non capii che ora fosse."...

foto Capitolo 8: In Cammino.


..."Nel centro storico ebbi paura, perché quelle sue vie strette erano 
infinite e stregate. "...


Capitolo 9: In viaggio 
..."Mi misi a correre e alla fine la vidi: la torre di Pisa,..." 



Capitolo 10: sotto il cielo

..."Eravamo ritornati sotto il cielo di Genova.
Ma, come noi due, la città non era più quella della volta precedente. "...





domenica 19 gennaio 2014

Capitolo 10: sotto il Cielo


Capitolo 10: sotto il Cielo

Tornati a casa, a Genova, ancora una volta sentivo che avevo spostato e cambiato qualcosa in me.
Dopo aver viaggiato e conosciuto luoghi, alcuni ostili e alcuni amati, affrontato nuove sfide, sperimentato la mia determinazione, la mia pazienza e il mio coraggio, aver provato nuove esperienze e messo in discussione me stesso, è ovvio che qualcosa doveva pur cambiare.
Ogni viaggio, di qualsiasi entità, è accompagnato da una trasformazione.

La mia si rivelò pochi giorni dopo il mio ritorno, durante una passeggiata e una conversazione con Katia sul lungomare di Arenzano, in un pomeriggio di sole.
Una visione, vera e propria, di ciò che volevo raccontare attraverso una composizione creativa.
Era il primo progetto personale che mi permettevo di realizzare.
Avevo sostenuto i progetti di tutti i miei compagni e, fino ad allora, avevo messo da parte la mia necessità creativa.

Volevo realizzare una connessione tra le Persone del Mondo.
Nacque l’idea di “sotto il cielo, Nuvole”, un progetto che comprendeva diverse forme d’arte e comunicazione, per raccontare della gente, delle storie, della Vita.
Scelsi di fare un ritratto fotografico a 80 persone di età diversa tra loro, da un anno a 80, appunto. Chiesi ad ogniuno di loro di sorridere per coloro che vedranno la loro immagine, da un’altra parte del Mondo.
Il loro sorriso era il vero mezzo di comunicazione che avrei usato.
Nel loro sorriso c’era la connessione.
Le persone, dall’altra parte del mondo che videro i ritratti, avrebbero sorriso a loro volta.
Era tutto molto semplice: 80 persone sorridenti, abbracciavano simbolicamente in un circolo cronologico, centinaia di persone che li osservavano, sorridenti anch’essi.
Nello studio fotografico con il quale collaboravo, invitavo coloro che sarebbero divenuti i protagonisti del progetto. Spiegavo l’idea e ben pochi rifiutarono, anzi, l’adesione fu molto entusiasta e sentita. La difficoltà che mi imposi fu quella di trovare età differenti, e questo rallentò la ricerca e la selezione dei soggetti, escludendo molti aderenti.
Fotografare è una magia.
L’attimo del sorriso viene raccolto, per essere riconsegnato in un altro luogo, senza perdere un solo microgrammo della meraviglia di quell’istante.
E 80 sorrisi diversi, dalla bambina di pochi mesi di vita al signore dalla venerabile età,  si riunivano davanti a me, nel gesto più bello e ricco che il volto umano sappia donare, creando insieme una collana dal valore senza stime, un meraviglioso sorriso collettivo rivolto al prossimo, rivolto alla Vita.

La prima versione fu “sotto il cielo, Nuvole di Genova”, visitata dal pubblico di  Atibaia e di Sao Paulo, in Brasile.
L’esposizione riguardava anche uno spettacolo teatrale, all’inaugurazione della mostra, e di Nuvole, immagini in movimento proiettate sul “cielo” dell’esposizione, nel mezzo delle gigantografie dei ritratti, fluttuanti in alto, appese con resistenti fili invisibili. La colonna sonora era una composizione di musica e voci, la musica era tratta da un brano di un noto, meraviglioso, compositore genovese, e  le voci erano di alcuni di coloro che erano stati fotografati, narratori di momenti particolari della loro vita.
E un video del backstage era visibile in una sala appartata.

Soffrii e amai moltissimo questa esposizione.
Katia condivise con me tutto il suo processo fin dall’inizio, e anche molte altre persone furono coinvolte alla sua realizzazione.
Ma devo sempre ringraziare tutti coloro che l’hanno effettivamente creata: i donatori dei sorrisi.

Successivamente a questa, negli anni a seguire, realizzai altre versioni, ma mai più nel formato fotografico dato che, oltre ai costi elevati, il trasporto rendeva tutto più difficile.
Così per la seconda versione pensai di portare le fotografie dei sorrisi su un dvd, per essere proiettato come video.
Nacque “sotto il cielo, Nuvole di Atibaia”, 120 ritratti di brasiliani sorridenti, che fu presentata ad Atibaia, a Genova e a Contis, in Francia.
Anche in questa versione vi erano interviste e altri video, ma tutto era stato stato semplificato nella sua dimensione, per essere di facile accesso.

La terza versione, anni dopo, fu “sotto il cielo, Nuvole di Caraguatatuba”, città del litorale di Sao Paulo, e questa cambiò completamente il suo formato.
10 intervistati raccontavano ognuno di un momento della propria vita.
Queste furono esposte sul web, dove chiunque poteva accedere, liberamente.

Mentre scrivo, ho in mente l’idea della quarta versione, ma sono in attesa che completi la sua maturazione.
Mai ho guadagnato un solo centesimo, in questo progetto (come in tutti gli altri dell’associazione darearte) anche se, lo ammetto, desideravo potesse divenire con il tempo fonte di sostegno economico perché, amare il tuo lavoro e allo stesso tempo farne la propria economia, è ciò al quale si dovrebbe ambire; ma forse non ero mai stato educato a questo sano principio.

Questo fu anche il nostro primo progetto di interscambio internazionale, dove si portava un Paese in casa di un altro e viceversa.
Era un’idea che considero straordinaria, suggerita da chissà quale meravigliosa connessione.
Di “sotto il cielo, Nuvole” ne ero, e ne sono tuttora, profondamente innamorato.
Tanto quanto ci si può innamorare della vita, perché racconta della Vita.
E’ la Vita stessa.

Concluso il ciclo dei progetti darearte in Italia, ci preparammo al ritorno in Brasile.
Questa volta sarei rimasto più a lungo.
Avevo necessità di tempo, per realizzare ciò che mi proponevo di fare.
Ero determinato a fare un salto più alto, avevamo già stabilito degli obiettivi che avrebbero accelerato sensibilmente il cammino sia dell’associazione, sia quello delle nostre stesse vite.
Avevamo raccolto forze e avevamo sogni da realizzare, nostri e altrui, questo ci rese decisi e pronti.
Ci sentivamo come Don Chisciotte e Sancho Panza, alla partenza per le loro fantasmagoriche avventure.

Giuliano

Capitolo 10: Sotto il cielo.


Capitolo 10: Sotto il cielo.

Eravamo ritornati sotto il cielo di Genova.
Ma, come noi due, la città non era più quella della volta precedente.
Si era trasformata completamente.
Vedevo cose che, prima a me, erano invisibili e non si trattava di semplici dettagli che facilmente potevano essermi sfuggiti allo sguardo, come delle minuscole sculture o dipinti nascosti nei vicoli, oppure le corse dei topi nel centro storico.
Ecco che mi apparivano pasticcerie e focaccerie o, addirittura, una chiesa interamente in bianco e nero, dove prima c’era soltanto la nebbia.
Camminare per Genova adesso era un’avventura.
Il gioco di scoprire le cose, prima invisibili.
La città e quell’uomo si stavano svelando sotto i miei occhi.
Ma entrambi, non volevano essere disturbati.
Era un pericoloso e bel momento.
Cosa fanno i clowns quando devono fare silenzio o camminare senza far rumore?
Inciampano, cascano a terra, frantumano bicchieri e combinano un grande fracasso.
E per me, non poteva essere diversamente.

Una volta, tornando dal panificio che adesso avevo il coraggio di affrontare da sola, vidi davanti a me un’immenso cartello azzurro, con la foto di un uomo molto brutto ma sorridente, che indicava una scritta in rosso.

Si leggeva qualcosa come: “Basta con l’ immigrazione clandestina!”.
Senza rendermi conto mi chinai, per poter passare davanti a quel cartello.
Non respirai nemmeno e andai avanti lentamente.
Quando finalmente lo superai, cominciai a correre ma subito mi fermai, perché capii che non era naturale correre in quel Paese e, peggio, correre senza il permesso, senza i documenti, senza chissà cosa…la mia mente aveva creato un grande pasticcio: cominciai a sentirmi una clandestina.
Non avevo mai avvertito nulla del genere prima d’allora e, di conseguenza da quel giorno in avanti, mi trovai soltanto in situazioni che nutrivano quella sensazione.
Ovunque mi girassi vedevo un carabiniere che faceva un controllo di documenti, sentivo brutte notizie alla radio, per televisione, infiniti dibattiti, litigi sugli autobus tra persone di Mondi diversi.
Non mi ero mai accorta della grande quantità di persone giunte da altre parti della Terra che vivevano sotto il cielo di Genova.
Quando potevo, parlavo con loro, volevo sapere della loro storia.
Però nulla mi diede consolazione sul sentirmi disadattata, strana, inferiore e… clandestina.
Quella sensazione si stava sviluppando tanto velocemente che non potevo più farne una ragione.
Oggi, di certo, ci avrei riso sopra.

Noi pagliacci possiamo essere dei disadattati, “strani” e clandestini, quando veniamo costretti al mondo della logica e della ragione: é per questo che facciamo ridere.
Comunque, in quel momento, non sentii più la mia voce interiore e nessun riecheggio della mia anima.
Ero scollegata dalla mia natura più profonda.
Ero come prigionera di un pesante sentimento d’inferiorità e, naturalmente vivere così,  stava diventando come una danza senza ritmo e di fragile equilibrio.
Nemmeno il mio rapporto con quell’uomo fu risparmiato da questa confusione mentale, che io stessa stavo creando.
Lui si accorse di questo, ma non poteva e non sapeva come aiutarmi.
Spinto anche dalle nostre difficoltà relazionali, veniva spesso rapito dalla “Signora del Danubio”.
Mi sentivo inferiore anche a quel “fantasma”, ed é stato proprio per questo mio atteggiamento emotivo che diventai gelosa della loro relazione platonica, al dì sopra di ogni difficoltà, lontana dalla vita quotidiana e dell’impermanenza  delle cose.
Forse in fondo, volevo soltanto essere anch’io, eternamente sorridente, nel prato di Piazza dei Miracoli.
Nonostante tutto questo fosse molto doloroso, non mi permisi mai di desistere dall’amore e dal vivere.
Ormai ero in cammino e in qualche modo trovai il coraggio di continuare ad andare avanti.
Sono sempre stata molto fortunata e la Vita non mi ha mai abbandonato in nessuna occasione.
Quando il mondo fuori, ed i genovesi, mi stavano apparendo troppo ostili, accadde qualcosa di miracoloso.

In una passeggiata sul lungomare, Giuliano ebbe una fantastica idea creativa, che mi commosse.
Ero felicissima per lui.
Dopo aver stimolato e creduto in tutti gli altri artisti che si erano avvicinati all’associazione, compreso me, era finalmente arrivato il suo momento, per creare e comunicare attraverso l’arte.
Aveva sentito un richiamo dal suo profondo, per realizzare il progetto artistico chiamato : 
“Sotto il cielo, Nuvole”.
Ci siamo messi a lavorare per questo immediatamente.
Per diversi mesi, lui incontrò persone di tutte le età, ne fotografò i sorrisi, condivise le loro emozioni e le ascoltò.
Furono tanti italiani di tutte le regioni, genovesi e stranieri, che avevano in comune di essere sotto lo stesso cielo.
Ho visto delle persone veramente arrabbiate e chiuse, che dopo essersi lasciate fotografare, mostravano il suo volto piu’ bello: quello umano.
Con questo mi riconciliai con i genovesi, con la “clandestinità” e cominciai a sentirmi meglio.
Presi nuovamente fiducia, ed ero riuscita ad ottenere lo spazio della Pinacoteca di Atibaia, per la realizzazione di questa Mostra, di questo curioso interscambio di sorrisi.
Quell’arte che era stata capace di guarirmi dalla malattia immaginaria di essere una “clandestina”.
Inoltre avrei potuto realizzare una mostra personale anch’io, una volta ritornata in Brasile.
E quel momento era vicino.

Sentivo d’essere stata completamente trasformata dalla mia permanenza a Genova e, quando pensavo al mio ritorno, avevo la stessa paura dell’ignoto di quando ero partita per l’Italia.

Cominciai a realizzare un’altra “coperta dell’attesa”.
Ogni giorno dipingevo un quadrato, che cucito ad altri sette, formava una settimana e cucito ancora insieme, formava dei mesi…
Mi preparavo per tornare.
Oggi ho imparato ad avere con me, una valigia, dove ho dentro tutto che mi serve dal Brasile.
E’ una valigia magica, che contiene tutti gli alberi di banane, il mare, le danze, il mondo invisibile e onirico delle mie foreste tropicali.
Oggi lo so, che posso vivere ovunque, perché quando ho bisogno di “quel Brasile”, semplicemente apro la mia valigia e mi tuffo dentro.

Ma in quel momento, non avevo ancora questo ingegno e pur sapendo di essere stata sicuramente molto felice a Genova, volevo assolutamente tornare a casa mia.

Katia




domenica 12 gennaio 2014

Capitolo 9: In viaggio


Capitolo 9: In viaggio                               – parte 1

La prima tappa fu far conoscere Katia a mia madre.

Mia madre, al momento di quell’incontro, era un’anziana signora sui 75 anni, convivente con mia sorella da poco tempo prima, ossia da quando, dopo una vita trascorsa insieme, ci dovemmo separare.
Insieme a lei, vicino o comunque costantemente presente, rimasi fino ai miei 35 anni.
In una casa del ponente genovese, l’assistii fino al giorno che mi accorsi dell’insostenibilità della situazione e della necessità impellente di cambiarla, in assoluta emergenza, dato era a repentaglio la vita stessa.
Di entrambi.
Corsi il rischio di comunicarlo alle sorelle e, solo una su tre, accolse l’appello e la ospitò con sè fino a che fu colpita da un lutto inaspettato.
Così fu trasferita con l’altra sorella, all’età di 85 anni.

Mia madre non aveva mai accettato nessuna delle mie compagne.
Ne aveva conosciute alcune, e tutte erano state sempre clamorosamente bocciate con una smorfia di semi-disgusto, una per un motivo, una per un altro.

Nata in Sicilia, a Catania, mia madre giunse a Genova a 19 anni, direttamente per sposarsi con un uomo che aveva solo conosciuto su una fotografia.
Era un matrimonio costruito dalle famiglie, per appropriarsi di beni di proprietà terriere.
Un matrimonio di interessi delle famiglie, non certo di mia madre, senza scuola, incapace di comunicare in italiano.
Il marito sarebbe stato un contadino piemontese, di bassa statura e di 13 anni più vecchio di lei.
L’”affare” era condotto dal fratello di mia madre, che la scortò personalmente a Genova per concludere nell’immediato questo matrimonio combinato.
Evidentemente mia madre entrò nella vita adulta con il piede sinistro, dato che l’”affare” si rivelò presto un’amara disillusione.
Infatti le proprietà, che sarebbero dovute essere ereditate da mio padre, non gli furono concesse e da contadino povero quale era prima, restò anche dopo, con in più, probabilmente, una pesante frustrazione.
Questa è una delle storie che ho dovuto ascoltare nella mia infanzia e anche dopo, e che qui riporto a brevi linee.

Forse, questo “esame” che sottoponevo alle mie compagne, aveva a che fare inconsciamente con il consenso di chi ritenevo un riferimento, nella mia vita.
Anche se il suo dissenso non mi faceva cambiare idea sulla relazione che vivevo, di certo non posso dire che mi facesse piacere, anzi, era sempre un attrito doloroso.
E che spesso mi influenzava.
Il legame morboso con mia madre era stato costruito metodicamente per molti anni.
Lei non poteva perdermi e questo lavoro di appropriazione del figlio, unico rimasto su quattro, fu molto violento, oggi posso dichiararlo.

All’età dei miei 20 anni, accadde un fatto.
Lavoravo ed ero riuscito a creare un piccolo risparmio.
Ho sempre tenuto a creare la mia indipendenza, ed il primo sogno da raggiungere era quello di abitare da solo.
Dunque arrivò il giorno che decisi di prender coraggio e tentare di raccontarlo a mia madre, l’unica dei due genitori con la quale avessi una relazione.
Entusiasta, le dissi della mia forte volontà di uscire finalmente di casa, di cercare un piccolo alloggio, economico, dove avrei potuto provare a cominciare a creare la mia vita. Ero intimorito da ciò che mi avrebbe potuto dire, ma era per me un percorso obbligato, dovevo passare attraverso il suo consenso, avevo bisogno del suo appoggio, perché comunque, per me era un salto nel buio.
Lei si dovette sedere.
Il colpo fu forte, forse nemmeno se lo aspettava. O forse si, non so.
Tremante, crollò in un pianto disperato, misto a rabbia e paura.
Un pianto di dolore senza uscita.
Era seduta davanti a me e io non sapevo cosa stavo cercando di dire.
Da seduta mi aggredì, dicendo che non potevo fare questo, e che se me ne fossi andato, se fossi uscito di casa, mai avrei potuto tornare.
“Se esci da quella porta, non tornare mai più! Non ti faccio più entrare!”
Non mi aspettavo davvero tanto.
Fui sorpreso e terrorizzato.
La mia giovane voce ribelle sarebbe corsa via, felice di esser finalmente libero. Potevo andarmene! Che importa del poi? Potevo andarmene…
Ma la trappola era profonda e ci cascai dentro.
Non riuscii a muovermi, nè più a dire una sola parola.
E da quel giorno mai più conversai con entrambi i miei genitori.
Una pietra enorme piombò sull’ingresso della mia vita, come una tomba.
E come in un lutto, tristemente taqui, per sempre.
Non potevo certo immaginare che lei non aveva responsabilità alcuna di ciò che io stavo soffrendo.
Lei stava soffrendo.
Lei aveva terrore di perdere l’unico riferimento per se, l’unico appiglio al quale dare il senso alla sua vita.
Lei aveva fatto un viaggio, da Catania fino a Genova, attraversando un mare nel quale stava annegando, nel suo mare di solitudine, di sacrificio, di senza amore.
E non aveva colpa nessuna se io scelsi di restare, presente e assente, zitto e immobile, per il resto dei miei giorni con lei.
La prigione era solo mia e io l’avevo costruita con le mie mani, nessun altro.
Ed ero sempre io il carceriere che mi portava alimento, per far si che rimanessi in vita, ma prigioniero per lungo tempo.
Un lunghissimo tempo.
E lei era innocente.
Era stata prigioniera di sé, anch’essa, della sua vita.
E ora, in quel giorno, era vittima, non certo carnefice.
E se avessi vissuto la sua vita, nel suo tempo, non avrei potuto fare le stesse cose anche io?  Anche io, non sarei caduto in panico nel restare solo, nel mio buio carcere?
Lei non sapeva che il mio non era un abbandono, lei aveva paura.
Una paura più grande di lei stessa.

Da allora sono trascorsi 28 anni e solo oggi, grazie a questo racconto che Voi,
miei compagni di viaggio, state leggendo, posso finalmente dirlo:
“io amo mia madre.”


In viaggio – parte 2


Come in tutte le altre occasioni, la famiglia di mia sorella e mia madre, ci accolsero sorridenti, ospitali e curiosi.

Io, ultimo figlio, ero l’unico di quattro a non aver conosciuto il matrimonio, né la paternità e, oltre ad essere diverso dagli altri nel modo di vivere e di veder le cose, ero colui che era rimasto più a lungo con i genitori, e infine il più giovane dei figli.
Tra le due sorelle e il fratello, avevo confidenza proprio con la sorella che ospitava nostra madre, vuoi per la minor differenza d’età, vuoi perché fu l’ultima a crearsi una sua nuova vita.
Non era molto che mia sorella accudiva nostra madre, ma quel poco era sufficiente per farle capire l’entità della difficoltà di averla vicina.
Di questo soffriva ma, stoica, voleva in qualche modo resistere e persistere nell’affidamento, nonostante il suo corpo, ingrossato e affaticato, non diceva la stessa cosa.
Comunque, eravamo con loro e Katia fu accolta come mai nessuna delle mie altre relazioni precedenti.
Riuscì a capire come muoversi nel terreno delicato di una famiglia italiana e, vuoi per la sua goffaggine naturale, vuoi per l’innocenza e allegria che ispirava, con il minimo dei voti, superò l’esame.
Nessuno certo avrebbe puntato un soldo, sulla continuità della nostra relazione, immagino, pensando tutti di conoscermi, ma questo non era importante ai fini dell’accoglienza.
Infatti mia sorella la riconobbe “simpatica”, anche se nel dirlo non riusciva a mettere esattamente a fuoco il termine. Come se volesse dire altre cose ma erano difficili da spiegare.
A mia madre, in un momento di pausa dopo pranzo, soli io e lei, chiesi a bassa voce se le andasse a genio. Non avevo aspettative, perché di certo l’ultima cosa che si può avere con mia madre è un’aspettativa positiva, ma comunque ci provai.
Lei abbozzò un sorriso e annuì.
Katia aveva vinto.

Lasciammo casa di mia sorella dopo questa svolta, il giorno stesso, e nella serata eravamo in Piazza dei Miracoli, a Pisa.
Lo stupore di Katia nel vedere quel luogo fu uguale a quello di un bimbo a DisneyWorld. Non di un bimbo di oggi, ma del medioevo.
E a Pisa, in un parcheggio appartato, in macchina, dormimmo quella notte.

L’indomani all’alba andammo al mare.
E poi, nel pomeriggio, eravamo a Siena.
E visitammo San Gimignano.
E girammo per le terre della Toscana, incantati dalle sue calde luci naturali.
Ed ecco che ci ritrovammo a cercare il Circo.

Eravamo a Nettuno, dove Katia, quattro anni prima, aveva conosciuto una famosa famiglia circense, dove aveva appreso il mestiere del Clown e conosciuto la vita del Circo.
Mi diressi subito nella piazza dove Katia sapeva avrebbe trovato il tendone.
Solo un parcheggio.
La piazza era stipata di automobili e nessun tendone, nessun circo sembrava fosse mai potuto esistere, in quel luogo.
Non mi arresi.
In non so che modo, trovammo qualcuno che conosceva la Famiglia dei circensi e ci consigliò di cercare ad Aprilia, dove abitavano. Lì li avremmo di certo trovati.
Nulla.
L’unico circo che trovammo non era il loro.
Stava diventando difficile e tormentato, dunque decidemmo di lasciar perdere e cambiare rotta.
Mi diressi a sud.
Arrivammo direttamente a Reggio Calabria, dove ci fermammo in un campeggio.
L’indomani eravamo sul traghetto per la Sicilia.

Ci fermammo in un campeggio sul mare, fantastico, dove i suoi scogli erano creati dalla lava del vulcano più bello del mondo.
L’energia di quel luogo è indimenticabile.
Il viaggio fino in Sicilia era stato preventivato fin da Genova, da quando presi un appuntamento con il Presidente di un Ente cattolico rinomato di una piccola cittadina siciliana, proprio per unire il sogno di Katia, (che purtroppo non riuscimmo a realizzare in quell’occasione) al viaggio di avventura, al viaggio per darearte.
Infatti prevedevo di presentare un progetto della nostra associazione alle Entità e Amministrazioni locali per creare un’eventuale collaborazione.

Purtroppo anche questo secondo sogno non si realizzò.
Confermato l’appuntamento, mi presentai ma il Presidente mi fece accogliere da un’equipe di funzionari che si scusavano per suo conto, dicendomi che non poteva esser presente.
Non sapevo che dire. Ero venuto da Genova per conoscerlo.
Ebbene, ci riunimmo comunque e parlai delle possibilità di sviluppo e di collaborazione che intendevo impiantare in quella cittadina.
Parlai mentre tutti mi guardavo assorti, attenti, impietriti.
Terminato il monologo, una di loro mi disse esplicitamente, anche se con un poco di imbarazzo, che “sembravo arrivato da un altro mondo”.
Mi disse che le mie idee erano straordinarie ma non sapevano come potevano essere compatibili nel loro sistema di cose che, forse, era diverso da come lo immaginavo.
Sono stati onesti e cordialissimi, la loro gentilezza mi fece dimenticare l’assenza del fantomatico Presidente, e pensai quanto questi ragazzi meriterebbero attrezzature, informazioni, coraggio e fiducia per poter cambiare le cose.
Loro potrebbero farlo.
Ma disconoscevo il sistema di quei luoghi e, anche se questa piccola esperienza me lo fece intuire, testardo, decisi di mettere il naso più a fondo.
Presi un appuntamento con il Sindaco.

Era in ritardo di un’ora al nostro appuntamento, e lo stavo aspettando nell’ufficio della Segreteria di quella piccola città.
Arrivarono due energumeni, con delle facce poco raccomandabili, che sembravano arrabbiati con tutti. A voce alta dissero, con accento marcato, che il Sindaco era impegnato altrove e sarebbe arrivato molto tardi.
Era un invito per farmi andar via e io lo accolsi serenamente.
Abbandonai lì l’idea di impiantare un seme della darearte, nella terra nativa di mia madre, in quella splendida terra, che l’energia calda e viva, mi ricordava quella del Brasile, al quale pensai subito dopo, ritrovando Katia che avevo lasciato sola al campeggio.
Probabilmente non era tempo per la semina.
Probabilmente non ero pronto io, in quel momento.
Questo, infatti, non significa che non si possa ritentare, con la giusta attenzione di cogliere il momento propizio.

Amammo ogni luogo del litorale est, da Porto Passero a Messina, sul quale scivolammo nel nostro pacato ritorno a casa e, attraversato lo stretto di Messina
per la seconda volta, lasciammo il vulcano dell’Isola dei Ciclopi e quella
meravigliosa Terra ai confini del mondo, che ho sempre saputo d’esser figlio.

Giuliano

Capitolo 9: In viaggio


Capitolo 9: In viaggio –                       parte 1

Era arrivata la buona stagione.
Faceva caldo e finalmente le mie scarpe di tessuto avevano un senso.
Eravamo pronti a partire per un viaggio e mentre lui riempiva la macchina di cose utili, io avevo una sensazione di Natale, di festa e di regali inaspettati.
E fu veramente un grande regalo.
Il viaggio più vasto che io mai avessi fatto.
Non necessariamente in relazione ai chilometri percorsi, ma per la diversità ed immensità di cose sconosciute e belle che si spalancarono davanti a me, in un breve periodo di tempo.
Fino ad oggi non riesco a mettere in fila questi ricordi.
Ognuno va per conto suo a suo piacimento, e qualcuno non appare nemmeno all’appello.
Non sapevo nulla sul nostro itinerario ed anche se lui mi avesse svelato qualcosa, non sarei stata capace di capire.
Non avevo alcuna conoscenza sulle regioni italiane e davvero non potevo immaginare come fossero. Quale immaginazione sarebbe stata tanto visionaria da creare un Paese così bello?
E con quale ingegno uno scrittore avrebbe creato un tale fitto intreccio di Regioni tanto diverse tra loro?
Davvero mi è sembrato di visitare tantissimi Paesi in un solo viaggio.

Siamo partiti e finalmente vidi Genova scomparire senza salutarmi.
Chissà se le altre città italiane erano anche loro stregate?
Eravamo diretti in Toscana e la prima sosta sarebbe stata dalla madre di Giuliano.
La volevo conoscere.
Dovevo ringraziarla, farle un inchino, donarle un fiore, come fanno i fedeli davanti alla Madre Terra. Infatti senza di lei, quell’uomo non esisterebbe.
Lui invece era teso e pallido, come qualcuno che deve affrontare una Sfinge.
Cercava di dirmi qualcosa, ma era confuso e aveva un filo di voce.
Comunque sia, i suoi timori non riuscivano ad influenzarmi, perché ero ingenua e assolutamente innamorata.
Conobbi tutta la sua famiglia, che era davvero squisita.
Mi sentivo come chi entra nella Città incantata di Oz, popolata da personaggi mai visti e dove, solitamente, tutto funziona fuori dalle regole conosciute.
Ci siamo messi tutti insieme attorno a un lungo tavolo.
Come per magia, sono apparse pietanze così saporite che pensai di non avere nessun enzima, nel mio corpo, capace di digerirle.
Ed era soltanto l’antipasto!
Poi arrivò il primo piatto, ravioli fatti in casa dalla sorella.
E in seguito, il secondo piatto, il terzo e l’insalata… e non finiva più!
Ero a quel tavolo già da tante ore!
Sembrava l’ultimo giorno della mia vita, quando si mangia per congedarsi dal Mondo.
Mi hanno versato nel bicchiere un vino toscano…  e allora sì, ero certa che fosse davvero il mio ultimo giorno sulla Terra, quando alla fine si può assaggiare la bevanda degli Dei.
Invece per lui era tutt’altra cosa.
Beveva quel vino senza cambiare il colore della sua anima, completamente immune all’effetto magico.
Era ancora molto teso e mi guardava come chi si aspetta il brutto finale di una favola.
Una di quelle favole dove il protagonista, dopo d’avere gustato un buon banchetto, viene mangiato dalla strega.
Però accadde diversamente.
Tra me e la sua madre ci fu subito una grande empatia.
Anche se io non le dissi mai nulla, aveva capito che la ringraziavo profondamente.
In modo enigmatico, mi invitò alla cucina.
Ero onorata, perché la cucina è il luogo incantato per eccellenza.
E’ dove si creavano quelle pietanze incredibilmente saporite.
E lì, in quel Regno, mi chiese se avessi qualcosa da dirle.
Io tacqui.
Lei annuì contenta, poi prese un coltello strano, me lo passò e mi fece tagliare il prezzemolo.
In questo momento condiviso, cercò di dirmi ciò che fino ad oggi non riesco a ripetere, semplicemente perché non apparteneva al linguaggio razionale.
Eravamo in un regno dove ogni donna può capire perfettamente ciò che è indecifrabile.
E in quell’esatto momento avevo afferrato la sua richiesta: voleva che io sposassi suo figlio!
Intuii che nella natura della sua proposta c’era qualcosa che andava aldilà del matrimonio.
Credo che una parte di lei, capace d’amare, mi stesse dando la sua approvazione.
Credeva che io potessi seguire il suo figlio ferito, fino agli abissi segreti.
Intuiva che io avrei sopportato il momento in cui lui mi avrebbe mostrato il suo più orribile volto.
Credeva che io avessi il coraggio di annegare, come Moema.
Mi dava la sua benedizione, affinché io proseguissi quel lungo e arduo cammino verso l’Amore.

Ero scossa, vivevo un misto d’allegria e paura per l’immenso lavoro che avevo davanti a me.
Tornai al tavolo gigante per il dessert e guardai Giuliano.
Quell’uomo che prima sembrava invincibile, adesso sembrava che trattenesse dentro di se, un pianto antico.
I suoi capelli di argento di luna, ora, erano scoloriti.
In mezzo alla sua rumorosa famiglia, era una specie di “brutto anatroccolo”.
Capii che qualsiasi cosa lui potesse fare o dire, era immediatamente incompresa.
Succede, a volte, di essere un uovo di cigno caduto in un nido d’anatre e nessuno è colpevole di questo.
Per lui sarebbero stati necessari molti altri anni, prima di fermare questa sofferenza.

Invece noi eravamo soltanto all’inizio di questo viaggio per l’Italia, e all’inizio del nostro viaggio insieme.
Come avrebbe previsto profeticamente sua madre, a me aspettava un lungo lavoro, che mi avrebbe portato anche ad un amaro incontro con me stessa…
Però, tutto era appena cominciato.
Stavo finalmente, comprendendo meglio quell’uomo.
Il perché della sua ferma intenzione di non intraprendere nessuna relazione, né con me, nè con nessun’altra.
Inoltre, realizzai che aveva ancora molto vivo in lui, un sentimento platonico per la sua precedente compagna e che, a volte, lei girovagava tra di noi, quasi come una presenza.
Cominciavo a intuire tante nuove cose, sia belle, sia difficili.
Stavo per perdere la mia ingenuità.

Avevo il dubbio di avere il coraggio sufficente per fare il passo successivo dopo la fase dell’innamoramento e sono sicura che lo stesso valesse anche per lui.
Ma tra noi, c’era ormai una forza che ci sosteneva anche nelle ore più buie, che superava ogni paura.
E nonostante pensavo che fosse una relazione impossibile, ecco che lui mi accennò la sua inarrestabile capacità d’amare: scoprii che, in questo viaggio, aveva pianificato l’incontro con il Circo.

Mi regalava il mio proprio sogno.

In viaggio – parte 2

Ero dentro la macchina, e guardavo tutta la sua famiglia salutarci dal balcone di casa.
Anch’io li salutavo, a grandi gesti e tante volte, finché la loro sagoma non sparì dal paesaggio.
Il cielo già era tutto blu scuro e pieno di stelle, quando arrivammo davanti a delle mura con uno strano piccolo portico.
Lui non mi disse nulla ed entrammo insieme.

Dalla piccola porta apparve una gigantesca piazza, tutta verde, con strani palazzi bianco-fantasma che sembravano essere sospesi.
Mi misi a correre e alla fine la vidi: la torre di Pisa, ero nella Piazza dei Miracoli!
Quel posto non poteva avere un’altro nome!
Più e più volte chiusi gli occhi per svegliarmi da quel sogno, ma quando li aprivo la Piazza era sempre lì.
Quella Torre non era un’illusione collettiva, esisteva davvero!
Ed era piccola, ma allo stesso tempo smisurata, incapace di stare dentro uno sguardo.
Stavo morendo dalla gioia e non riuscivo a guardare contemporaneamente la Piazza verde-smeraldo, la Torre e quell’uomo.
Era troppa bellezza messa insieme e non ero pronta.
Comunque sia, il coraggio mi mancò lo stesso.
Volevo dimenticare la promessa velata che feci a sua madre di affrontare i pericoli, di intraprendere il tortuoso cammino di pietre verso l’Amore.
Niente pietre, volevo restare lì per sempre, su quel prato verde incantato, rinchiusa in quell’esatto momento per tutta l’Eternità.
Però, mai avevo visto un fiume fermarsi.
(anche se un contadino della mia città, mi aveva garantito e giurato che a mezzanotte il fiume si fermava per fare passare l’uomo-lupo)
Ma credo che, in realtà, la natura del fiume sia quella di seguire in avanti, come il tempo e la vita.
E così fu, e il viaggio proseguì.

E le cose diventavano sempre più belle, che quasi facevano male, come le rose piene di spine.
Fino ad oggi, non saprei dire esattamente i nomi delle città che abbiamo visitato, però ricordo vivamente di aver avuto il cuore in mano quando siamo entrati nella regione del Lazio, per ritrovare il Circo.
Una marea di pensieri andavano su e giù dal mio corpo senza controllo.
Passavano nei piedi, nello stomaco, in mezzo agli arti, in una parte del cervello e poi tornavano facendo una sosta nella gola e si tuffavano nel cuore per farlo scompigliare.
Non sapevo come affrontare un’incontro atteso per quattro anni.
Per lungo tempo questo era stato l’unico pensiero luminoso della mia vita, quella voglia di ritornare ad un posto tanto amato… ma sentivo che non ero più quella che aveva desiderato tutto questo… però se non fossi tornata a rivedere il circo, sarei stata come prigioniera di un miraggio…
Ad un tratto cominciai ad avere paura dei miei pensieri.
Ma per un’altra volta, la vita mi soccorse dalle inutili teorie e preoccupazioni.

Tornate al primo capitolo di questa storia; andate pure, che vi aspetto.
Al vostro ritorno forse mi chiederete di predire la Vostra sorte, perché io ho azzeccato in pieno la mia.
La mia unica eredità ricevuta dal Brasile è lo stato onirico con il quale vedo la Vita.

Allora:
nel luogo dove c’era una volta il Circo, dove sono stata il bersaglio vivente per il lanciatore dei coltelli, dove ho tirato in aria dei piatti, dove avevo il corpo tutto coperto delle risate dei bambini… adesso c’era un parcheggio.
La visione di quel parcheggio al posto del Circo…l’ho sognata per anni…credevo fosse soltanto un incubo!
Una connessione? …una predizione? …chissà?
L’unica cosa che posso dire è che l’averlo sognato spesso, mi alleggerì l’impatto con la realtà.
Avevo già pianto talmente tanto in sogno che davanti a quella visione non ne soffrii poi tanto da far male al cuore.
In quel parcheggio squallido, vidi passare Anna, una donna sofferente, che era stata una frequentatrice fedele agli spettacoli del Circo.
Ci invitò a casa sua per una tazza di caffè e mi raccontò che quando in Italia è avvenuto il cambio della Lira per l’Euro, il Circo chiuse.
E che ora, loro facevano solo piccoli spettacoli di strada, ma che lei non sapeva esattamente dove.
Mentre parlava, la sua malinconia era talmente grande da fermare il vento fuori.
Mi sentivo soffocare.
Capii che l’assenza del circo aveva lasciato un vuoto nella sua vita e di come l’arte, anche se inutile, può sostenere delle vite umane.
Invece quell’uomo era determinato a rintracciare la famiglia del Circo ad ogni costo.
Mi voleva bene!
Questo era diventato anche più bello di tutto il resto.
Partimmo per Aprilia, dove sapevo che i circensi avevano il loro camper.
Non sapevo l’indirizzo preciso, ma qualcuno ci disse che c’era un circo, due quartieri vicino.
Nuove speranze rinnovate.
Ci arrivammo correndo, e da lontano vidi il tendone, vidi il camper, vidi il circo… ma non erano loro e nessuno ne sapeva nulla.
A questo punto, stranamente, mi sentii bene.
Ci siamo arresi, non avevamo altro da fare che gustare un piatto di pasta all’arrabbiata, ed era tanto buono proprio perché aveva il sapore del nostro presente.

Sapevo già che non è sano vivere nel passato, girarsi continuamente indietro.
Sta scritto da tutte le parti: Orfeo che guarda indietro l’amata e questa sparisce, la moglie curiosa che guarda indietro la città di Gomorra e si trasforma in una statua di sale.
Ebbi la sensazione che a forza di guardare indietro per tanti anni, l’immagine fissa del Circo mi aveva trasformata in una pietra e la mia vita si fosse fermata.
Ma adesso l’incantesimo era spezzato e potevo essere finalmente libera e camminare avanti.
Anche se nel mio cammino avessi trovato altre streghe, draghi e fantasmi da sconfiggere, è sempre meglio vivere, che essere di pietra.

L’arrivo in Sicilia fu, veramente, il primo passo verso l’amore.
Mi richiedeva coraggio.
Ero profondamente sconvolta della forza naturale di quella terra.
Però, in mezzo a quel paesaggio epico, ai piedi del Vulcano, quell’uomo sparì.
C’era e non c’era.
Si muoveva, parlava, cantava, ma la sua anima era altrove.
Tutt’oggi, lui ha questo stile di vita, sparisce dentro di sé per un tempo, per poi tornare rinnovato e felice.
E’ una cosa molto bella da fare e con il tempo ho imparato a rispettarla, ma in quel momento, non si trattava di un semplice e benefico sparire.
Era stato rapito della Signora del Danubio.
Quell’uomo continuava a nutrire un sentimento platonico per la sua precedente compagna e, di conseguenza, lei era diventata superiore a qualsiasi altra donna reale e stava diventando una potente entità, un fantasma, che ho soprannominato “Signora del Danubio”.
La prima volta che lo vidi così abbagliato da questo spettro, fu proprio in Sicilia e provai un dolore che, per diversi anni, mi fece annullare ogni ricordo di quel soggiorno.
Però, adesso che posso toccare liberamente i miei ricordi, so per certo che è stato un soggiorno bellissimo!
Lui era rapito, ma quando tornava da quel mondo irreale, mi sventolava una piccola bandiera, per mostrarmi il sentiero dove potevo ritrovarlo perchè anche lui voleva raggiungermi.
Sì, è stato davvero un bel viaggio.
Quel mare, quelle rocce, quell’imponente Vulcano, tutti loro mi suggerivano:
“Vai avanti, non ti fermare, fatti coraggio!” e diedi loro ascolto.

Decisi d’amare quell’uomo così com’era, con tutto ciò che aveva, con il suo cuore protetto da uno scoglio, con l’anima fragile e con un fantasma al suo fianco.
Anch’io, in seguito, avrei scoperto di avere dei miei scogli, ma entrambi, imparammo a sventolare le nostre piccole bandiere, anche in mezzo alla nebbia più densa, e questo ci serviva per farci ritrovare ogni volta e continuare a camminare insieme.

Katia
  

domenica 5 gennaio 2014

Capitolo 8: In Cammino.


Capitolo 8: In Cammino.

Allestimmo la mostra, a Genova.
Io e lei. Nessun altro ci aiutò.
Nessuno di coloro che sapevano e nemmeno coloro che potevano.
Le visite, invece, furono soddisfacenti.
Fu un successo nel gradimento e vendemmo alcune opere.
Avevamo raggiunto il nostro obiettivo, presentare darearte, l’artista e il suo lavoro e sensibilizzare 
ad altre realtà.
Conservai per molto tempo le firme ed i commenti dei visitanti, come un trofeo.

Fu molto stancante per l’impegno, il tempo trascorso nella sala espositiva e per quello dedicato 
a rispondere a domande innocenti, assistendo alle conseguenti smorfie incredule di coloro 
che ne ascoltavano la risposta.
Credo che succeda ad ogni persona di non essere compreso, almeno una volta nella vita.
Io e Katia, avevamo (quasi) l’abitudine all’incomprensione.
L’avevamo vissuta per lungo tempo, ognuno nella propria vita e ora, con darearte,
si riproponeva prepotente.
Avevamo deciso di non dargli molto peso, anche se questa portava con sè sempre un dispiacere.
Ma in questa incomprensione non necessariamente è responsabile chi ascolta.
A volte si può trattare di difficoltà comunicative, o di assenza di sintonia.
Oggi, finalmente, posso dire che si tratta fondamentalmente di una diversa percezione delle cose.  
E di questo non ci si può di certo lamentare.

Conclusa questa prima mostra, ottenuti consensi e aperture, Katia fu invitata ad un’altra esposizione in Genova, una mostra collettiva di artisti di diverse parti del mondo.
E dopo un altro evento, che promuoveva darearte e i lavori artistici di Katia, realizzammo insieme, un murales per una piazza di Genova.
Per Piazza Elah fummo invitati dal Comune di Genova a dipingere su una parete del parco-giochi pubblico, dove era stata da recente installata anche una fontana, anch’essa creata da un’artista.
Scegliemmo una parete che era stata vandalizzata con insulti scritti a bomboletta, per prendere due piccioni con una fava.

Dopo aver lasciato a me la parte di preparazione della parete, Katia cominciò a creare la storia da riprodurre.
Si trattava della rappresentazione di Atibaia, la sua città.
Su di una barca, diversi personaggi, di diverse nazionalità, approdano ad una terra vivace, colorata, con animali e piante, e due Chiese dove, durante la tradizionale festa in costume chiamata Congada, si uniscono in una vivace danza la gente ed una coppia di sposi.  Il tutto sovrastato da una montagna di pietra, simbolo della città.
Questa era Atibaia, ed ora era presente anche a Genova, grazie a Katia.
Non so quanto tempo resistette, quel murales, e se oggi è ancora integro, ma di certo per almeno tre anni nessuno mai lo imbrattò. Era come se fosse rispettato anche dai più temibili vandali del quartiere, forse protetto da quella magia con il quale era stato creato.

Dopo questa donazione a Genova ed omaggio ad Atibaia, ci dedicammo ad organizzare un’altra esposizione di Katia, di opere create durante la sua permanenza a Genova.
Questa volta era ospite  in uno spazio d’arte e teatrale, nel cuore del centro storico della città,  un centro di riferimento per la cultura cittadina e in un luogo di richiamo di alto prestigio.
Questo ci esaltò al punto che dedicammo tutte le nostre forze per la miglior realizzazione della mostra.
Io stesso mi preoccupai della costruzione delle cornici e dell’installazione delle opere, all’interno del palazzo duecentesco, strutturato a più livelli, creando un percorso con le opere di Katia.
Fu un successo ancor maggiore della prima esposizione e fummo davvero molto contenti del riconoscimento del pubblico, di critica e dell’attenzione della stampa.
Anche i risultati economici furono importanti e anche questo ci confermò che eravamo sul cammino giusto.
Fu durante la mostra che ci richiesero di realizzare una meridiana, un orologio solare, per la facciata frontale di una Chiesa in provincia di Genova, nel Comune di Torrazza.
Il Parroco aveva l'impellente necessità di dare un’immagine all’ingresso della Chiesa, che una recente ristrutturazione aveva reso completamente grigio e poco attraente.
Entusiasta, studiai a fondo tre diversi libri su come si costruisse una meridiana. 
Visitammo il posto, facemmo il progetto, montammo le impalcature, preparammo la parete, creammo lo schema, creammo l’orologio, il dipinto e in una settimana di lavoro, ecco la meridiana per la chiesa con gli angeli e la scritta voluta dal Parroco.
Eravamo felici per aver creato un’altra opera insieme e aver costruito un’orologio che funzionava 
“a raggi solari”! 
Firmammo con i nostri nomi e con darearte, che per noi, allora, era la nostra pelle.

Oltre questi, facemmo anche lavori finalizzati alla raccolta fondi, per un’economia che potesse dare forza ai progetti dedicati ai bambini, in Brasile, dove saremmo tornati non appena possibile. 
Ma prima di ritornare in Brasile, Katia aveva un sogno da realizzare: incontrare la gente del Circo, coloro che le avevano fatto conoscere il suo Clown e per i quali nutriva una profonda riconoscenza.
Allora, tra un progetto darearte e l’altro, tra un’impegno e l’altro, decisi di sostenere questo piccolo sogno che, pensavo, le avrebbe risolto molte questioni rimaste in sospeso.

Partimmo con la mia vecchia auto, una piccola tenda da campeggio e pochissimi soldi.

Giuliano



Capitolo 8: In cammino


Capitolo 8: In cammino

Belin, e adesso...?
Questa fu la frase che scrissi in un dipinto che rappresentava una donna con il proprio cuore in mano.
Non c’era nessun’altra parola disponibile per descrivere cosa provavo davanti a quel nuovo Mondo, e questa immagine, la raccontava.
Non capivo assolutamente nulla di quella città, di quella gente, di quello che vedevo, udivo, annusavo e mangiavo.
E non capivo niente, principalmente di quell’uomo.
Non sapevo come muovere il mio corpo in quelle vie, non osavo correre, cosa che per me era prima naturale.
Molte volte bloccavo un gesto a metà, nel dubbio.
Molte volte facevo l’opposto e mi sfuggiva un gesto nel momento sbagliato.
Tutto era in sospeso, come in una favola dove la protagonista attraversa un passaggio segreto e cade in un Mondo fantastico, dove niente funziona come, prima, lei conosceva.
I sentimenti erano così immensi e potenti che non riuscivo a tenerli dentro.
Uscivano in forme di colorati dipinti.
E meno male che quell’uomo mi diede tutto il materiale possibile per dipingere.
E che fortuna che c’era una mostra da fare, perché questo mi dava una direzione, un obiettivo pratico, altrimenti non sarei stata capace di sopravvivere a tanto sentimento.
Credo che anche per lui fosse necessario trovare un sentiero, un margine del fiume, dove aggrapparsi e non lasciarsi trascinare della corrente.
Ci siamo concentrati tutti e due, nella realizzazione della mostra e di altri progetti della darearte, realizzati in Italia.
Tutti i giorni dipingevo e avevo già creato un numero di dipinti uguale a quelli che avevo portato dal Brasile.
Era tutto pronto per l’esposizione.
Mancava un giorno all’inaugurazione della mostra e Giuliano mi portò, in moto, nel centro storico di Genova, per comprarmi un paio di scarpe.
In vita mia, non ero mai salita su una moto o qualcosa di simile.
E mai avevo immaginato di girare su quell’affare, abbracciata ad un uomo così bello.
La città, che era sempre nascosta,  adesso sembrava un serpente che non finiva più, e noi, sopra le sue spalle, volavamo con il vento in faccia.
Ad un tratto si spalancò davanti noi una strada volante, che chiamavano “sopraelevata”, e lui si mise a cantare.
E poi apparve il Porto, con tutti i suoi colori monocromatici.
Sentii un mancamento, poiché certe bellezze, non dovrebbero essere messe tutte insieme, altrimenti c’è il rischio di esserne schiacciati.

Nel centro storico ebbi paura, perché quelle sue vie strette erano infinite e stregate.
Avevo l’impressione che se mi fossi allontanata da quell’uomo, anche per un attimo, non avrei mai più ritrovato il cammino di casa.
Questo mi fece tanta paura, che mi venne l’aria nella pancia.
Nel negozio, mentre la commessa mi parlava delle scarpe, io non pensavo a nulla, tranne che a trattenere la scorreggia.
E poi, dentro di me, tutto era confuso, mi vergognavo di essere arrivata in Italia senza scarpe decenti, mi sentivo a disagio per io essere io, e alla fine scelsi delle scarpe qualsiasi, senza pensare.
Erano le più buffe che avessi mai avuto, e negli anni successivi le usai per miei spettacoli da Clown.

Questa gita in moto fu l’ispirazione per un’ultimo dipinto: io e lui su un cavallo rosso che volavamo su una città incantata.
Durante la Mostra, tutti volevano comprare questo dipinto, forse perché aveva una grande energia, ma fu l’unico quadro che quell’uomo non volle mai vendere.
E fino ad oggi, è con noi.

Il successo della Mostra, ci ha spinto a realizzare nuovi progetti, e questi ne hanno spinto altri ancora. Ormai non ci saremmo più fermati, nonostante le diffidenze e le difficoltà naturali.
Lavoravamo insieme in armonia, perché avevo la follia sufficiente per credere nell’impossibile e lui aveva il senso pratico per fare di quell’impossibile, divenire realtà.
Di questo modo, l’associazione acquisiva visibilità e cresceva.
E crescevamo anche noi.

Piano piano, quell’uomo mi insegnò tante cose: come fare una cornice per un dipinto, come preparare una parete per un murales, come usare un citofono, come prendere un treno, come muoversi in quella città stregata, come affrontare la commessa del mercato, come comprare un’etto di prosciutto… anzi mi fece conoscere i prosciutti.
Mi mostrò i segreti per salutare gli anziani genovesi dallo sguardo minaccioso ed infine mi regalò tutte le sue parole e, presto, cominciai a parlare in italiano in modo comprensibile.
Ovviamente questo non fu difficile perché appena lui pronunciava una parola, questa mi era già entrata nel cuore e migrata al mio cervello.
Però c’era una cosa che lui non poteva insegnarmi.
Come vivere veramente in quel nuovo Mondo?
E come iniziare un rapporto d’amore?
Per fare questo, era impellente un cambiamento.
Ed ero già in trasformazione, anche se non volevo.
Sicuramente, questi cambiamenti mi hanno portato grossi dolori, ma anche tante gioie.
Eravamo entrambi disposti alla trasformazione e, proprio per questo atteggiamento, darearte crebbe velocemente e, a giudicare dai numerosi progetti eseguiti in tutti gli anni successivi, era come se lavorassero insieme un grande numero di persone, mentre in realtà tutto girava intorno a noi due, con la nostra voglia di vivere e di condividere.

Dunque, la mia permanenza in Italia era scaduta e dovevo partire.
Ci guardammo in silenzio.
Vivevamo un momento pieno di creatività e di sviluppo dell’associazione e non avevamo ancora avuto il tempo necessario per volersi separare uno dall’altro.
Restai.
Volevamo portare avanti i nostri progetti e solo dopo, insieme, ritornare sul fronte in Brasile.

Partimmo per un lungo viaggio, diretti verso la Sicilia, per un incontro con un rinomato Ente di assistenza sociale.
Non avevo paura di attraversare l’Italia senza essere in regola, con il permesso di soggiorno scaduto.
Nemmeno ci pensavo, la parola “clandestino” non mi donava.
Preferivo altre parole come: “coraggio di vivere”.

Katia