INFORMAZIONI SU QUESTO LIBRO-BLOG

Questa storia narra di dieci anni vissuti da Katia e da Giuliano.
Il racconto è un "binario", costruito a "doppi capitoli", scritti individualmente dai due autori.
Ogni anno raccontato, dal 2003 al 2013, racchiude cinque capitoli, al termine dei quali,
si conclude un paragrafo e sono pubblicate delle immagini inerenti gli stessi capitoli.
Il libro, nel suo complesso, avrà pertanto 10 paragrafi, composti da 5 doppi capitoli ciascuno.
La pubblicazione di ogni nuovo capitolo avviene senza un tempo determinato, essendo attualmente in fase di creazione.

p.s.: non possiamo essere responsabili della traduzione tramite google che, purtroppo, risulta NON essere completamente compatibile con il testo originale in lingua italiana.

contatto:emaildiecianni@gmail.com
Grazie per seguirci.
Katia & Giuliano

domenica 23 febbraio 2014

Capitolo 13 - sotto il cielo, Nuvole


Capitolo 13 - sotto il cielo, Nuvole - parte 1


“sotto il cielo, Nuvole di Genova” era pronto.
Le gigantografie dei sorrisi volevano incontrare il loro pubblico.

La Pinacoteca di Atibaia non aveva lo spazio sufficiente per un allestimento così complesso come lo avevo progettato, ma era il più grande spazio che il Municipio potesse mettermi a disposizione, e allora la adattai.

Il lavoro dell’allestimento fu senza aiuto alcuno e come al solito, io e Katia, ci mettemmo al lavoro.
La sua complessità ci fece dannare per molte ore in quei giorni di caldo afoso.
Eravamo sfiniti, completamente sfiniti.
Sembrava dovessi mantenere una parola data, un impegno con il mondo intero, una sfida contro la morte stessa, ma dovevo farcela, in tempo, in quel breve lasso di tempo, ad allestire la mostra, come meglio potevo, per il rispetto che avevo per coloro che erano presenti nelle mie immagini.
Ricordo molto bene che quasi svenni.
Ero semi addormentato su una piattaforma in legno che serviva alla mostra e Katia era preoccupata seriamente per me.
Forse pensò che fossi impazzito.
“Rinuncio.”dissi.“…non ce la faccio più…”
Stavamo andando contro corrente.
No, tutto ci era contro, anche noi stessi.
Non ho presente la reazione di Katia, dato il mio momento confusionale, ma so che lei mai mi abbandonò.
Sarebbe stata con me se avessi rinunciato o se avessi dato l’ultima goccia di sudore e sangue, in quelle ultime ore notturne, prossime all’inaugurazione.
Non avevo forze e mi sentivo svuotato.
Ma qualcosa accadde.
E mi ritrovai sulla scala, per la milionesima volta, ad appendere l’ennesima grande immagine, pensando o dicendo, “lo faccio per Voi.”
Continuai come non so, ma so che fino al momento dell’apertura, stavo ancora sistemando le ultime immagini, senza aver dormito la notte prima, perché eravamo chiusi lì dentro.

Le 80 immagini erano fissate a due metri di altezza e facevano il giro del salone posizionate in circolo grazie a un complicatissimo labirinto di fili invisibili.
Altre 80 piccole immagini, su una piattaforma centrale, delle stesse persone ma ritratte a volto serio.
Un proiettore illuminava una serie di teloni, fissati sul soffitto della sala con le immagini di nuvole in movimento.
Musica di fondo, insieme alle voci registrate, erano la colonna sonora, diffusa da un sistema audio in tutta la sala.
Un sipario lo avevamo istallato per dividere la sala espositiva da quella da una performance teatrale.
E il momento dell’inaugurazione avvenne.

Era per me necessario che il pubblico entrasse nello spazio riservato alle immagini, già preparato all’incontro e avevo studiato una performance teatrale che avrebbe aiutato in questo.
Chi oltre Katia, che aveva seguito e vissuto tutto il processo della realizzazione del progetto, poteva essere l’attrice?
Vestita di nero in piedi sul balcone della reception, accolse il pubblico, che era curioso e impaziente.
La sua performance era una ripresa di ciò che avevano raccontato i miei intervistati.
Loro erano ancora protagonisti con la loro vita, ma questa volta rappresentata in forma teatrale.
Le loro emozioni, donate al mio microfono, venivano rielaborate per creare nuove emozioni.
Magia del Teatro.
Magia di Katia.
Il testo era basato sul filo della vita e, l’attrice, aveva in mano un gomitolo di filo rosso.
Al termine del suo racconto, metteva nelle mani di ogni spettatore, una parte del filo, fino a creare una catena di persone e, continuando a dare suggestioni sulla metaforica appartenenza di quel filo, finalmente, apriva il sipario che divideva la sala e invitava il pubblico, unito dal filo rosso, a entrare, nella musica, tra le nuvole, e tra i sorrisi.
Fu magico.

Questa prima esposizione di “sotto il cielo, Nuvole” ci portò ad essere maggiormente conosciuti dalla parte sociale più benestante della città, al punto che si può dire che questo fu effettivamente il nostro primo biglietto da visita per un interscambio tra i Paesi, dove la poesia voleva essere la chiave che apriva la porta, e che l’amore doveva essere l’unico argomento di questa conversazione.

Il nostro compito non sarebbe stato concluso, se questa mostra non l’avessero visitata anche chi non aveva mai avuto prima accesso a certe informazioni.
Per questo chiedemmo al Comune la possibilità di utilizzare un autobus, con il quale invitare il pubblico che sognavamo di avere: coloro che avevamo visto crescere con noi, i ragazzi della comunità religiosa, che si emozionarono solo all’invito, e le famiglie coinvolte nei nostri progetti, residenti nella favela, che portarono con loro tutti i loro figli, vestiti con il più bell’abito da festa.

Fu un onore per noi ripresentare la performance dell’inaugurazione, dedicandola a loro.
Conclusa la parte teatrale, dopo alcuni minuti accesi le luci per invitare i nostri cari amici ad un applauso, rivolto a Katia.
Quell’applauso ha ancora eco dentro di noi, perché era carico di amore e riconoscenza.

Ci guardammo negli occhi e ci commuovemmo insieme, finalmente, per noi stessi.




sotto il cielo, Nuvole - parte 2

Un proiettore rumoroso, super-otto si chiamava, e il suo fascio di luce, piccolo perché proiettava le sue immagini sulla vicina sponda del mio letto.
Di notte, prima di dormire e di nascosto dai miei genitori, guardavo il mio cinema.
Erano cartoni animati, a colori.
E comiche.
Due o tre film, sempre gli stessi, avuti chissà da chi e come, ma erano il mio cinema, per un breve periodo di tempo.
Poi scomparvero, e anche di questo non conosco il motivo.
La memoria è uno scrigno difficile da aprire.
Rivela cose e altre le oscura.
Forse esiste uno scomparto nascosto, in quello scrigno.
Forse dovremmo cercarlo.

Era prevista nel progetto “sotto il cielo, Nuvole” la realizzazione del ritorno a Genova, con le immagini dei sorrisi dei brasiliani.
Ma non avevo uno studio fotografico a disposizione e allora pensai che fotografare durante l’esposizione poteva essere un’idea.
Infatti molte furono le adesioni, ma sentii che non dovevo stare fermo in un unico luogo.

Sempre con Katia al mio fianco, fermai persone per la strada, nella piazza centrale della città, nei negozi, ovunque incontrassi una possibilità di scambio.
Ripresi il sorriso di un barbiere, nel suo negozio fatiscente, immigrato dal nord alla ricerca di una vita dignitosa, forse mai trovata, vicino alla grande metropoli, fotografai la proprietaria di un piccolo bar, straordinaria, viva e forte, con i seni giganteschi per contenere il suo grande cuore, fotografai un anziano signore, distinto, nobile, che sorrise con l’eleganza di un principe esiliato, fotografai bambini, donne, uomini, due transessuali, uno dei quali fu pianto pochi mesi dopo per il suo omicidio, fotografai la venditrice di oggetti di magia nera e bianca, una signora che gentilmente si offrì per donare il suo sorriso, anche se forse non ne aveva mai fatto uno in vita sua, fotografai Jorge, sua madre, sua nonna e sua sorella, fotografai i nostri amici volontari, fotografai un uomo di strada, ubriaco, che si sforzò per mostrare il meglio di sé, fotografai il sindaco di Atibaia, che anche lui si sforzò ma non riuscì a dare il meglio di sé, fotografai politici, bambini orfani, assessori, ragazze madri, persone miti, violente, padri e figli, fotografai tutti coloro che volevano esserci, spazzini, muratori, casalinghe, donne molto ricche, donne senza nulla, tutti sorridendo, tutti donatori.

E poi andammo in una casa di riposo per anziani.
Era l’abbandono la prima sensazione che mi colpì, quando entrai, e la profonda solitudine, la morte, nel suo aspetto più tetro, era presente come un’ospite fisso.
Chiesi i permessi ai responsabili dell’Entità e invitai gli anziani ospiti a partecipare.
Alcuni di loro non erano in condizioni, ma altri furono lieti di sorridere, senza denti, senza nulla, sorrisero.
In quell’ospizio, tornammo ancora, gli anni dopo, per portare la nostra energia, con clown e intrattenimenti, ma mai più rividi le persone che quel giorno donarono il sorriso.

Questa volta il “sotto il cielo, Nuvole” era cambiato.
Era più aperto, senza la barriera dell’età calibrata dalla mia precisione metodica, e furono 120 le persone che si prestarono al progetto.
Scelsi di fermarmi a questo numero perché sapevo che altrimenti non avrebbe avuto mai fine.
Le fotografie erano su pellicola che, una volta stampate e convertite in file digitali, assemblai in un video, aggiungendo una musica di sottofondo che avevo registrato in una festa folcloristica della città.

Ed ecco a voi, “sotto il cielo, Nuvole di Atibaia”.
Atibaia lo vide in una proiezione pubblica, e uscì anche un articolo sul giornale, e poi Katia lo portò con sé in Francia ad un Festival dove lei, attraverso la sua arte, rappresentava la sua città e, dopo ancora, lo mostrai a Genova, per chiudere definitivamente il cerchio, per completare il ciclo con la risposta al sorriso, con un altro sorriso.

80 sorrisi di Genova.
120 sorrisi di Atibaia.
E non sorridevano a me o alla macchina fotografica.
Sorridono a Te, che stai leggendo, ora.

Giuliano

sabato 22 febbraio 2014

Capitolo 13: Sotto il cielo, Nuvole


Capitolo 13: Sotto il cielo, Nuvole


Ad Atibaia le classi sociali erano nettamente divise, come fossero due margini di un fiume e, questi margini, erano due rette paralelle.
E come spiega la matematica: le rette paralelle non si incontrano mai, soltanto all’infinito, e questo infinito potrebbe chiamarsi arte.
Credo che nelle due mostre d’arte che abbiamo realizzato nella Pinacoteca di Atibaia, siamo riusciti, fosse anche per breve tempo, a far scomparire il confine che divideva le persone.
A Genova avevo visto, oggettivamente, la trasformazione immediata della gente e dalla realtà attorno a loro, soltanto per il fatto di lasciarsi fotografare da Giuliano.
Ero trasformata anch’io, cambiando la paura, che avevo allora, per i genovesi.
Capii che la comprensione della diversità non parte del “tollerare”, accettare o idealizzare l’altro, ma comincia sempre con un sguardo su di sé, con la nostra capacità di ascoltarsi e di connettersi.
Quello che proponeva il progetto : “Sotto il cielo: Nuvole” aveva questa profondità e qualcos’altro di invisibile che non riuscii mai a capire fino in fondo; semplicemente accadeva.
Realizzarlo a Genova o ad Atibaia fu ugualmente straordinario.
Sono stata a fianco a quell’uomo per tutto il suo processo creativo in entrambi i Paesi.
Mostrare i sorrisi portati da Genova fino in Brasile e poi fotografare 120 brasiliani fu davvero commovente.
Quei sorrisi donati sono una delle belle cose che ricorderò, un poco prima di abbandonare questa Terra, insieme al sapore delle olive nere.

Con questo progetto iniziò effetivamente un interscambio internazionale tra Atibaia e Genova e permise alla nostra piccola associazione di svilupparsi più in fretta.
In breve avremmo ricevuto l’appoggio istituzionale dell’Amministrazione Pubblica di entrambe le città.
Nonostante creassimo spesso tanta bellezza, non posso dire che Giuliano ne fosse particolarmente felice, primo per il suo carattere che a quel tempo era ancora molto genovese, e poi perché non ne aveva il tempo per assaggiare ogni cosa fino in fondo.
L’associazione e i progetti crescevano velocemente ma, in pratica, continuavamo ad essere soltanto noi due, in prima linea, a tenere in piedi tutto quanto.
Tenendo conto che il mio cervello funzionava solo in un senso, quello visionario, a lui restava tutta la burocrazia, la contabilità, i bilanci, gli incontri noiosi, e altro ancora.
Era una gestione faticosa, perché fatta da solo.
Tutto quanto stava prendendo un grande spazio nella sua vita creativa.
A volte penso che se lui fosse stato più libero, che cosa avrebbe potuto creare?

Quell’uomo continuava ad affermare di non voler intraprendere una relazione stabile con me.
Io ormai lo lasciavo stare.
Non rimanevo neppure triste per le sue parole ed intenzioni, perché era chiaro che fossero solo una creazione della sua mente.
La sua anima, invece, mi diceva tutt’altro.
Dichiarò il suo amore senza anche accorgersene, quando creò l’allestimento per la mia mostra personale: “Cartas” (Lettere).
Avevo portato le due “coperte della attesa”: la prima, di quando aspettavo i giorni per andare in Italia e la seconda era quella con la quale contavo il tempo per ritornare in Brasile.
Avevo anche scritto tutte le lettere che non sono mai state spedite.
Tutte le parole sul tempo trascorso in quel mondo nuovo e strano.
Lettere che era impossibile spedire perché scrivevo a casa mia, alla mia città immaginaria.
La Pinacoteca aveva soltanto un grande spazio completamente vuoto e bianco.
Dal nulla quell’uomo creò, per me, un’universo onirico e aereo.
Come un ragno, lui cominciò a tessere con centinaia di fili invisibili, dappertutto.
In questa ragnatela, appese ogni cosa e tutto sembrava fluttuare.
Sul fondo della sala appese un grande dipinto in tessuto, una donna con il cuore in mano e in mezzo alle due città di Paesi tanto diversi, e dal suo cuore uscivano volando, degli uccellini.
E lui li fece volare veramente!
Li fece uscire al di fuori del quadro.
Tutto lo spazio, fino all’ingresso del pubblico, si riempì di uccellini.
Volavano tra la gente, tra le lettere fluttuanti di carta trasparente, volavano tra i dipinti, tra i giorni d’attesa delle coperte cucite.

Era esattamente così che mi ero sentita in tutti quei giorni vissuti insieme a lui, nella sua città stregata.
Avevo l’anima appesa a un filo invisibile, senza mai toccare per terra.
Ero stata così, sospesa in aria, con mille uccellini che volavano fuori dal mio cuore.
Il modo in cui quell’uomo aveva curato la mia mostra, mi dimostrava che mi aveva veramente visto, che mi aveva ascoltato, capito e soprattutto che mi amava.

Come Genova, lui si faceva vedere soltanto in qualche magica occasione.

Atibaia sempre fu una città di grandi silenzi.
Nella mia infanzia ho imparato che, della nostra vita personale, potevano solo parlare gli altri, che lo facevano a bassa voce, clandestinamente.
Avevo imparato da piccola a tacere sempre sulla nostra buona o cattiva sorte, su ciò che succedeva dentro casa o dentro la nostra anima.
Finalmente, in quella mostra, dicevo tutto ad alta voce.
Condividevo generosamente il mio viaggio, in forma intima e sincera con chiunque.
Le mie parole e le mie immagini furono clamorosamente apprezzate, ma sempre con il solito silenzio di quel luogo.
Osservavo le persone che conoscevo da tempo, principalmente quelle della mia famiglia, che leggevano attentamente tutte le mie lettere, si voltavano verso di me e salutavano, senza aggiungere nulla.

Sicuramente niente di rilevante era cambiato in quella città, tranne me.
E in un momento da sola, mi spaventai, quando anch’io lessi le lettere e vidi i dipinti.
Ad un tratto quella persona, che prima ero stata io, quella pazza che prese la valigia e si tuffò nell’ignoto, si era congedata da me.
Salutandomi, volò via con i uccellini.
Ho provato nostalgia di lei ed anche dolore per la sua scomparsa, ma ormai ero in trasformazione.
Sentivo che anche alle persone a me vicine, questa nuova realtà nascente, procurava un grande dispiacere.
Tutti volevano che io fossi com’ero prima, per sempre, ma la Vita prosegue in avanti e sarebbe una sciocchezza non stare al passo.

Katia

domenica 16 febbraio 2014

Capitolo 12 - progetti



Capitolo 12 - progetti



Il 2005 fu l’anno di dimostrare ciò che eravamo andati a fare in Brasile.
La sede distaccata, appena costruita, era il centro, il nostro luogo dove esistere, e da lì partimmo.
I progetti che volevamo realizzare si allinearono ai lavori di ristrutturazione della piccola sede, ossia, mentre da una parte si costruiva con le mani ed il cuore, dall’altra si costruiva con il cuore e le mani.
La prima cosa che facemmo fu quella di ritornare tra la comunità dei giovani cattolici, in un quartiere molto carente di Atibaia, per dare loro altre possibilità di sviluppo attraverso iniziative creative.
In cinque incontri li impostammo per la realizzazione di uno spettacolo di marionette.
Il tema scelto da loro era, naturalmente, religioso e noi eravamo i coordinatori dello show e i creatori delle marionette dalle grandi dimensioni.
Il giorno della rappresentazione dello spettacolo, l’unica e capiente Chiesa del quartiere, ancora in via di costruzione, era stracolma.  
Il gruppo dei nostri amici era in completa fibrillazione e noi, in prima fila tra il pubblico, davamo le indicazioni.  
I ragazzi, ogniuno con un incarico diverso, erano gli attori che controllavano le grandi marionette di tessuto e cartapesta e, altri di loro, formavano la scenografia.
Ecco la musica del piano, poi un canto, e si diede il via alla magia.
Con movimenti lenti e tremanti, la marionetta che rappresentava una donna, si elevò dal sipario che delimitava la scena, sostenuto anch’esso da un paio di ragazzi, e aprì le braccia.
La delicatezza e la cura dei movimenti, la rese viva.
Era la Madonna che si prendeva cura del suo piccolo, appena nato.
Tutto durò pochi minuti, ma la bellezza fu tale che il pubblico ricambiò con un fragoroso e commosso applauso.
Anche i ragazzi erano commossi e tutti insieme, con un inchino, ringraziarono il loro numerosissimo pubblico.
Io e Katia, emozionati, toccavamo il cielo con un dito.
Era la prima volta che quel gruppo realizzava, insieme, qualcosa di creativo e nuovo, nato dalla loro diretta partecipazione.
Il loro credo era molto intenso e questo atto di Amore, realizzato attraverso una rappresentazione del Sacro, della Nascita, li aveva resi maggiormente sensibili alla loro fede.
Sempre a questo gruppo di giovani rivolgemmo un altro progetto, sempre nello stesso anno, che si trattava di un breve corso di teatro per una loro manifestazione.

Un altro gruppo di persone, alle quali rivolgemmo la nostra attenzione, fu quello di donne residenti in un quartiere in una situazione socialmente molto difficile, che intendeva costituire una cooperativa, ma non sapeva nemmeno come iniziare.
Il giorno che le conobbi, stavano tentando di riunirsi per la realizzazione di un progetto sostenuto dal Comune di Atibaia, relativo al reciclaggio di bottiglie di plastica.
Ma questo non sarebbe stato per nulla sufficiente per sostenere economicamente una decina di donne con famiglie numerose a carico.

Ci riunimmo e decidemmo di collaborare con loro.
Insegnammo loro ad avere nuove idee nel lavoro, come quello di creare una produzione di pupazzi con ritagli di stoffa.
Katia disegnò e creò i prototipi e insieme producemmo alcune decine di pezzi.
Oltre questo invitammo un caro amico artista per insegnare loro l’arte del silk-screen, ossia della stampa su maglietta, fatta artigianalmente, a costi bassissimi.
Il gruppo creò una piccola produzione, una parte l’acquistò darearte e una parte la vendettero in due fiere locali, alle quali anche noi partecipammo.
Conseguentemente, complicazioni interne al gruppo delle donne, non permisero loro di svilupparsi e di crescere nelle attività artigianali e, più avanti, venni a sapere della loro separazione, ma quell’esperienza restò fondamentale per loro e per tutti noi.

Fu durante una riunione con queste donne, che conobbi Jorge.
Un ultratrentenne alcoolista, separato e con figli, che da alcuni anni era in condizioni davvero molto critiche.
Quando ascoltò la mia curiosa tonalità di portoghese, mi si avvicinò tremante.
In quel momento stavo conversando con un coordinatore di un progetto sociale, un giovane di classe benestante, che si sapeva muovere in quegli ambienti come un contadino si aggira nel pollaio.
La mia attenzione rotolò su Jorge, perdendo il senso delle parole che il coordinatore mi stava vendendo.
 “…vi occupate anche di letteratura?”
mi disse timidamente, dopo aver intuito che la conversazione trattava di arte e creatività.
 “Mai fatto prima, ma tutto può essere... Tu scrivi?”
Risposi.
I suoi denti esposti e storti mi sorrisero e tremante, mi consegnò un floppy disc che teneva in tasca da chissà quanto tempo.
Ancora ora mi chiedo come sia possibile uscire di casa portandosi dietro un floppy disc senza sapere a chi lo avresti consegnato e perché.
Mi disse di dargli un’occhiata e che lo avrei ritrovato sempre lì, nel caso mi fosse interessato il suo contenuto.
Ovviamente fui sorpreso dal gesto e gli chiesi se io fossi il primo a leggere il suo lavoro.
Rispose che no, che proprio quel coordinatore, che si era silenziosamente distaccato da noi, lo aveva avuto con se per lungo tempo, senza averlo mai letto.

La sera stessa, grazie a un computer portatile, lessi le prime venti pagine del libro di Jorge.
Il titolo era “Atados”, che significa connessi, collegati, uniti.
Come potevo snobbare un racconto con quel titolo?
La storia era un racconto di vite che si intrecciano, si snodano, si separano per reincontrarsi ancora. Oltre ad essere avvincente, quell’acerbo romanzo, aveva il senso che io volevo raccontare. Era connesso con me.

L’indomani mi presentai alla Segreteria della Cultura di Atibaia per chiedere una collaborazione nella realizzazione della pubblicazione di un libro.
Sarebbe stato motivo di un conseguente Evento, rappresentativo dell’appoggio delle Istituzioni ad autori in stato di disagio sociale.
Io e Katia, in dieci giorni, revisionammo interamente il libro, ne correggemmo gli errori e creammo la copertina e una prefazione di presentazione.
Il libro fu stampato.
Un evento, condotto da Katia con Jorge come protagonista, fu realizzato.
Realizzarono articoli sulla stampa, interviste, epropaganda per quell’avvenimento.
Il libro fu collocato nella Biblioteca cittadina a disposizione di tutti.
Jorge smise di bere.
Lavorò divulgando il suo libro, e continuò a scrivere.
Si aggiustò i denti davanti e riprese a sorridere, finalmente fiducioso.

Ma i giorni passavano e la memoria di quel commovente e straordianario momento, passò anch’essa.
Così Jorge ritornò a bere.
Era il suo modo di reagire alla vita.
Fino a che restai ad Atibaia, negli anni a seguire, ci sentimmo, ma negli ultimi tempi lo avevo perso ormai di vista.
Molto tempo dopo, seppi che, a causa dell’alcoolismo, fu colpito da un’improvvisa cecità agli occhi.
Lasciai un messaggio di affetto a sua madre e il mio recapito, ma mai più seppi nulla di lui.
Lui resta con me anche qui, tra queste righe, vivo e sobrio, felice di essere stato, almeno per un giorno, un famoso scrittore.
Il sogno di Jorge era stato realizzato.
E così il mio.
Della sua vita non potevo esserne responsabile e con il dolore di un addio, si concluse la nostra relazione.

Naturalmente i progetti che realizzavamo si incrociavano.
Avevamo molte cose da fare e non iniziavamo un progetto senza vederlo concluso, ma ci permettevamo di affiancarlo ad altri, come ad esempio la realizzazione dell’esposizione di Katia, Cartas.
Questa mostra avrebbe raccontato del viaggio di Katia in Italia, ma era la prima mostra ad Atibaia che avrebbe presentato l’associazione darearte, e ci serviva farci conoscere al pubblico brasiliano, per raccogliere consensi e adesioni di volontari, di risorse umane, dato che ben poco contavamo sulle risorse economiche locali.
Volevamo impiantare la nostra ideologia, assolutamente nuova in quel tempo, in quella terra.
Questa mostra era anche la più importante che Katia aveva realizzato come artista visiva, presso la pinacoteca cittadina.
Io mi occupai dell’istallazione.
Fu una fatica immensa, ma fummo felici del risultato.
Le sue opere erano poesia e come uccelli e foglie, avevamo creato un’istallazione dove nulla fosse attaccato alle pareti, ma tutto fluttuasse.
Cominciammo così a farci notare di più, attraverso l’arte, per parlare di solidarietà.

A questa bellissima mostra, portammo anche le ragazze di un orfanotrofio, erano il nostro pubblico, coloro alle quali rivolgevamo le nostre più sentite attenzioni.

Dopo la mostra di Katia, toccò alla mia.
Era il momento di “sotto il cielo, Nuvole di Genova” ad Atibaia.
La sua prima rappresentazione.
Ma di questo, ne parlerò al capitolo successivo.

Dirò adesso di un video che feci insieme a Katia, in una favela di Atibaia.
Lei conosceva che cosa volesse dire “favela”, e sapeva bene quali erano i limiti di chi volesse entrarci.
Noi volevamo entrarci.
Ma senza far rumore, non per curiosità, ma per capire e per essere con loro.
Ma entrare nella favela più pericolosa della regione, con una telecamera, poteva essere una sciocchezza anche se fossero le 7:00 del mattino.
Ma Katia aveva un asso nella manica, anzi dentro un secchio.
Il suo clown poteva farci entrare.
Così entrò in scena Pierina, il suo pagliaccio, con naso e vestito rossi, le scarpe grandi, il trucco e la parrucca arancione.
E, Lui, fu la chiave che ci permise l’accesso e di attraversare la strada principale della favela, con una piccola telecamera in mano, che filmava quello che il clown faceva fare alla gente.
Due erano le semplici domande che il clown faceva a chi incontrava: che cosa piacesse e che cosa intendesse buttar via.
Il clown portava con se un secchio e proponeva alla gente di metterci dentro, simbolicamente, le cose che voleva cambiare e dargli un calcio.
Un gioco che mi rivelò verità sorprendenti e realtà mai viste, fino a quel momento.
Questo divenne il mio primo piccolo film in Brasile.

Altri progetti darearte riguardavano una serie di spettacoli teatrali, creati da Katia e realizzati insieme ad una compagnia di giovani attori volontari di darearte in Atibaia, corsi di pittura su tessuto, disegno, di lingua italiana, tutti rivolti ai bambini di orfanotrofi, comunità e scuole pubbliche.
Ed eccoci a più di 50 progetti realizzati, dal giorno della fondazione di darearte.

Tutti, ormai ci conoscevano.
Eravamo sui giornali.
E in prima pagina sul quotidiano più letto.
Ci riconoscevano per la strada e, con le Istituzioni, avevamo un nome e credibilità.
Eravamo un treno colorato in corsa.

Giuliano


Capitolo 12 - progetti


Capitolo 12 - progetti


Eravamo due cavalieri, non dalle strane figure, ma dalla strana associazione no-profit.
Per noi non c’erano mulini a vento da combattere.
Il nostro volontariato era un’atto d’amore, non di guerra.
Non dovevamo distruggere nulla, soltanto la nostra voglia di arrendersi.
Impegnarsi a realizzare atti d’amore verso sé stessi e per gli altri, era qualcosa in disuso, quasi inspiegabile alla maggioranza delle persone.
Sia per la diffidenza, sia per incomprensione o anche per ammirazione, a volte ci scambiavano davvero per Don Chisciotte e Sancho Panza.

Giuliano aveva poco tempo per restare in Brasile e questo lo impegnava al massimo alla realizzazione di tutti i progetti.
Doveva anche insegnarmi e prepararmi a gestire da sola la nostra sede distaccata, nella sua futura assenza.
Cosi, lavorando tutti i giorni, da domenica a domenica, cominciammo contemporaneamente tante attività.
Quell’uomo era come tutti noi, fatto di stelle, con la differenza di saperlo essere.
Per la scelta di dove, come, con chi e per chi svolgere le nostre azioni di volontariato, lui seguiva soltanto il suo istinto, che alla fine ci portava sempre al posto giusto, alla giusta ora.
Sapeva davvero incontrare le persone e non si faceva abbagliare solo dalle parole di incanto, anzi, a volte non capiva nemmeno il portoghese, ma era capace di percepire profondamente ogni anima che gli si presentava davanti e così agiva, verso il sogno di ogni singola persona.
Spesso eravamo presenti in quartiere di estrema povertà di Atibaia e questo chiamò l’attenzione dell’Amministrazione Pubblica della Città.

Un giorno, fissammo un incontro con i responsabili delle politiche sociali del Municipio, presente in una Segreteria in quel quartiere.
Il capo, un giovane intellettuale, parlava in termini difficili da comprendere e divagava su infinite teorie politico-sociali.
Giuliano pareva non ascoltare nulla e il suo sguardo si fermò sull’uomo che stava spazzando per terra.
Era Jorge, uno scrittore dilettante.
In pochi minuti Giuliano aveva percepito il sogno di Jorge e si impegnò a realizzarlo.
Un nuovo progetto era nato.

Era così il nostro operato, senza una rotta determinata e fissa.
Succedeva spesso di aggiungere al programma prestabilito, di realizzare dei progetti che non erano stati previsti ma semplicemente incontrati lungo la strada.
Ogni attività, ogni nostro movimento, lasciava la sua meravigliosa impronta che ci portava ad altri incontri, sempre inaspettati e puntuali.

Dopo l’incontro con Jorge, conoscemmo un gruppo di Madri poverissime che volevano creare una cooperativa di cucitrici.
Dietro di loro si aprì l’universo della “favela”.
Giuliano voleva raccogliere le storie di persone che abitavano in quel luogo estremo, creare un progetti capace di fare sentire la loro voce.
Ma era seriamente pericoloso.
Qualsiasi individuo non riconosciuto era immediatamente segnalato da occhi invisibili, poco accoglienti e per niente innocui.
La favela, come tutti gli altri Mondi, aveva le sue regole precise, e l’unico che poteva rovesciarle impunemente, era il clown.
Con quest’idea, siamo partiti una mattina di sole.

Giuliano portava con sé una piccola telecamera ed era accompagnato da un’assistente.
Io-pagliaccio, con il naso dipinto di rosso, con le buffe scarpe che avevo comprato a Genova e un secchio, camminavo davanti a loro.
Eravamo entrati in quel Mondo.
Il pericolo non si presentò, perché nessuno si sentiva minacciato da un pagliaccio, anzi, davanti a lui tutto era possibile e venivano abbattute tutte le frontiere sociali.
La tenda di un circo invisibile si era aperta e chiunque era invitato.
Al clown, tutte le persone hanno raccontato un poco delle loro storie, che mai avrebbero rivelato a me come Katia o a qualsiasi altro, con la stessa leggerezza.
Quel corteo del clown, in mezzo alle baracche, alla spazzatura e ai cani randagi, diventò poi un piccolo cortometraggio, forse il primo di Giuliano.
L’intensità di quello che ho visto, condiviso e imparato in quella mattina, lo preservo fino ad’oggi.

Era l’infinita capacità di comunicazione e trasformazione dell’arte.
Spesso mi avvalevo di tutto ciò che l’arte poteva offrirmi, per realizzare le attività dell’associazione.
Sceglievo istintivamente quale poteva essere l’elemento giusto per ogni caso, la medicina esatta per ogni dolore.
Una volta, in una comunità cattolica di giovani fedeli estremamente timidi, utilizzai dei Burattini giganti.
Per le ragazze dell’orfanotrofio, che erano costrette dai loro tutori a tagliare corti i loro capelli, usai carta, pennelli e immensi rotoli di lana per la costruzione del loro vero autoritratto, con lunghissimi capelli da sogno.
E poi anche la danza, il teatro, la musica, quel che fosse stato necessario ad ogni momento particolare.
L’arte, per me, è una forma di guarigione.

Ci impegnavamo a creare progetti a vantaggio di comunità più isolate o povere, grande parte dei nostri interventi erano destinati anche a orfanotrofi ed i bambini, ormai già ci conoscevano.
Però, un atto d’amore, non riconosce età, classe sociale, sesso né religione e a questo punto il nostro volontariato si aprì, rivolto a tutta la Città.

Katia




domenica 9 febbraio 2014

Capitolo 11: ritorno in Brasile


Capitolo 11: ritorno in Brasile

All’aeroporto Katia sudava freddo.
Era rimasta in Italia molto più tempo del previsto e per questo temeva di subire un’umiliante punizione o comunque qualcosa di grave da parte di un severo controllo doganale.
Allo sportello, alla consegna dei documenti d’imbarco, ci fu un momento di suspence.
L’uomo in divisa grigia mi squadrò a volto serio, un paio di volte, e poi squadrò lei riuscendo ad essere ancor più serio.
Si trattava di uscire dal Paese, non di restare, forse per questo motivo gli bastò digrignare i denti e ci fece passare.
Katia riprese colore e ritornò sorridente dopo aver affrontato e superato, un ostacolo per lei tanto spaventoso come quello del mondo delle divise, delle regole burocratiche e di quelle forme di potere istituzionale tanto lontane alla sua comprensione, che decidono quale strada dovresti prendere.
Un’ingenuo cappuccetto rosso in un bosco buio e infestato da centinaia di lupi affamati, tutti mascherati da nonnine.
Forse si sentiva così.

Finalmente giunse il momento del nostro volo e viaggiammo in aereo, per la prima volta insieme, verso la terra dei tucani, del carnevale, delle favelas, dei grattacieli, degli indios, dei paradossi, di Yemanjà Dea del Mare.

Il nostro aereo giunse a destinazione due giorni prima del mio 40esimo anniversario.
Mai avrei pensato di aver raggiunto tale età.
Quaranta anni.
Non descrivo il mio compleanno perché non me lo ricordo, come gli altri 39 trascorsi. Forse non ho mai avuto una buona relazione con il giorno della mia nascita.
Ma comunque fosse, ero in Brasile, ad Atibaia, per la mia seconda chiamata sul fronte, per la seconda puntata, per il secondo giro di giostra.

Anticipatamente dall’Italia, avevamo affittato una piccola casetta indipendente che, ci dissero, era solo un pò da ripulire e sarebbe stata pronta.
Pertanto ci fidammo e, al nostro arrivo, quando ci trovammo dinanzi alla casetta, restammo a bocca aperta.
Era completamente distrutta.

Era stata abbandonata da tempo dagli ultimi inquilini e qualcuno l’aveva svuotata di ogni cosa, dai lavandini alla doccia.
Non c’era più nulla.
E quello che c’era, era ricoperto da muffa e sporco, tanto da spaventare un orco.
Dal tetto pioveva acqua e al suo interno pareti in condizioni oscene, squarci nel muro, nessun vetro, nessun mobile, il pavimento in legno rovinato, impianto luci inesistente e una gran puzza.
Non potevamo fare altro che rimboccarci le maniche e darci da fare.

Quella prima notte dormimmo su un materasso abbandonato, che non ho coraggio nemmeno di ricordare, e solo la stanchezza del viaggio ci consentì di chiudere occhio.
L’indomani sarebbe stato il primo di un interminabile e continuo periodo di lavoro, senza mai soste, per sistemare quella casa.
Abbiamo ripulito e dipinto, riparato e sostituito, ritrutturato e arredato, colorato e completamente trasformata, quella povera casupola di una cucina e due piccole stanze e mezzo.
Io e Katia.
Ma riuscimmo anche a dare lavoro retribuito ad una coppia di tristi muratori e a Maria che, senza fissa dimora, viveva in quei giorni in un garage insieme ai suoi due figli, grazie alla cortesia di una parente di Katia.
Maria si massacrò le ginocchia insieme a noi, per levigare e ripulire il pavimento delle tre stanze, dove il legno era stato devastato.
Un giorno intero in ginocchio, senza fermarsi.
E nemmeno alla sera non riuscii a riposare un attimo, a causa di un mostruoso temporale brasiliano che mi costrinse ad installare rapidamente i vetri alla finestra, per salvarci da un allagamento.
Ma l’acqua entrò comunque dal tetto rotto.
E dal bagno, ormai trasformato in una fetida piscina, dato che dallo scarico entrava acqua degli scarichi della fogna che, disperatamente e bagnato fradicio, spalavo fuori dalla porta del retro, mentre Katia cercava di salvare le nostre poche cose ancora chiuse in valigia dalla pioggia che arrivava, violenta e senza sosta, sia dall’alto che dal basso.
Non riuscimmo a comprarci nulla da mangiare e, avendo solo un poco di riso, riuscimmo a cucinarlo senza condimento alcuno, ma per noi, in quelle condizioni, ci apparve la cosa più buona che potessimo mangiare.
In quei giorni fummo colpiti entrambi da “dissenterie di ambientamento” e da altre piccole e simpatiche piccole disgrazie che credo siano giunte solo per darci un saluto, un po’ come ricordarci che adesso eravamo in un altro posto, in altre condizioni.
Una sveglia, un “benvenuti in Brasile”.

La mia pratica nei lavori manuali e la follia creativa della mia compagna, si univano nuovamente per prendere in mano la situazione, per dare una direzione al nostro cammino.
La trasformazione della baracca fatiscente in una carinissima casetta accogliente, non fu solo un’operazione di lavori concreti, ma ciò che la rese bella fu ciò che noi, ogni giorno, mettevamo insieme alla tinta e al sudore: il nostro Amore.

Avevamo finalmente dove stare e uno spazio d’incontro per l’associazione.
Da lì partirono tutti i progetti che, successivamente, realizzammo ad Atibaia.
Darearte aveva la sua sede distaccata in Brasile.

Durante la ristrutturazione ed i progetti, io continuavo ad avere incontri e nuove conoscenze per creare, localmente, una rete tra le Entità del terzo settore e l’Amministrazione Pubblica, tutti molto curiosi delle nostre intenzioni sul loro territorio.
Una delle cose che non sono mai riuscito a far capire, era che il nostro fosse Volontariato.
Per intenderci, quell’operato che non ha retribuzione o un secondo fine o un interesse diverso oltre quello della donazione del proprio fare.
Questo sfuggiva a chiunque.
In vero, mi si guardava come se ci fosse sempre qualcosa sotto, qualche intenzione occulta.
Ci si chiedeva se volessi arrivare da qualche parte, ottenere dei vantaggi non espliciti.
Ebbene, si, ora sarò esplicito.
Ho sempre avuto qualcosa sotto.
Era la volontà di crescere, di vedermi sperimentare, di condividere.
E questo mai lo dicevo.
Ebbene si, ho sempre avuto intenzioni nascoste.
Erano quelle che mi spingevano a donare il mio tempo, la mia vita, consapevolmente, per provare a me stesso che non siamo divisi, ma siamo tutti uniti.
E questo mai lo dicevo.
Si, ho sempre voluto arrivare da qualche parte.
Era il luogo nuovo, dove non ero ancora stato, vedermi in viaggio, sempre.
E questo mai lo dicevo.
E ho sempre ottenuto dei vantaggi personali.
Si, ho vissuto.
E questo ve lo dico adesso.

 Giuliano

Capitolo 11: ritorno in Brasile


Capitolo 11: ritorno in Brasile

Non avere il permesso di soggiorno, era un reato.
Se, alla mia uscita dell’Italia, qualcuno avesse voluto punirmi, era lecito.
Avevo il terrore solo a pensarci, perché questo prevedeva una segnalazione sul mio passaporto, una multa altissima ed il divieto di poter ritornare in Italia.
Niente era più crudele che essere condannata ad un esilio, di un Paese che non era il mio ma che comunque amavo profondamente.
E non c’era nulla che potesse rendermi innocente davanti alla Legge.
Avevo distrattamente commesso un reato.
La causa dell’amore, che non era di certo un’attenuante.
Però non avevo mai fatto male a nessuno.
Confesso di aver mangiato, anche lentamente, tante olive italiane, perché quelle erano delle divinità reincarnate sulla Terra.
E  ho spudoratamente camminato a fianco a quell’uomo, tutti i giorni che la Vita mi ha voluto regalare e oltre i tre mesi concessi secondo le regole dell’immigrazione.

Tre giorni prima della mia partenza, nevicò.
Stupore!
Non avevo mai visto la neve!
Come per incantesimo, il futuro non era più importante.
La neve mi riportava al tempo presente ed era bellissimo esserci.

Arrivammo all’aeroporto di Genova.
Tremavo e sudavo.
Quando presero il mio passaporto, mi fecero notare che la data odierna coincideva con la data del mio rientro in Italia, con la differenza di un anno.
Dopo un lungo silenzio, e una faccia molto chiusa, mi fece passare.
Sentii un alleggerimento indescrivibile e mi accorsi di un liquido caldo che scorreva sui miei pantaloni.
Era possibile che mi fossi pisciata addosso d’allegria?
Per fortuna no, era soltanto l’olio di oliva che si era versato, dentro la valigia che tenevo sulle gambe...
Feci tutto il viaggio puzzando di pizza.

Arrivai in Brasile, dopo trecentosessantacinque giorni intensamente vissuti in Italia.
Ho rivisto la mia famiglia e la mia città.
Provai amore, alleggerimento, gioia ed anche qualcos’altro, che si sarebbe svelato lentamente durante gli anni successivi.
Infine a casa mia, circondata da tutte le cose, una volta a me naturali, ho avuto veramente la conferma di quanto fossi cambiata.
Comunque, in quel momento, non avevo tempo per approfondire alcun pensiero.
Ci mettemmo subito al lavoro.

La casa che doveva ospitarci e divenire la sede darearte ad Atibaia, era un rudere.
Con le nostre sole mani, contando soltanto sulle nostre forze, l’abbiamo completamente ristrutturata, arredata, abbellita e arricchita con la nostra creatività.
Per l’arte non occorre una grande economia, ma uno spirito visionario.
Con materiali di scarto o regalati, abbiamo costruito mobili, strutture e scaffali.
Con tinta bianca e colori in polvere, ogni vano di quel luogo squallido prese una vivace atmosfera giocosa.
Il bagno, fu una parte speciale da rifare.
Era piccolo e tutto nero, la muffa e lo sporco lo rendevano claustrofobico.
Con piastrelle raccolte per strada, facemmo un mosaico sulle sue pareti.
Presto, quel brutto bagno, sarebbe diventato un luminoso Regno del Mare.
Un mosaico blu e bianco, con pesci di gesso che nuotavano.
Fu davvero faticoso farlo, ma adesso aveva finalmente un’identità.
Per tanti giorni, siamo stati chiusi in quel piccolo spazio a rompere le piastrelle e costruire quell’immenso puzzle, senza dire parola.
L’unico rumore era la musica sorda del nostro lavoro e la nostra respirazione.
Non era più necessario chiederci nulla, ci scambiavamo attrezzi e ci aiutavamo in una complicità invisibile.
Quando fu tutto finito, ci abbracciammo per ammirare la nostra creazione.
Quel respiro insieme, è stato un momento intimo di grande bellezza.
Ci accorgemmo che avevamo dimenticato di fare il buco per appendere lo specchio.
Lui prese un trapano, forò e di colpo ci ritrovammo inondati da un violento getto d’acqua.
Aveva bucato l’unico tubo del bagno.
Questo voleva dire che dovevamo distruggere una parte del mosaico e ricominciare da capo.
Senza offesa, senza stanchezza, nè lamento.
Ridendo.
Tutto questo è anche una metafora di ciò che, per noi due, era lo spirito dell’associazione: riutilizzare vecchie piastrelle, romperle, incollarle e darle un nuovo significato e bellezza.
E anche davanti a qualsiasi difficoltà, anche se da soli e stretti in uno spazio poco accogliente, siamo sempre stati capaci di ricominciare e rinnovare.

E la medesima cosa valeva per la nostra vita personale.
Con tutta quest’energia e amore, siamo partiti verso la realizzazione dei progetti in campo.
Lui aveva ripreso i contatti con le strutture che aveva conosciuto precedentemente e fece nuove scoperte speciali e importanti.
Nella Vita tutto conta, anche quei momenti che crediamo essere inutili.
Tutto il tempo trascorso a Genova, adesso, sembrava avere un senso.
Fu in quella città che c’eravamo conosciuti più a fondo e dove avevamo intravisto i nostri limiti e le nostre forze.
A Genova abbiamo avuto il tempo per svilupparci e, dopo una lunga gestazione, qualcosa di nuovo stava finalmente per nascere.

Ripartimmo per la Linea del Fronte, senza macchia nè paura, Don Chisciotte  e Sancho Panza sui loro cavalli alati.

Katia

duemilaecinque


domenica 2 febbraio 2014

PRESS

2003 - da un sito di Atibaia e un articolo di un quotidiano di Atibaia

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Secolo XIX - Quotidiano Ligure

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