INFORMAZIONI SU QUESTO LIBRO-BLOG

Questa storia narra di dieci anni vissuti da Katia e da Giuliano.
Il racconto è un "binario", costruito a "doppi capitoli", scritti individualmente dai due autori.
Ogni anno raccontato, dal 2003 al 2013, racchiude cinque capitoli, al termine dei quali,
si conclude un paragrafo e sono pubblicate delle immagini inerenti gli stessi capitoli.
Il libro, nel suo complesso, avrà pertanto 10 paragrafi, composti da 5 doppi capitoli ciascuno.
La pubblicazione di ogni nuovo capitolo avviene senza un tempo determinato, essendo attualmente in fase di creazione.

p.s.: non possiamo essere responsabili della traduzione tramite google che, purtroppo, risulta NON essere completamente compatibile con il testo originale in lingua italiana.

contatto:emaildiecianni@gmail.com
Grazie per seguirci.
Katia & Giuliano

domenica 29 dicembre 2013

Capitolo 7: Secondo incontro.


Capitolo 7: Secondo incontro.

Katia aveva sbagliato aereo.
Lo seppi da una sua telefonata da Milano, avvisandomi che sarebbe arrivata, non all’aeroporto ma alla stazione del treno.
Cominciavo a dubitare che tutto sarebbe andato liscio.
Ma ormai ero pronto per il suo arrivo.

Avevo un’auto ed uno scooter, entambi di seconda o terza mano.
Scelsi l’auto per andare alla Stazione ferroviaria di Principe e incontrare Katia.
Immaginavo avesse bagagli ricolmi di vestiti e scarpe e accessori, come le donne usano portar con sé, anche fosse per brevi gite, e le sue opere della prevista esposizione.
Avrebbe dovuto restare in Italia per tre mesi, questo il tempo limite per un turista.
Ma Katia di turista aveva ben poco.

Arrivai alla stazione e la vidi da lontano.
Aveva cambiato colore ai capelli e aveva con sé solo una strana valigia.
In verità, rimasi molto perplesso.
Non so come dire, ma non la riconobbi completamente.
Mi sembrava lei, ma sembrava anche non lo fosse.
Una sensazione che non mi aspettavo.
Così la invitai alla macchina, caricai la sua valigia, che aveva dipinto lei stessa, e misi in moto. 
La guardavo continuamente, per vedere se la sensazione di estraneamento fosse passata, ma restò insieme noi.

Era molto tesa e spaesata, aveva un’aria di chi sta sbarcando in mezzo ai marziani e non sa che dire.
Io ero il marziano, evidentemente, dato che percepivo che l’estraneamento era reciproco.
Andammo direttamente al mio appartamento, dopo aver tentato di presentarle Genova e per fortuna, proprio poco prima di entrare, ci ricordammo di noi.
Ci eravamo ritrovati ed era un incontro d’amore.
Entrammo in casa e non uscimmo più per tre giorni.

Dopo l’assestamento iniziale, si cominciò a ragionare sul da farsi.
Io non mi permisi di iniziare una storia sentimentale, nell’immediato.
Troppo vicina era la separazione che avevo sofferto e non volevo assolutamente impegnarmi in un’altra relazione.
Volevo concentrare le nostre energie sui progetti che occorrevano a darearte per evolversi, e noi due con “lei”.
Darearte ci chiedeva energia e io e Katia la dovevamo creare, dal nulla.

Ci impegnammo subito sulla mostra.
Katia aveva portato con sé le opere. Ma solo le opere.
Non aveva nient’altro dentro quella valigia, tanto strana che anch’essa finì alla fine nell’esposizione.
Avrebbe dovuto comprarsi tutto, aveva solo i vestiti con i quali era venuta, ed erano estivi.
Era marzo e a Genova era freddo.
Il dubbio che tutto sarebbe andato liscio, si fece certezza.
Ma questo era un dettaglio che raccontava di lei, questa ragazza che con la gonna rossa attraversa l’oceano e si sposta senza bisogno di denaro, né di ricambio d’abito, né di altro materiale.
La sua valigia era colma di sogni e poesie, di un’avventura e d’amore.
Per questo, capii, ero affascinato, incantato, trasportato.
Io, tanto razionale e metodico, e preciso e spaventato, con lei ero un pesce con la bocca aperta.
Non credevo a quello che vedevo, perché fuori dalle mie possibilità, dalla mia concezione impostata.
Anche io sognavo, e volevo vivere i miei sogni, condividerli, raggiungerli, ma cercavo sempre di creare un percorso, un metodo, un raziocinio per arrivare a conquistarli, ma era questo raziocinio che, forse, me li faceva perdere di vista nel cammino.
Con lei avevo l’energia del volo.
Come volare, si poteva raggiungere il luogo sperato, il luogo amato.
Il sogno, appunto.
Con lei potevo credere fosse possibile, nonostante le barriere.
L’impossibile si trasformava in “non credevo fosse così facile”.
Ho sempre pensato che fosse diversa, fin dal giorno che vidi la sua gonna rossa, ma frequentarla, ascoltarla cantare canzoni incomprensibili, in mezzo alla gente, o vederla danzare per me, sensuali musiche arabe, mi convinse che fosse veramente unica.

E la sua arte rispecchiava la sua Essenza.
Colorata e viva, vivace e vitale.
Spiritosa e allegra.
Ma anche malinconica e sofferta, piangente e ferita.
Tutto il suo universo era espresso nei suoi dipinti, nelle sue opere.
Il suo stile era vicino a quello Naif, il tratto più vicino all’infanzia, e lì comunicava.
Le opere che aveva portato con sè erano di tessuto, ritagli di stoffe che cuciti insieme in un collage di mini dipinti, rivelavano una storia del suo tempo trascorso.
Era il tempo che ci aveva separati.
E lì potevo ritrovare la mia assenza e la mia presenza.
La nostra storia anche senza di noi.

Pochi mesi prima, in Brasile, avevo incontrato Katia ad un suo banchetto espositivo, durante un evento di artigianato locale.
Non avevo visto nulla, tra tutte le migliaia di offerte della manifestazione, che avesse la stessa magia, dei suoi dipinti.
Di una semplicità disarmante, non riuscivo a togliere lo sguardo da loro e allo stesso tempo, non riuscivo a capire il motivo di tanta attrazzione.
Pensai all’apparentemente casuale disposizione dei colori, forse ipnotica, al richiamo ancestrale del suo contenuto o allo stile che richiamava all’infanzia di ogni essere umano.
Forse tutto o forse nulla di questo.
Forse erano solo dipinti per amore.

E l’Amore, senza dubbio alcuno, è l’energia più bella del mondo.

Giuliano

Capitolo 7 - Secondo incontro


Capitolo 7 - Secondo incontro

Una volta, quando il Brasile non era ancora il Brasile ed era abitato soltanto da indigeni, in una spiaggia selvaggia, giunse un naufrago portoghese.
Quest’uomo ebbe salva la vita dagli indigeni e allora decise di vivere con loro.
Gli diedero il nome di Caramuru, che significa tuono, perché aveva con sé un’arma di fuoco.
Caramuru si adattò alla vita del villaggio e sposò le due figlie del capo tribù: Paraguaçu e Moema.
Vivevano felici, finché un giorno, apparve all’orizzonte una nave portoghese.
Caramuru allora si trovò a un bivio.
Dicono che lui guardò bene la foresta, l’amaca, le banane e le mogli e che comunque, decise di congedarsi da tutto e da tutti.
Salì da solo, su quella nave per ritornare in Europa, alla sua vecchia Vita, nel suo Vecchio Mondo.
Ma prima che la nave scomparisse all’orizzonte, le due mogli Paraguaçu e Moema, si tuffarono in mare.
Paraguaçu riuscì a raggiungere la nave e andò con Caramuru in Portogallo, dove lo sposò per la seconda volta con un rito Cristiano, ed ebbero dei figli.
Moema annegò nel mare.

Questa storia l’ascoltai centinaia di volte, da bambina.
Non capivo come le due sorelle avessero potuto fare la follia di abbandonare la foresta per andare incontro ad una civiltà assolutamente a loro sconosciuta.
Mai avrei immaginato che anch’io, un giorno, avrei potuto fare la medesima scelta!
Buttarmi in mare e lasciare alla spalle tutto ciò che conoscevo, per inseguire un uomo dell’altro Mondo.
Era esattamente così che mi sentivo rispetto a questo viaggio.
Ma quale sarebbe stato il mio destino?
Quello di Paraguaçu che raggiunse la nave e sciolse il cuore di Caramuru?
O sarei annegata come Moema?
Oggi, posso dire che ho avuto entrambi i destini.
Ma, in quel momento, dovevo credere di essere solo una Paraguaçu, altrimenti non avrei avuto il coraggio di salire su quell’aereo, che mi portava verso l’ignoto.

Avevo il permesso di restare in Italia solo per tre mesi, ma salutai tutti, avvertendoli di non sapere per davvero quando sarei ritornata.
Dentro di me, sapevo che basterebbe un’unico abbraccio d’amore, per farmi strappare il biglietto di ritorno.
Chi salta in mare, dimentica la ragione della terraferma.
E cosi fu.

Imbarcai con la mia valigia, 50 euro e una brigola sul viso, dovuta alla tensione.
Avevo mille timori, ma la Vita fu compassionevole con me e ad ogni preoccupazione mi spostava l’attenzione su un altro argomento.
Appena fui colpita dalla malinconia dell’abbandono di tutto ciò che mi era caro, ecco che arrivò in aiuto lo sciopero dell’aeroporto e mi travolse in quel casino per cinque ore.
E via la malinconia!
Quando l’aereo finalmente partì, tutto si calmò ed ecco che la mente sfiorò il pensiero di avere pochi soldi con me, ma in quell’esatto momento la brigola su viso si infiammò e si gonfiò.
E via la preoccupazione sui soldi!
Adesso il mio dispiacere era non avere un cerotto sulla faccia, proprio quando dovevo incontrare quell’uomo!
Ma la Vita era dalla mia parte, perché non mi permise di preoccuparmi sul mio aspetto fisico, perchè durante il volo, scoprii che mi avevano venduto il biglietto sbagliato!
Non stavo volando verso Genova, in Italia, ma mi stavano portando a Ginevra, in Svizzera!
Spazzate via di colpo tutte le mie preoccupazioni: soldi, brigole e cerotti sulla faccia.
Dovevo arrivare in Italia!
Per fortuna, a causa di quello sciopero, il volo perse la sua coincidenza ed atterrò a Milano.
Una volta scesa, riuscii a riavere la mia valigia, ed ancora una volta la Vita fu davvero gentile con me, perché il solo fatto di essere in Italia, divenne la cosa più bella di ogni cosa, e le paure che volevano saltar fuori, non trovavano nutrimento.
Anche se non capivo nulla, arrivai magicamente alla Stazione Centrale di Milano e riuscii a prendere un treno per Genova.
Ce l’avevo fatta!
Tremavo d’emozione!
Sudavo.
Entrai in una cabina con altre quattro persone, che mi guardarono molto male.
Ero tanto felice che non avvertii il loro disprezzo e li salutai con gioia.
Piano piano mi calmai ed allora mi assalì una nuova preoccupazione.
E se fossi annegata come Moema?
E se fosse stata una dura delusione?
Ma anche qui, la Vita, mi soccorse su questo pensiero inutile.
Arrivò un signore in divisa, chiese il mio biglietto, lo guardò e mi disse che ero sul treno sbagliato!
Così pagai la multa.
Bene, non dovevo mai piu’ preoccuparmi di avere solo 50 euro: adesso ne avevo 20!

Finalmente arrivai a Genova.
Nella Stazione c’era un orologio gigante con numeri romani indecifrabili per me, e non capii che ora fosse.
Meglio, così non mi preoccupai nel caso fossi in ritardo.
Mi affacciai ad un immenso portico e vidi la Città.
Non aveva per niente l’aspetto imperiale di Roma, anzi, sembrava che non avesse alcun aspetto. Come una città invisibile, che si mostra solo quando vuole.
Una città di cristallo, pensai, e allora mi muovevo piano, per non disturbarla.
Mi batteva forte il cuore.
Dovevo aspettare che quell’uomo mi venisse a prendere.
Guardavo intorno e tutto era immenso come in una favola, le porte, l’orologio, le cose.
La gente camminava sicura di sé, come se tutta quella architettura fosse naturale.
Mi sentii subito un pesce fuori d’acqua.
Tutto ciò che una volta mi appariva normale, adesso non lo era più.
I miei vestiti, che poche ore prima erano belli, adesso sembravano disadattati.
Ma anche questi pensieri, sparirono.
La Vita cercava di distogliermi da ogni dolore.
Di colpo, mi mise a piovere e cominciò a fare un freddo che non avevo mai sentito prima.
E con questo, non pensavo più.
Tremavo e per la prima volta, non era per il mal d’amore, ma dovuto ai miei poveri piedi ghiacciati nelle loro scarpe di tessuto.

Lui arrivò e apparve esattamente come la sua Città: misterioso e invisibile.
Lo vedevo e non lo vedevo.
Ma lui vide bene il mio cerotto, chiedendomi se mi fossi ferita durante il viaggio.
Per un attimo non ci siamo riconosciuti, in quel Mondo così lontano e diverso dal luogo dove ci eravamo visti l’ultima volta.
Mi indicò la sua auto e prese la mia valigia buffa e colorata.
Mentre ero in macchina, non riuscivo a vedere bene, né lui, né la Città.
Ma era incantato quel posto?
Che strana stregoneria faceva in modo che le cose si vedevano e non si vedevano?
Ed era pieno di gallerie!
Così eravamo constantemente nascosti e scoperti, alla luce e nel buio.
Lui guidava e si muoveva con disivoltura e invisibilità, come la gente che ho visto nella stazione. Era decisamente diverso, a casa sua.
Ed anch’io ero diversa, a casa sua.
Però ad un tratto, mi sorrise.
Un sorriso che mi fece riconoscerlo.
Mi ricordò della sua Essenza.
Sì era proprio lui!
Gli risposi sorridendogli e avvertii che anche lui, finalmente, mi riconobbe.
Piano piano, anche Genova si fece intravedere.
Magia.
Arrivammo alla sua dimora che, come Genova, era irraggiungibile, però più tetra, buia e triste.
Quando aprii la mia valigia, rovesciai fuori tutti i dipinti e le storie che avevo portato con me, riempiendo quella casa di colori, parole, d’odore delle banane, di amache e della foresta.
Lui si rallegrò.
Mangiammo insieme pasta con broccoli.
Fino ad oggi questo resta il mio piatto preferito, perché mi ricorda il giorno che lui mi permise di entrare nella sua Vita.

Mi sentivo Paraguaçu, avevo raggiunto la nave e sciolto il cuore di quel Caramuru genovese.


Katia

domenica 22 dicembre 2013

Capitolo 6: Italia.


Capitolo 6: Italia.

La mia relazione sentimentale era molto intensa ma, già da tempo prima della partenza del mio viaggio in Brasile, viveva una grave difficoltà.
Quella di non riuscire ad accettare che eravamo su due percorsi diversi, con principi e interessi diversi, con prospettive e sogni diversi.
L’amore reciproco e il profondo legame che ci univa, ci impedivano di dare la giusta valutazione a questo.
Ma nulla si può fare contro la natura delle cose.
Prima o poi emerge.
E prepotente, dopo il terremoto che il mio Brasile mi aveva causato, emerse.

Il distacco fu molto sofferto per entrambi, anche se in modi differenti, e il dolore di questa separazione fu da me mantenuta molto a lungo nel tempo e, involontariamente, la nascosi in me.
L’incapacità, o il rifiuto, di accettare la conclusione della relazione e il tormento di aver creato un dolore emotivo tanto grande, creò una sorta di “buco nero” tra noi, un dolore irrisolto, che non ci permise di essere liberi fino in fondo.
Ci separammo definitivamente nei primi giorni di marzo del 2004.
L’accompagnai all’aeroporto, triste per ciò che avevamo scelto di fare ma che, sapevo, fosse assolutamente indispensabile per intraprendere entrambi e finalmente il nostro reciproco cammino.
Non la vidi mai più.
Lei, oltre me, lasciò l’Italia e la sua arte, la musica, e ritornò in Ungheria, per ricominciare una nuova professione che, seppi molto tempo dopo, fu gratificante e di grande successo.
Questo mi rese davvero molto felice.

Tutto si stava gradualmente trasformando e, inesorabilmente, sgretolando sotto i miei occhi, nonostante le mie futili resistenze ed inutili sofferenze, e questo era conseguenza del mio naturale cambiamento.
E intorno a me, tutto prendeva una luce diversa, un nuovo colore indefinito.
La mia percezione di ciò che mi circondava, cose e persone e avvenimenti, era come alterato, diverso da prima, seppur non in maniera distinta, come se cominciassi a capire qualche altra cosa che prima non vedevo nè potevo vedere.
Ma questo significava che, oltre al mio sguardo, sarebbe cambiato tutto, poco a poco:
il mio ambiente, i miei argomenti, il mio comportamento, i miei interessi e coloro che, prima, chiamavo amici.

Il mio lavoro cominciò a barcollare.
Le richieste di cataloghi di giocattoli e altri lavori, che ritenevo senza significato, mi erano solo di intralcio.  Sentivo ancor più impellente la necessità di comunicare.

Mentre, in Brasile, Katia realizzava un corso di cartapesta per i bambini e i ragazzi di una favela insieme ad un’altra volontaria, io la seguivo dall’Italia e attraverso internet, eravamo in costante contatto, mi scriveva e inviava fotografie, documenti di ciò che accadeva.
Si adoperava sempre con grande entusiasmo ed ero felice di avere una complice ancora sul fronte, dato che, in Italia, mi sentii improvvisamente un esiliato.

Con Katia ci sentivamo anche per telefono.
Imparai ad usare quei telefoni che usano solo gli immigrati, per chiamare i loro cari all’estero, e lì, in quegli scomodi e angusti anfratti, trascorsi molto tempo, per sostenere le attività coordinate da quella ragazza, a nome di darearte, in quella lontana città brasiliana.

E al telefono, con il suo italiano sgangherato e sempre in difficoltà per la scelta delle parole migliori, Katia mi raccontò della consegna delle fotografie ai bambini dell’orfanotrofio.
Vibravo ad ogni frase e soffrivo per non essere presente.
Non mi disse che le fotografie non potevano restare con i bambini, forse per non farmi restare male o rivoltare su una questione tanto ingiusta, ma mi raccontò della bellezza che aveva loro procurato, dell’emozione che si era vissuta e me la trasmise, per rendermi partecipe, insieme a loro.
Solo tempo dopo, ne venni a conoscenza, quando ormai non potevo più intervenire.

E fu sempre al telefono che invitai Katia a venire in Italia.
Non ero certo fosse una buona idea, ma la sua energia avrebbe senz’altro dato una decisiva spinta alla nostra piccola organizzazione, in Italia.
La invitai a preparare una serie di dipinti, avrei organizzato una sua esposizione da realizzarsi a Genova, per raccogliere fondi per i progetti darearte e rilanciare così i propositi dell’associazione.
E infatti diedi da fare per creare l’esposizione.

Decisi per un Centro Civico di Genova, dove anche il pubblico della Biblioteca avrebbe potuto visitare l’esposizione dei dipinti di Katia, i ritratti dei bambini sorridenti e i loro lavori creativi, realizzati nei laboratori insieme a noi.

A questo punto, stavo solo aspettando che Katia venisse a prendere parte dei progetti in Italia, sentivo la sua fibrillazione e sentivo la mia, nonostante non potevo prevedere nulla di quello che sarebbe stato nè di come avremmo reagito al ritrovarsi, in un altro contesto, con altre condizioni, in un mondo completamente diverso.

Di certo, potevo sapere che il suo arrivo mi avrebbe fatto sentire meglio, come si può sentire meglio qualcuno che attende il suo scudiero, il suo braccio destro, il suo fedele compagno di avventura.
Sancho Panza stava partendo.
E io, ero in attesa del suo arrivo.


Giuliano

2004 - Capitolo 6: L’Italia


Capitolo 6: L’Italia

Fu un capodanno diverso.
Sentivo che il nuovo anno era davvero nuovo.
Iniziai subito il primo progetto dell’associazione, in campo, senza Giuliano.
Dovevo realizzare un corso di cartapesta in una “favela” di Atibaia.
Era in una struttura di accoglienza, per persone e famiglie senza dimora, dove veniva offerto un pasto gratuito a tutti gli abitanti del quartiere.
La casa era una specie di rudere ma, immersa nel paesaggio di tante baracche, appariva carina e solida: era di mattoni.
Il posto da realizzare il corso era buio e umido.
Non c’erano nè porte nè finestre, soltanto i buchi che segnalavano quello che un giorno era stata una porta o una finestra.
Ma questo era più che sufficiente per tutta quella gente che arrivò: donne, ragazzi e bambini.
Il responsabile locale era davvero contento, perché il corso era gratuito e qualcuno si era disposto a loro.
Trovava buffo il fatto che, il primo corso a vantaggio della loro Comunità, fosse stato offerto, non dalla gente locale, ma per l’iniziativa di una persona di un altro Mondo, con un’associazione “straniera”.
Anch’io, un pò, mi vergognai.
Dopo tanti anni vissuti nella mia Città, mai avevo avuto la conoscenza di quella realtà.
Erano invisibili, non solo per me, ma sicuramente per grande parte dei cittadini.
Loro volevano imparare a usare la cartapesta perché, come lavoro occasionale, raccoglievano la carta e sarebbe stata una buona idea trasformarla anche in un attività che fornisse un piccolo reddito.
Insegnai  assolutamente tutto ciò che sapevo sulla cartapesta.
E anche la volontaria che avrebbe dovuto aiutarmi, entusiasta di tutte le tecniche che le facevo conoscere, senza accorgersi, si era posizionata in mezzo agli allievi ad assistere come fosse una di loro.
Poi c’erano i bambini, che spuntavano da tutte le parti, numerosi, e con loro abbiamo creato dei giocattoli di carta.

Il corso finì e fu terribilmente difficile lasciarli.
Per fortuna che non ero più da sola, avevo finalmente l’associazione a sostenermi, sia nella parte organizzativa che sotto l’aspetto emotivo.
Giuliano, anche se non era presente, mi dava le direzioni, mi spiegava che il compito della nostra organizzazione non era filantropico ma quello di donare la possibilità. Pertanto tutti i progetti dovevano avere un inizio, un mezzo e una fine.
Giustamente la fine era quella più importante, perchè era il momento dove chi riceve deve poter intraprendere il proprio cammino.
Questo vuole dire imparare e svilupparsi e non soltanto essere assistito.
Capii.
Sentii che questo modo organizzativo era giusto, quasi Zen.
Anche aldilà delle attività dell’associazione, questo concetto era applicabile alla vita stessa.
Stava succedendo a me.
Le mie fini, stavano diventando sempre possibilità per nuovi inizi.
La partenza di quell’uomo, era diventata una quasi-primavera, una possibilità di fioriture. Dipendeva da me, adesso da sola, se mettere in pratica ciò che avevo imparato.

In un giorno di sole, Giuliano, mi scrisse una lettera carica di pioggia, sembrava che piangessero tutte le parole. Mi chiedeva di consegnare tutte le fotografie che aveva scattato nell’Orfanotrofio, ad ogni suo legittimo proprietario: i bambini.
Sembrava un compito facile, ma non lo fu.
Scoprii che nell’Orfanotrofio, non era permesso avere con sé alcun oggetto personale, e questo includeva le foto.
Allo stesso tempo, sapevo che tutti i genitori del mondo fotografano spesso il loro figli, ma quei bambini senza famiglia, non avevano mai avuto nessuno che si fosse interessato a fargli una foto.
Chissà, se quell’uomo magico, aveva capito la profondità del suo gesto, quando scattò quelle foto, non lo so, ma ora era prioritario far riavere le fotografie ai bambini.
Non riuscii a convincere i responsabili dell’Orfanotrofio di concedere ai bambini il possesso dei loro ritratti.
Sarebbero rimasti nella loro cartella personale, custodita dall’Entità e poi consegnata ad ognuno di loro, una volta maggiorenne, al loro congedo.
Però, riuscii ad organizzare un incontro con tutti i bambini per vedere le fotografie insieme, prima che queste venissero sequestrate.
I bambini, uno ad uno, osservarono a lungo la loro immagine, accarezzavano le loro foto e non si riconoscevano, così sorridenti com’erano nel ritratto.
Era successo un mondo di cose.

Incontri di questo tipo, realizzati con semplicità,  amore e creatività, seguiranno negli anni successivi e, tutte le volte, ci hanno insegnato a cercare sempre nuovi modi per concepire l’Arte, con le sue immense possibilità umanitarie.

Ero dall’altra parte del mare per svolgere i progetti creati da quell’uomo e questa complicità ci univa fortemente.
Al di là di un possibile rapporto uomo-donna, stavamo diventando compagni di imprese visionarie, come lo erano stati Sancho Panza e Don Quixote.

Comunque, non riuscivo a distogliere il desiderio di vedere Genova e di rivedere Giuliano.
Ma in nessun modo potevo andare a casa sua, senza che fosse lui ad invitarmi.
Per più innamorata che fossi, sarebbe stata una mancanza di rispetto, invadere la sua Città e la sua Vita, senza avere il permesso.
Aspettai.
Pregai.
Cucii.
Dipinsi.
Danzai, misi il naso di clown e risi della Vita.
Un giorno, al telefono, lui mi invitò a fare una mostra dei miei dipinti a Genova.
Mi aveva aperto una porta.
Una piccola porta, stretta e senza molta convinzione.
Ma pur sempre una porta.
Non pensai più a nulla.
Comprai il biglietto aereo.
Ero così felice che sentivo disintegrarmi nell’aria e se non ci fosse il sostegno amorevole e pratico di Luisa e di altre amiche, che sventolavano le loro anime vicino alla mia barca in partenza, forse sarei diventata una schiuma delle onde, persa in mare aperto.
Così feci la valigia.
La feci veramente, dato che la costruii e la dipinsi con tante uccellini che volavano in mezzo al poema di Manoel Bandeira, poeta brasiliano.
Il poema che si chiamava “Pasarguada”, si tratta dell’arrivo in una città dei sogni, dove finalmente è permesso vivere.
Il primo verso era così:

“Vou-me embora pra Pasargada
Là sou amigo do rei
Là tenho a mulher que eu quero
Na cama que escolherei”
“Me ne vado a Pasargada
Là sono amico del re
Là ho la donna che io voglio
Nel letto che sceglierei…"

Nella valigia colorata misi tanti dipinti, fiori finti, qualche vecchia fotografia, un sari indiano e qualche altra cosa inutile, che servono soltanto a coloro che sono innamorati o ai clown.
Io ero tutti e due.
Avevo messo anche le scarpe di tessuto e due o tre vestiti.
La “coperta dell’attesa”, la misi in valigia per ultima perché dovevo cucirla fino all’ultimo giorno, quello che precedeva la mia partenza.
Mia zia mi diede una calzamaglia: disse che in Italia avrei trovato l’inverno.
Ignoravo qualsiasi cosa.

Il 9 marzo 2004 sarei partita per l'Italia, per Genova: un salto nel buio.

Katia

duemilaequattro


domenica 15 dicembre 2013

IMMAGINI 2003 - GIULIANO

foto cap. 1 - BRASILE 

una delle prime visite all'orfanotrofio.
senza nessuno nella camerata, piena di piccoli letti di legno vicini uno all'altro, vidi un pupazzo, abbandonato.

foto cap. 2 - KATIA
 questa foto la scattai a Katia, a sua insaputa, mentre guardava la sua Atibaia.

foto cap. 3 - INSIEME

un momento di uno dei nostri incontri nell'orfanotrofio maschile di Atibaia.

foto cap. 4 - ADDIO

Rio de Janeiro, un bimbo dorme sulla sabbia. Non è un turista.

foto cap. 5 - A GENOVA

uno dei ritratti che realizzai a tutti i bambini di un orfanotrofio.

IMMAGINI 2003 - KATIA

foto cap. 1 - BRASILE

Katia é Il clown " Pierina Pierino",  con il costume regalato dal Circo Ercolino-Italia
foto cap. 2 - GIULIANO

Un dipinto dell'inizio del secolo XX: Atibaia, sotto la sua montagna, con le sue due chiese principali.
foto cap. 3 - INSIEME

 Il clown Pierina Pierino, con parrucca arancione, per lo spettacolo : "La pugilista".

foto cap. 4 - ADDIO

Dettaglio della "coperta dell'attesa", un diario visivo della lunga attesa del giorno d'arrivo a Genova.

foto cap. 5 - A GENOVA

Il Murales ad Atibaia. Un lavoro che ha permesso a Katia di andare in Italia.



domenica 8 dicembre 2013

Capitolo 5: A Genova


Capitolo 5: A Genova

Dopo un momento molto critico, dopo una violenta “tempesta”, dovetti risolvere con la mia vita e mi costrinsi di fronte allo specchio per decidere e, finalmente, scegliere.
Avevo 36 anni.
Avevo già acquisito il primo livello di Reiki, e forse questo mi aiutò, dandomi il coraggio di ascoltare me stesso.
E vidi.
Due parole scritte nitide, nella mia mente: comunicare e bambino.
Pensai subito che erano distinte, ma allo stesso tempo unite.
Comunicare.
Ancora non sapevo esattamente cosa volessi comunicare, figuriamoci come, ma sentivo con certezza che una qualche forma di “comunicare” sarebbe divenuta la mia spina dorsale, il mio centro.
Bambino.
Aiutare un bambino.
Aiutare un bambino a comunicare.
Questo fu la mia istintiva addizione.
Col senno di poi, potrei anche ipotizzare che quel “bambino” fossi anche io stesso e, comunque fosse, la missione di quell’associazione di volontariato che creai e fondai poco tempo dopo, fu dedicata ai bambini, per offrire loro attrezzature e opportunità per comunicare.

Ritornando in Italia, viaggiai in uno stato misto a gioia e incredulità, entusiasmo e malinconia.
Un pò come avere la faccia triste e un sorriso smagliante.
I due aerei, il treno e l’autobus che mi avrebbero portato finalmente casa, a Genova, furono puntuali, nel loro interminabile viaggio di ritorno, e la mia abissale stanchezza era gratificata dal fatto che giungevo da un’avventura vissuta dall’altra parte del Mondo.
Ero ricco.
Ricco di emozioni, di cose ancora negli occhi, di racconti, di parole da urlare e da sussurrare.
E avevo bisogno di condividerle con qualcuno, con coloro che avevano creduto in me e nell’idea visionaria della darearte.
Così incontrai uno di loro, che al vedermi mi chiese:
-“Ma sei stato in ospedale?”
Forse dovevo avere un aspetto davvero debilitato.
Vuoi il viaggio, vuoi la stanchezza dell’ultimo periodo trascorso, ero molto dimagrito ed evidentemente sciupato.
Perlomeno rispetto al giorno della partenza, quando ero ancora qualcun’altro.

Attesi qualche giorno prima di uscire di casa.
Non riuscivo a raccontare ciò che avrei voluto e le mie parole e tutto il resto si disintegravano al loro nascere.
Ma nonostante questo, anche nel silenzio, sarei andato avanti, anzi, oltre.
Chiesi la modifica dello Statuto della darearte, per operare all’estero, e la trasformazione in ONLUS alle autorità competenti e così registrai i nuovi documenti, e si unirono nuovi associati volontari.

Vuotando i miei bagagli trovai ciò che avevo raccolto per non dimenticare di quel viaggio, nel caso fosse stato possibile.
Come sostegno economico, a diversi artigiani e artisti di Atibaia, compresa Katia, avevo acquistato alcuni pezzi, che andavano dalla bigiotteria, collane e anelli di fatture diverse, a piccoli dipinti, e li avevo portati in Italia con me.
Forse come accadeva 500 anni prima, quando, dopo il lungo viaggio nel Nuovo Mondo, gli europei esploratori ritornavano dai loro conterranei, con le cose raccolte, comprate barattate o depredate, agli abitanti nativi.
Ho immaginato che anche gli esploratori di 500 anni prima, avessero avuto la mia stessa sensazione, quando al mostrare gli oggetti raccolti, ci si rendeva conto che era davvero accaduto, che erano, per davvero, stati altrove.
Solo il confronto diretto con le vecchie cose, con le vecchie abitudini, permetteva di essere finalmente oggettivi e di confermare ciò che, si era provvisoriamente vissuto.
Così, muti testimoni del mio viaggio, più di immagini fotografiche che restano in una dimensione virtuale, quei gioielli senza valore commerciale ma con uno simbolicamente molto alto, divennero omaggio a coloro che stavano da quest’altra parte del mondo.

Sentivo nettamente che ciò che avevo raccolto, anche senza attenzione, in quel mese e in quel Paese, ora stava affiorando lentamente, come l’effetto di un’abbronzatura della quale non ci si rende conto nell’immediato ma che dopo, la sera, a casa, comincia ad uscire, ad arrossare la pelle, a bruciare, fino a far nascere bolle piene d’acqua che finiscono esplodendo per lasciar cadere a terra la pelle, ormai morta.

Negli incontri che avevamo avuto con i bambini degli orfanotrofi, avevo fatto dei ritratti, ad ognuno di loro.
Mai nessuno lo aveva fatto prima.
Mai nessuno li aveva fotografati, uno a uno, chiedendogli di sorridere, solo lui, o lei, per un momento dedicato a loro, felice.
Durante i giochi e i corsi didattici che abbiamo organizzato, a tutti i bambini e bambine presenti, ho fatto un ritratto fotografico, naturalmente con il permesso dell’Entità che li ospitava.
Tutti erano felicissimi di questo, nessuno si è tirato indietro, nemmeno per timidezza. Tutti mi sorridevano.

Non mi accorgo mai durante uno scatto fotografico, di ciò che esattamente accade dall’altra parte dell’obbiettivo. So della posa, di quale soggetto si tratti, so della tecnica, del taglio o di ciò che voglio e di come si veda nell’immagine, ma mai so cosa realmente accade, al di là di questo.
Direi che intuisco, semplicemente, il che vuol dire che so ben poco, di ciò che realmente sto registrando, in quel brevissimo eterno momento.

Qui, lo scoprii quando, immerso nella mia distrazione, sparpagliai le fotografie dei bambini sul letto della mia stanza.
Poco a poco rivelai, come si usa vedere in camera oscura, l’effetto nascosto di ciò che avevo visto e vissuto.
I sorrisi di tutti i bambini e  i loro sguardi erano su di me, in quel momento, in casa mia.
Piansi.
A singulti, senza controllo, nella mia stanza, con la sola compagnia delle fotografie, piansi, e senza voler sapere il motivo.
Quei bambini dovevano avere il loro ritratto.
Quei bambini non avevano mai visto sè stessi, in una foto, dove sorridevano, con l’intero volto.
Feci stampare le fotografie di ogniuno di loro, in diverse copie e le inviai per posta, per fare in modo che i volontari darearte in Brasile gliele potessero consegnare.

Ora potevo dire che avevo qualche informazione in più, sul Brasile e potevo studiare progetti con una visione più diretta.
Ma i costi elevati e le mie piccole finanze non mi permettevano di pensare ad un immediato ritorno, così fui presto riassorbito dal mio antico ritmo di vita, nel lavoro di fotografo e nella relazione sentimentale di quei giorni.

Ma ormai tutto era in via di cambiamento e io non potevo farci proprio nulla.



Giuliano

Capitolo 5: Genova


Capitolo 5: Genova

Nonostante la sua partenza, non divenni mai triste, anzi, i giorni erano diventati miracolosamente belli. La luce che avevo dal momento che mi sono innamorata di quell’uomo, era rimasta, anche in sua assenza.
Era una luce indipendente.

Iniziai a produrre una serie di dipinti, tutti contaminati da questa potente energia, e continuavo a costruire la “coperta dell’attesa”, con grande allegria.
Poteva essere che non tornassi più a rivederlo ma, stranamente, questo non riusciva a placare
l’entusiasmo che avevo preso nel vivere.
I dipinti, lo spettacolo, le lettere, qualsiasi movimento creativo mi apparteneva.
Era come se lui mi avesse lasciato incinta.
Piena di una nuova Vita.
Infatti, tutto era cambiato al suo passaggio, anche le cose pratiche.

Lo sguardo su di me, da parte della gente della Città, era cambiato.
Potevo essere ricevuta in qualsiasi ufficio, di qualsiasi settore, e mi offrivano anche un bicchiere d’acqua o una tazza di caffè.
Il nuovo Segretario della Cultura del Comune mi offrì un lavoro.
E un lavoro pagato!
Mi hanno commissionato un grande Murales da dipingere presso la Stazione Centrale degli Autobus.
Erano i primi frutti del mio avvicinamento all’associazione.
Nonostante darearte, non mi potesse mai retribuire economicamente, mi poteva dare molto in più: la credibilità, organizzazione e visibilità del mio lavoro artistico.
Inoltre, l’associazione mi manteneva sempre in contatto con l’umanità che avevo dentro.
In tutte quegli incontri agli orfanotrofi, insieme a Giuliano, avevo sviluppato un senso dell’amore verso ogni cosa.

Era una mattina, quando arrivai alla Stazione Centrale degli Autobus, per il primo giorno di lavoro del Murales.
Arrivai correndo, tutta vestita di rosso e avevo tanti fiori nei capelli.
Proprio nel posto dove stava la parete da dipingere, uno spazio di attesa degli autobus, vidi uomini e donne, che ancora si svegliavano.
Mi guardarono straniti e curiosi.
Anch’io li guardai stranita e curiosa.
Perché loro abitavano proprio lì.
Uno si voltò e si mise a pisciare dietro ad un cespuglio.
Comunque fosse, cominciai a preparare goffamente la parete per il dipinto.
Piano piano, si avvicinarono, gentilmente.
Si misero vicino a me e seguivano il mio lavoro, ridendo, per la maniera buffa e inesperta con la quale cercavo di stuccare i buchi e i difetti della parete.
Credo che fossero stati, una volta, tutti muratori.
I lavori continuarono per giorni e presto saremmo diventati amici,  e questo non fu difficile perché avevo ancora quella luce che pulsava dentro.
Nutrivo amore per loro, per la parete, per gli uccellini, per la mattina, per il colore e i pennelli che mi passava il Comune.
Quando la parete fu pronta al dipinto, così tutta bianca davanti a me, dovevo creare il Murales.
Non ebbi nessun problema, la soluzione si fece avanti da sè.
Invitai, tutti quanti, per essere ritratti e li dipinsi nel miglior colore.
Non come erano oggettivamente, ma come sognavano di essere.
Quanto abbiamo riso insieme!
Loro erano sempre attenti allo svolgere del lavoro.
Ad ogni giorno, mi aspettavano con ansia.
Qualcuno perfino si dimenticava di bere e restava sobrio, solo per meravigliarsi del proprio aspetto che aveva trovato nel ritratto. Era come se vivessero una nuova Vita dentro il dipinto.
Presto chiamarono anche i loro amici e parenti, e anche i funzionari della Stazione, per vedere i ritratti.
E siccome c’era ancora spazio nella parete, invitai chiunque volesse essere nel dipinto.
Si avvicinò una donna timida, triste e minuta.
Era la spazzina.
A voce bassa, mi disse che le piacerebbe essere ritrattata.
Aveva quarant’anni e undici figli, uno le era morto.
L’ho dipinta come la Madre Terra,  e ho messo una stellina accanto a lei, che rappresentava il figlio scomparso.
Era grata e felice e aveva effettivamente cambiato il suo aspetto.
Ora camminava a testa alta e rideva.
Siccome i miei dipinti erano naif, non fedeli alla realtà, scrissi sopra ogni ritratto il nome di ciascuno, così non si poteva avere alcun dubbio.
Infine disegnai due donne- angelo per proteggere tutti loro e anche chi passasse per quella fermata.

Questo fu uno dei primi lavori creativi dove adoperavo l’arte come terapia, come gioia, guarigione e cambiamento.
Ed ho potuto approfondire questo negli anni successivi, con i progetti che realizzai con l’associazione, e di questo sono molto grata.
Comunque, con tutta quella movimentazione nella Stazione degli Autobus, perfino il Sindaco arrivò per vedere il Murales e così conobbe tutti gli illustri ritrattati.
Ci hanno fatto anche una foto, che apparì in un articolo sul giornale.
Solitamente la vita di un Murales ad Atibaia era breve, ma il mio visse a lungo, intatto e protetto.

Dopo questo, l’associazione degli artisti del Municipio, mi invitò a fare un’esposizione personale, visto che non smettevo più di dipingere.
Le cose stavano andando a gonfie vele.
La mostra fu un successo, anche economico.
Inoltre, con lo spettacolo di clown con il quale avevo dichiarato il mio amore a Giuliano, avevo vinto un premio di migliore attrice femminile, in un Festival Regionale.
E questa visibilità mi permisse di realizzare questo stesso spettacolo, a vantaggio dell’associazione.
Avevo raccolto i primi fondi, un piccolo aiuto per i progetti del prossimo anno!

La Vita é sconvolgente.
Avevo tentato per tre anni, invano, di avere un biglietto aereo per l’Italia e adesso, in meno di un mese, ce l’avevo fatta!
Però, che strana combinazione, ora che potevo ritornare al Circo, questa non era più la priorità assoluta.
Il mio desiderio aveva spostato l’urgenza.
Ora più di tutto, volevo vedere Genova.

Katia

domenica 1 dicembre 2013

Capitolo 4: Addio.


Capitolo 4: Addio.

Il tempo era quasi finito, e da lì a poco sarei dovuto ritornare in Italia.
Avevo visto molte cose nuove, per i miei occhi e per la mia Anima.

Avevo conosciuto Atibaia, dal primo cittadino, all’ultimo uomo di strada.
Le sue contraddiziomi urbane e sociali.
La sua accoglienza e voracità per tutto ciò che potevo portare da quello che era considerato “il primo mondo”.
Avevo visitato praticamente tutte le Entità di accoglienza della città, incontrato e intervistato i loro responsabili.
Avevo conosciuto molte persone e famiglie diverse, di ogni ceto sociale, e un’infinità di bambini.
E quanta intensità, in così poco tempo, nonostante i giorni compromessi da pioggie, incidenti, impedimenti ed infortuni.

Una sera, prima di addormentarmi, avvertii un forte prurito ad entrambe le cosce.
Vidi che due nuovi nei erano spuntati dal nulla, uno per lato, arrossiti dal mio grattare, e non mi preoccupai. L’indomani mattina controllai e li trovai terribilmente gonfi!
Non erano nei, ma due zecche, nere, piene del mio sangue!
Non ero preparato a certe avventure ed in preda al terrore, me le strappai di dosso.
Allarmato per qualche infezione, fui tranquillizzato dai miei amici, che lo trovarono un fatto normale, soprattutto dopo aver visitato il monte di pietra che domina la città, Pedra Grande, con il percorso completamente immerso nella natura.
Inoltre quel tipo di parassita non era pericoloso, anche se non era il caso continuare a sfamarle con il proprio sangue.

E, come questo piccolo dettaglio, moltissimi altri eventi resero la permanenza di quel mio primo mese in Brasile, decisamente particolare.

Conobbi una donna che, mi disse, aveva percepito qualcosa di particolare in me e che avrei dovuto ricevere un dono.
E me lo fece.
Era Master Reiki, una disciplina orientale che già conoscevo, avendo ricevuto il primo livello circa un anno prima.
Il suo dono fu quello di portarmi al suo livello di Reiki, perché, riteneva che avrei dovuto assolutamente averlo, per quello che stavo vivendo, e avrei vissuto in futuro.
Così viaggiammo fino ad una spiaggia del litorale di Sao Paulo, a Sao Vicente.
Fu là che vissi l’esperienza di un battesimo nelle acque del mare, dove mi tuffai dopo il processo di ricevimento di tutti i livelli del Reiki, avvenuto sulla sabbia, sotto l’ombra delle palme di cocco.
Fu il bagno in mare più bello della mia vita.
Fu rinascere.
Era talmente entusiasmante e liberatorio che fui pervaso da una gioia incontenibile e mi sentii incredibilmente forte.
Da solo, felice, mi rituffavo nelle acque brasiliane, dove mi sembrava di esserci nato e stato da sempre.
Poi, sorridente, ritornai alla spiaggia, dove mi attendeva la Maestra che completò il rituale.
Ringrazierò per sempre questa cara amica per questo meraviglioso dono.

In un breve viaggio, giunsi a Rio de Janeiro, per un incontro con un gruppo di giovani artisti clown, con i quali avrei conversato sulla possibilità di collaborazione con darearte, ma non andammo oltre la semplice conoscenza, in quell’unico giorno della mia permanenza nella metropoli carioca.

Ma quel giorno fu decisivo per me.
Non dimenticherò mai la breve passeggiata sul lungomare di Copacabana e Ipanema.
Era come stare dentro una cartolina.
Dinanzi al mare più famoso del mondo, sulla spiaggia più famosa del mondo.
E il Pao de Acucar, e il Cristo Redentor, e il mare, e il Samba, e i brasiliani attorno a me.

Ma la sensazione di essere finalmente in un luogo straordinariamente bello, fu rapidamente spazzata via.
Non riuscivo a capire come si potessero fondere tra loro, pur restando ben separate e distinte, le diverse classi sociali che condividevano lo stesso spazio.
Vedevo giovani signore assorte nella loro ginnastica con indosso abbigliamento di grandi firme, distanti poco più di un metro da bambini sporchi, senza vestiti, addormentati su scalini che davano alla spiaggia.
O vedevo nei chioschi dei bar, persone obese, che ridevano allegre, saziare la sete con noci di cocco gelate, che una volta consumate, le gettavano nella spazzatura, precisamente dove si trovava un’altra persona, magra e smunta, con il volto distrutto da alcool e droghe, che raccattava lattine vuote.
E ancora giovani e anziani abbruttiti dalla loro miseria, vagabondare non lontano da un set fotografico, dove modelle fosforescenti erano impegnate sfilare con il costume da bagno all’ultima moda.
Questa gigantesca insalata mista di umanità, mescolata nei suoi livelli sociali più disparati, era un conflitto, dentro di me. Ma, intorno a me, nessuno scandalo.
Nessuno lamentava questo confronto diretto tra povertà e ricchezza, entrambe estreme, ai lontanissimi poli opposti. Anzi, sentivo che per tutti c’era una logica a me sconosciuta e che, da sempre, è così che andava.

Questa mescolanza sociale non era di certo a me nuova, e anche nelle altre città brasiliane vidi questi forti contrasti, ma qui a Rio de Janeiro fu diverso.
Come essere rintronato con un colpo sordo.
Ero frastornato e confuso.

Quei bambini, abbandonati e addormentati sulla sabbia, cosa sognavano?
E chi si allungava i muscoli, con quei bambini sotto gli occhi, cosa guardava?

Ma comunque fosse, se normale o meno, il mio cervello non realizzava nitidamente, forse per le troppe informazioni, nuove e conflittuali, ed entrai in un disagio, un lieve estraneamento alla realtà.
Un distacco accaduto, credo, per l’impossibilità di capire.
Smisi di parlare per due giorni: avevo visto il Brasile.

Si concluse la mia permanenza e mi preparavo al viaggio di ritorno in Italia.

Katia avrebbe portato avanti i progetti della darearte con delle attività che avrei sostenuto economicamente dall’Italia, ed ero felicissimo di questo perché il lavoro insieme aveva raggiunto ora la seconda fase, quella del passaggio del testimone.

Io non sapevo se sarei riuscito a tornare presto, ma Rio mi aveva dato un pugno in faccia tanto forte che, una volta in Italia, avrei spinto con tutte le forze la mia piccola organizzazione per tornare in Brasile, con maggior convinzione.

Dovevo congedarmi da Katia e lo feci un pomeriggio, a metà della strada che univa la sua casa a quella dove ero ospitato.
Mi resi conto che quel momento era molto delicato, per ciò che si era creato fra noi.
Ma dovevo concludere il mio viaggio e lo feci proprio lì, in quel distacco, salutandola emozionato, ma solo dentro di me, come ero abituato a fare da sempre.
Così la lasciai con un’arrivederci, per alleggerire tutto, e con la promessa che avremmo lavorato ancora insieme, anche fosse stato a distanza.

La salutai e me ne andai, senza voltarmi.
I miei pensieri erano come dentro un frullatore.
Io ero dentro un frullatore.
E di pessima marca: faceva molto rumore e consumava molta energia.

Lasciai Katia e poco dopo il Brasile.
Ma sentivo che li avrei rivisti, un giorno, entrambi.

Giuliano